Il cielo non è dei nostri
E insomma lui era lì, anche stanotte. Seduto sulla lavatrice, con quella sua specie di camicia da notte bianca in lino ma non color lino, proprio bianca. Sembra sempre reduce da una sudata pazzesca, ha quei capelli lunghi fino alle spalle un po’ ammazzettati e divisi al centro sulla fronte. Una bella fronte, liscia, da uomo giovane. Le rughe le ha tutte nello sguardo. E nel sorriso: ha i denti da lupo, lui. Sono come quelli di Dracula. Sono spaventosi quando ride. Menomale lo fa di rado penso, e poi me ne dispiaccio subito dopo averlo pensato.
È un tipo serio, uno a posto, uno che pensa. Alle cose del mondo e degli uomini. Il fatto strano è che ne voglia parlare con me, un ragazzino di otto anni. Cioè, ero un bambino di otto anni, quando ci siamo visti la prima volta. Poi ne ho avuti quindici, poi ventisette, poi trentacinque e poi cinquanta, mi ha visto diventare calvo, praticamente. Lui no, ce li ha i capelli, solo con qualche filo bianco adesso. È un bell’uomo, a parte le occhiaie da tossico, o ex-tossico, non sono mai riuscito a chiederglielo. E comunque fanno tipo, questo gliel’ho detto e lui ha sorriso, a labbra strette per non scoprire gli enormi canini a punta.
Grumi di sangue secco pendono dal dorso dei suoi piedi lunghi e magri, e dalle sue mani, bellissime, se non fosse per quei crateri purulenti e per i tendini rotti, che non permettono i movimenti a tutte le dita.
Quando entro in bagno, quelle volte che so che lo troverò di nuovo lì, nella sua solita posizione, me ne accorgo appena apro la porta, perché il bagno di quelle volte è il bagno di quando avevo otto anni, quello di quando ci siamo conosciuti, il bagno della casa vecchia, col pavimento in graniglia e il lampadario a cilindro in vetro bianco satinato di Murano.
Vedo filtrare la luce opaca e bianca del vecchio lampadario, con la punta del piede calpesto le mattonelle in graniglia grigia e nera, il cuore inizia a pulsarmi nelle tempie e so che lo rivedrò, con il mento appoggiato al ginocchio della gamba sinistra piegata, col tallone sul bordo della lavatrice Ignis di mia madre, circondato dalle sue braccia asciutte e scolpite e la gamba destra che dondola lentamente davanti all’oblò aperto.
Lui sarà lì, intento a scrostarsi il sangue rappreso dal collo del piede e alzerà lo sguardo ma non il mento, sentendomi entrare. Sorriderà, felice di vedermi, e i suoi canini appuntiti gli daranno fastidio, si imbarazzerà e io molto più io di lui, come quando avevo otto anni. Poi farà quel verso con le labbra e aiutandosi con la mano caccerà dentro la bocca i suoi denti da lupo, abbasserà di nuovo lo sguardo e tornerà stanco, tanto stanco. Continuerà a togliersi le croste dal piede, ad analizzarle una a una e ad annusarle, assaggiandone il sapore salato col la punta della lingua, prima di raccoglierle nel posacenere in cristallo, appoggiato sulla mensola, accanto alle lamette da barba di mio padre.
Come va, ci chiederemo a vicenda, e ci risponderemo che va come al solito. Gli dirò che hanno sporcato di nuovo la sua veste di sangue, e lui annuendo mi dirà che rientra nella loro natura, non ci si può fare più nulla, lui ci ha provato e ha fallito; magari fossero quelli i problemi. Che il problema enorme, il più grande, è l’innocenza. Che è nato tutto da lì, da quel peccato che nasce con noi e che ci sputiamo addosso gli uni agli altri, imparando da bambini e ferendoci a sangue. Che il cielo è dei violenti, non dei buoni. Che gli arroganti si son presi pure quello, agli altri non è toccato.
Non è vero che l’infanzia finisce quando ti dicono che Babbo Natale non esiste: l’infanzia finisce a otto anni quando trovi il Cristo in casa tua e ha i denti di dracula, gli occhi iniettati di sangue e succhia le sue croste e tu ti senti addosso tutte le colpe di quel mondo in cui ti hanno messo. Perché ti racconta tutto, lui, ti dice che non è vera quella storia del dopo tre giorni eccetera eccetera, che lui è sempre rimasto nel bardo, in quello spazio sospeso coi morti di là e i vivi di qua. E quando torna, adesso, gli è permesso di farlo solo attraverso l’oblò di una vecchia lavatrice in un vecchio bagno pieno di luce bianca. Ti dice che il bardo è fitto così di gente, che non si salvano nemmeno quelli che si fanno cremare, perché vi arrivano fatti di cenere. Ho capito, dico, tipo l’Uomo di Sabbia della Marvel, e lui annuisce ma non sorride, dice che per loro è tutto un dissolversi e un ricomporsi e un rimanere grigi in eterno e tossire, sapessi come tossiscono gli uomini di cenere.
Fa appena in tempo a dirmelo che il pavimento è di nuovo di legno iroko, la lavatrice è una moderna classe A e lo sportello dell’oblò fa clack e si chiude.
Prendo dell’alcol, tolgo le tracce di sangue dal bordo dell’oblò, svuoto le croste dal posacenere nel wc, tiro lo sciacquone e torno a dormire, che fra tre ore devo tornare nel mondo a cercare in tutti i modi di guadagnarmi il paradiso.