PARTITUREVincenzo Carriero

Venti sigarette

PARTITUREVincenzo Carriero
Venti sigarette

Sono una tipa da venti sigarette, cinque euro al giorno, una pancia che deve scendere. Così dice sempre mia madre, questa panza deve scendere, come se fosse il sacchetto dell'umido, oppure il cane. A proposito del cane, il mio si chiama Balù, un meticcio tutto pelo e cattiveria che abbaia a iosa e va in giro a stuprare i simili suoi.

 

Alla mia pancia pure ci ho dato un nome, si chiama Samantha, perché più la guardo, più mi sembra una cosa che vive di vita propria, ha una specie di personalità. A volte ci parlo pure.

 

Ciao Samantha, le dico, sono le sei in punto, lo vedi come è bello il cielo? si colora piano piano di argento. C'è ancora la luna, qualche stella che si sta spegnendo. Ma Samantha non parla, non può, se ne sta in un silenzio che dice molto, come quello di chi attende. È il primo giorno di ciclo, pure lui deve scendere, e Samantha protesta, mi regala un poco del suo dolore, è così che parla, e mi fa capire una cosa: Non tiene voglia di lavorare nemmeno lei. Che poi lo so, e pure lei lo sa, che in fabbrica ci sta la macchina da cucire che ci aspetta, una specie di mitragliatrice, un ta ta ta intermittente che se chiudo gli occhi lo sento, me lo sogno pure di notte. In mezzo a quelle borse sembra che ci annego, e pure Samantha lo fa. Che poi penso chi cazzo se le compra tutte 'ste borse. Madò. Se scrivo al masto e gli dico che oggi non vengo, quello è pure capace di rispondere che faccio buon, così dice, fai buon. E quando dice così, significa che ti devi stare a casa per sempre. E a me quelle trenta euro che mi dà mi servono. In questa casa siamo in sette, Mamma, babbo, mio fratello, il cane, la nonna, io e mio figlio Marco. Una cascata di riccioli biondi che ride sempre. Qualsiasi cosa succede, lui ride. Rideva pure quando suo padre mi abboffava di mazzate. Pugni sulla testa così non si vedono i segni, diceva. Scientifico.

 

Con Peppe è iniziata su di un sito di appuntamenti, uno di quei posti che sembrano reali, che all'inizio è pure divertente poi, se ci pensi bene, sembra di essere come certi cuccioli in vetrina, aspetti  che qualcuno ti viene a prendere. 

Quando mi dava le mazzate io me ne stavo a subire indifferente, non dicevo niente, neanche un lamento. Quello più mi lamentavo più me ne dava, è una cosa che ho imparato col tempo. Fissavo la pece che aveva negli occhi, e in quella notte senza luna cercavo l'uomo che mi aveva fatto innamorare. Un uomo che con le parole costruiva sogni e ponti, parole dolci e dediche per radio, hai preso il mio cuore, diceva. Insomma, pochi mesi e ci sono cascata, Eggià, quando sono uscita incinta a casa mia hanno fatto festa. Palloncini, bibite zuccherate, un grande striscione fatto di lettere appeso al muro, e una bocca in meno da sfamare, la mia. Io e Peppe ci siamo sposati in pochi giorni, ché la riparazione è un fatto da prendere a urto a urto, senza pensarci troppo. Non sia mai che Peppe avesse cambiato idea, chi lo sentiva a mio padre. Abbiamo celebrato nel mese di luglio, faceva un caldo che sudavo pure in mezzo alle cosce. Potevi tenerle chiuse, mi disse una volta mia nonna in preda a un raro sprazzo di lucidità. Eggià, quelli dicono che è demente.

 

Organizzammo un piccolo rinfresco in sacrestia, dolci fatti in casa, una torta a due piani, panna squagliata e fragoline di bosco, sposini in pasta di zucchero, bicchieri per lo spumante erano di carta; la macchina prestata da un lontano parente che vive su al nord, il mio vestito colorato di avorio, prestato anche quello, il doppio petto di Peppe, cravatta regimental e gioielli al polso. Nessuna luna di miele, solo un paio di giorni a Ischia.

 

Andammo a vivere in uno di quegli alveari fatto di case popolari tutte uguali a pochi passi dalla mamma di lui. Una intrattabile, sempre vestita di nero, secca come un cerino, capelli bianchi e pelle di tartaruga, che se ci ho scambiato due parole in tutta la mia vita non me le ricordo nemmeno. Anzi, una me la ricordo, stronza, così mi disse ché non avevo il latte nelle tette e Marco piangeva, e piangevo pure io. Ero una madre cattiva, inutile; e ci credevo. Sguardi storti, offese masticate e latte in polvere. Ci contavano pure le gocce di acqua minerale a mio figlio, che non sia mai beveva troppo. E quello i figli costano, così diceva il padre. Le prime liti con Peppe sono iniziate così. Una bottiglia di vino per amante, le cicche smezzate che solo quelle potevo fumare, eppoi devi stare zitta, muta, non devi pensare. Quando gli dissi che ormai ero pronta per tornare a lavorare, con un filo di voce, quanto mi mettevo paura me lo ricordo come fosse mò, lui fece finta di non capire. E io ancora a sussurrare, e lui ancora a fissare la finestra. La prima botta in testa, una sorpresa. Lo tenevo addosso, il suo peso mi toglieva il respiro, alito catramoso, mani callose, voce rotta dalla troia che mi gridava e io sotto desideravo le sigarette, il pacchetto Winston blu alla menta, il bambino che dall'altra stanza sentiva e piangeva e rideva. Volevo solo fumare e scappare e l'unica via d'uscita era la finestra. Ci ho pure pensato, ci ho pure provato, una volta. Avevo Marco in braccio e un sacco di brutti pensieri. Eppure sto ancora qua.

 

Dopo, il solito te l'avevo detto che rompeva il silenzio, la porta che sbatteva, scendo. Se ne stava fuori per un sacco di tempo, e io speravo che non tornasse più.

Tornava, scivolava nel letto, il suo cazzo duro si faceva presenza. Mi prendeva e sbrigava i fatti suoi, veloce, egoista; io glieli lasciavo fare. Fumo passivo, sesso passivo, pensiero passivo. La colpa era solo mia.

 

Ha perso il lavoro, ha preso il bere, la colonia che puzzava di pino, l'appuntamento fisso dal barbiere il sabato mattina, la dose settimanale di cocaina, le sigarette, lo sguardo truce, la macchina che ha dovuto vendere, per me è stato un giorno strano, e pure bello. Ci avevo il potere. Non era mai successo.

 

Seduto a capotavola, le mani giunte, le dita incastrate, il sorriso abbozzato, diabolico, seducente. Avevo capito. Chiamai il masto, che fece un po' di storie, la pecorella che torna all'ovile, disse, ti tengo in prova, ma niente figli, glielo dovevo giurare. La mia mitragliatrice stava ancora là.

 

Tempo un paio di giorni e ho cominciato a sparare di nuovo; cuciture a cottimo, senza bere, senza mangiare, senza riposare un attimo. Cucivo, sudavo, fumavo. Finalmente.

 

Tornai a casa contenta, la prima settimana, banconote colorate nella borsetta, una effimera sensazione di indipendenza. Perché è durata poco. Peppe mi accolse con la mano aperta, come quella di uno che sta controllando se piove, soddisfazione evidente, sorriso di lucertola, e due croste di sangue al posto degli occhi. La presa di ferro sulla borsetta, la mia, la sua, un patetico gioco di lotta a perdere. Eppoi il battito del cuore si fece tempesta, il dolore di Samantha che saliva, basso ventre, ombelico e pancia, le manine di Marco a ritmo di tamburo, urla stridule di delirio tribale; io la vista annebbiata, ricordi confusi, pieni di ovatta, come i sogni, la cinghia che cedeva fino alla rottura, e lui che frugava dentro la borsetta, come un bambino coi regali di natale, azione di affronto, reazione disperata, la mia. Fu veloce, mi bastò un attimo, ché quando perdi la testa è così, non volevo tornare indietro e lui, lui non se lo aspettava proprio; la dolce e molle consistenza sulle labbra, la puzza di pino, i denti che sentivano il contatto, come mantide religiosa ero? mica tanto. Confusa, come moto di bolla di sapone, e alla fine, esaurita la tenace resistenza, cadde in terra e fece un tonfo, gli occhi spenti, verso il soffitto, le banconote colorate strette in mano, la borsetta nell'altra, un sorriso planetario, e spento. Un lago di sangue sul pavimento, una gora che rigava il mio mento.

 

Eccomi, con un segreto che non l'hanno mai sgamato. Io, Marco e due valigie, mia madre che mi ha ripresa a braccia aperte. L'accompagnamento della nonna ha fatto effetto. Miracolo della centoequattro.

 

Mi affaccio alla finestra e l'aria è fresca, il sole spunta fra palazzi traballanti, vecchi su stampelle, rosso di polpa d'arancia, arranca come loro. Il sibilo del cell, nuovo messaggio. Mia suocera mi chiede che fine ha fatto, stronza, mi scrive, tu lo sai. È scappato con un'altra, le rispondo prima di bloccarla. Eggià, quello il figlio è tale e quale a Alendelon.

 

Apro il frigo e Peppe è lì che smiccia, occhi da pesce e lingua da cane, riposa fra una capa d'aglio e due scorze di melone bianco, e ha lo stesso odore acre di un assorbente usato, eggià. Avevo il suo cuore, così diceva, e me lo sono pigliato veramente. Colazione americana, vicino alla finestra. Accendo la prima sigaretta, Winston blu alla menta, ci azzecca. Balù si accuccia ai piedi del tavolo e scodinzola, ne vuole un pezzo. Sale la moka e mia madre si sveglia, la trovo che mi osserva a braccia incrociate, la schiena a poggiare sul muro di rimpetto, vicino al calendario di Frate Indovino, gli occhi cisposi, la solita vestaglia. Non mi saluta nemmeno, Mari', dice, quella panza deve scendere. È l'ultimo pezzo ma', da domani sono a dieta. E la testa? chiede ancora. Balù abbaia e salta in tondo, corre per tutta la cucina, si ferma accanto al frigo e con le zampe gratta sulla porta. Sembra un indemoniato. Io e mamma ridiamo.