Tre mosche
Gli ultimi giorni di mio nonno furono i peggiori della nostra vita, anche se eravamo piccoli per capirlo. Gli ultimi giorni di mio nonno furono i migliori della sua, di vita. Ma forse mio nonno era già troppo fuso per rendersene conto.
Mio nonno era uno di quei vecchi che sono vecchi fin da bambini.
Lo guardavi con quei suoi occhi stretti, incastonati come burroni tra rughe placide e spigolose, e vedevi un bambino vecchio, un ragazzo vecchio, un uomo vecchio. Era di una bellezza di quelle vere. A me in eredità ha lasciato solo un nasone che pare mi sia stato avvitato a forza sulla faccia. Il nonno era come una di quelle statue di bronzo che si vedono nei musei. Io come una di quelle caricature sui giornaletti.
Gli ultimi giorni di mio nonno cominciarono una mattina.
Il nonno tornò dal paese, scese dalla 127 tutta scarrettata e polverosa stringendo tra le mani nodose una cassetta di banane. Era sorridente, orgoglioso e fiero. Avresti detto che sembrava felice.
Io e mio fratello stavamo giocando con una rana tra le betulle. Vedemmo nostro padre che gli andava incontro e la nonna che assisteva alla scena dalla finestra della cucina, appollaiata sul davanzale insieme ai suoi due gatti ciechi. Il babbo si pulì le mani dal grasso del trattore. Aveva smadonnato tutta la mattina: Che roba è?, chiese al nonno.
Il babbo, io credo che lui si rese conto subito che qualcosa che non andava.
Non per la risposta del nonno: Sono banane, è logica.
Io ero piccolo e mio fratello era più piccolo di me. Quella scena ci fece ridere. Ma il babbo non era divertito. Pensai che stesse per sbottare contro il nonno ché aveva buttato soldi per qualcosa di cui non avevamo bisogno. C’era frutta a sufficienza sui peri e sugli albicocchi dietro il pollaio. Il babbo non disse nulla. Scosse la testa. Nei suoi occhi si agitava un’ombra, qualcosa di profondo, di sorpreso e terrorizzato.
Le mani del babbo iniziarono a tremare perché il nonno sorrideva.
E il nonno non rideva mai.
Per capire, dovreste vedere le foto di famiglia. Le poche che abbiamo. Un bianco e nero scivolato in un seppia opaco e stanco.
Il nonno e la nonna indossano espressioni severe, solenni e accigliate, un po’ ridicole. Perfino nelle più recenti foto del matrimonio dei miei genitori – quattro – posano seri. Gelidi e composti. Mio padre inarca appena le labbra sotto al naso da pugile – ha preso i tratti dalla nonna, sono quasi identici. La mia mamma ha invece l’aria di chi non sa se ha fatto la scelta giusta, o di chi non ha avuto la possibilità di scegliere. Sono venuto a saperlo solo da grande, ma in quella foto lì c’ero anche io, piccolo piccolo, un nocciolino nella pancia della mamma.
E adesso il nonno era lì con la sua cassetta di banane e la gioia in volto.
Il babbo mollò la presa e tornò al trattore e alle sue blasfemie. Io e mio fratello continuammo a giocare con la rana. La rana non sembrava divertirsi tanto.
Quella notte mi svegliai di soprassalto, sentii sbattere la porta di casa. Mi affacciai alla finestra della camera, che era al piano di sopra. Mio padre, a torso nudo e in mutandoni, sbraitava verso il buio.
Aguzzai udito e vista.
Il nonno, anche lui vestito di soli mutandoni, imbracciava la vanga e picchiava duro, dissodando la terra umida dell’orto e scagliando qua e là frammenti di insalate e zucche.
Mio padre urlò sottovoce: Che diavolo hai in testa?
Il nonno parve non averlo sentito. Intontito com’ero dal risveglio, immaginai che la voce del babbo fosse rimasta intrappolata nell’aria umida. O che qualcosa, o qualcuno, l’avesse fatta ristornare, frenare.
Il nonno mollò la presa e si voltò verso il babbo, e serafico fece: Pianto le banane.
Fu quello il primo degli ultimi giorni di vita del nonno.
Da quella notte si comportò in maniera sempre più bizzarra. La nonna se ne accorse, ma forse lo sapeva già da tempo. Più che raccomandarsi a suo figlio e al buon Signore, però, non poteva né sapeva fare.
Da quando mamma era morta, la nonna usciva poco di casa per via di un piede malmesso, e perciò pregava. Pregava di continuo.
Quando il nonno strambeggiava per l’aia lei si faceva il segno della croce tre volte con gli occhi chiusi e il respiro affannato. Tirava fuori del grembiule una sorta di crocifisso di rametti spinosi tenuti insieme da una striscia di stoffa con delle strane macchie rosse. Lo stringeva tra le mani callose, se lo portava al cuore, bisbigliava una cantilena di poche parole, una preghiera, un incantesimo segreto. Poi si segnava altre tre volte, rimetteva l’aggeggio in tasca – che io non lo sapevo ma se l’era fatto fare apposta da una vecchia in una capanna vicino al fiume, che le aveva insegnato anche le parole da dire e i gesti da fare – e zoppicava fino alla prima parete nei paraggi. Se stavi attento e smettevi di fare quello che stavi facendo, potevi sentire i suoi singhiozzi da metri di distanza.
La nonna pregava di continuo e piangeva molto.
Pianse tanto e silenziosamente anche quando una mattina di tarda primavera aprì la finestra e trovò i suoi due gatti ciechi a sgocciolare a testa in giù, appesi con dei ganci a una delle travi che sporgevano dal sottotetto.
Li riconobbe anche se non avevano più la pelliccia e le interiora erano state estratte da un taglio che apriva la pancia da cima a fondo.
Il nonno la vide piangere e , ancora con quello strano sorriso, le chiese: Non sei contenta che ho ammazzato i conigli per il tuo compleanno? Non era il suo compleanno e non erano conigli e non era contenta. Era spaventata e triste. Certo certo, rispose sommessamente, è per quello che piango, perché sono contenta. Toccò al babbo tirare giù le povere bestie spellate e metterle in un sacco. Devo andare in paese, disse, e mia nonna gliene fu grata.
Per evitare che il nonno prendesse la 127 e rischiasse di ammazzare qualcuno per strada, il babbo aveva smontato un pezzo del motore. Lo teneva nascosto nella vecchia gabbia dei conigli.
Ogni mattina il nonno saliva sull’auto e tentava di metterla in moto ma quella non dava alcun segno di vita. Lui sorrideva e apriva il cofano e biascicava parolacce e offendeva il meccanico che l’aveva fregato un’altra volta. Passava ore con le mani tra il radiatore e la batteria, senza mai smontare nulla. Tentennava su un pezzo, poi su un altro. Montava a bordo e girava la chiave. Nulla. Tornava a tentennare su un pezzo, poi su un altro, fino all’ora di pranzo. Quando a mio padre serviva la macchina, rimetteva a posto il pezzo mancante e l’auto partiva. Il nonno lo osservava e lo salutava con la mano, ma si vedeva che dentro la testa le rotelle giravano a mille perché la faccenda non gli tornava e però non riusciva a mettere a fuoco il problema. Allora si metteva all’opera nell’orto e noi bambini gli giravamo intorno perché il babbo ci aveva detto Controllate che non si faccia male o che non combini guai. Per noi era un gioco come un altro. E poi il nonno era diventato uno spasso. Ci insegnava trucchetti per fischiare con le foglie e i fili d’erba, legare le lucertole con le spighe di grano e portarle a spasso come fossero al guinzaglio. Rideva lui, ridevamo noi.
Un giorno, mentre era impegnato nell’ennesimo tentativo di aggiustare il motore, il nonno iniziò a parlare con qualcuno.
Non ne diceva mai il nome. Sventolava dita sotto nasi immaginari.
Sembrava così arrabbiato.
I suoi occhi si erano trasformati da burroni a baratri scuri che ribollivano come laghi di pece nera. Non alzava la voce. Non voleva farsi sentire. Sibilava qualcosa e tornava a curvarsi dentro al cofano, per poi riuscirne di scatto e scattare verso il nulla. Quando mia nonna lo chiamò per il pranzo, avanzò verso casa girandosi indietro due o tre volte, lo sguardo minaccioso e il corpo vibrante di rabbia.
Cattivo.
Le discussioni e i litigi con il suo nemico immaginario iniziarono a farsi sempre più frequenti e violenti. Io e mio fratello ridevamo di quelle stranezze. Io lo sapevo che non stava bene ridere, vedevo mio padre e la nonna che non ridevano. Una volta mi sorpresi a pensare: e se esistesse solo quella persona che nessuno può vedere, solo lei e il nonno? E se fossimo noi invisibili?
In piena estate il nonno ormai non dormiva più. Nel buio e nel silenzio, assistevamo al crescendo dei suo deliri: Zitto!, Zitto!, ringhiava, Fermo!, bastardo, pezzo di merda, ladro, assassino.
Il babbo usciva e lo afferrava per un braccio e la sua presa era così brusca e reale che il nonno si zittava, riportato tra i vivi dalla solidità di quel gesto. Seguiva docile il babbo fino a casa.
Gli ultimi giorni di vita di mio nonno la morte potevi annusarla, se sapevi che odore ha la morte. Furono i peggiori per noi, ma lui li visse gloriosamente.
La notte prima di morire, il nonno sgattaiolò al solito fuori di casa.
Ormai neanche ci svegliava più. Le sue battaglie erano diventate rumore bianco.
Se ci fossimo svegliati, avremmo potuto vedere il corpo scheletrico del nonno ondeggiare malfermo incontro al suo fantasma. Avremmo potuto ascoltarlo mentre gli soffiava come un gatto che era l’ultima volta che lo faceva avvicinare. Che lo avrebbe ammazzato. Che lo avrebbe aperto in due e gli avrebbe infilato le mani nella pancia e che gli avrebbe tirato fuori le budella e che ce lo avrebbe strozzato. Lo avremmo sentito urlare, sbraitare, sbracciare come un serpente in trappola. E avremmo sentito mio padre uscire e bestemmiare ancora una volta contro l’anziano genitore malato.
Se ci fossimo svegliati avremmo visto nostro padre vivo.
Non come lo trovammo la mattina dopo, quando scendemmo; con la pancia aperta e le budella attorcigliate intorno al collo. Il nonno era seduto accanto a lui e stringeva uno dei coltelli con cui ammazzavano i maiali, quando ancora ce n’erano in fattoria. Era tutto nudo e dalle rughe del volto e del corpo grondava una resina scura. Sembrava intagliato nel legno di un albero secco da millenni.
Presi mio fratello per un braccio e iniziai a correre più veloce che potevo trascinandomelo dietro.
A casa nostra non c’era il telefono. L’abitazione più vicina era a mezzora di cammino. Corremmo forte. Dicevo a mio fratello di non piangere, che era solo un brutto sogno e che se faceva il bravo si sarebbe svegliato presto e la nonna avrebbe preparato il latte con l’uovo sbattuto e forse il cioccolato come piaceva a lui. Arrivammo dai vicini quasi due ore dopo. Eravamo esausti e sporchi. Mio fratello aveva smesso di piangere da un po’, ma quando entrammo nell’aia, fui io a non riuscire a trattenermi.
Li trovarono così. Quando arrivarono i carabinieri e i mezzi di soccorso, il babbo era ancora in quella stessa identica posizione. Anche il nonno non si era mosso di un millimetro.
Un carabiniere si avvicinò lento. Noi eravamo in una delle due macchine di servizio, sui sedili di dietro. Ci dissero che dovevamo andare con loro perché non conoscevano la strada. Io credo invece che i nostri vicini non ci volevano tra i piedi e che i militari non sapevano dove metterci, perciò ci caricarono. Uno di loro ci intimò: Non guardate. Gli risposi che avevamo già visto, e lui: Fate come vi pare. I soccorritori si precipitarono in casa. Non la si vedeva in giro, ma noi sapevamo che dentro, da qualche parte, doveva esserci la nonna e li avevamo avvisati. Di lì a un paio di minuti, il soccorritore più esperto uscì di casa di corsa, si appoggiò al muro e si mise a vomitare.
Il nonno era seduto poco distante dall’orto. Aveva una gamba sotto all’altra e il coltello tra le mani. Il carabiniere lo chiamò. Stringeva la pistola in una mano ma teneva il braccio lungo il fianco. Lo chiamò ancora, il nonno non rispose. Gli toccò una spalla e il corpo del nonno rotolò su un fianco, le gambe rigide e stirate come quelle dei cani morti per strada. Le mani strette serrate intorno al manico del coltello.
Le palpebre spalancate del nonno fremettero per qualche istante. Tre mosche scivolarono fuori dalla pelle sottile. Si pulirono le ali senza troppa fretta e presero il volo.