Chiamami Malcom
Il mio mondo lo avrei voluto tirare su utilizzando mattoncini assemblabili, colorati, in gomma morbida. Piazzare piccole finestrelle bianche su minuscoli davanzali romantici stracolmi di fiori finti e realizzare microscopiche riproduzioni di vita animata dentro scenari perfetti, smontabili e riedificabili a piacimento.
Conoscere tutti i segreti del barbecue.
Sarebbe stato bello.
Avrei voluto vicini gentili e discreti in camicia bianca a maniche corte, un prato sintetico all’inglese da non rasare mai, finti rosai di rose bianche da potare, perfezioni da lucidare, una moglie bionda che trattiene il respiro e non scioglie il sorriso, e due bambine inclini a non essere educate, ma modellate.
Invece, no. Al settimo mese della mia prima e unica vita mi furono bucati gli occhi e le cose presero un corso diverso.
Aggiungiamoci, pure, che non ho mai conosciuto il mio nome e nemmeno il suo.
Nessuno, per favore, mi chieda come mi chiamo.
Come ho detto agli investigatori subito dopo l’irruzione: non–lo–so.
Come ho ribadito ai vari medici durante questa interminabile degenza in ospedale: non–lo–so.
Ma, se proprio volete, chiamatemi Malcom.
Mia madre mi chiede del sogno. Io ne accenno. Lei mi picchia.
Vuole conoscere i contenuti. Io esterno. Lei mi picchia.
S’imbroncia e pompa rancore.
«Con i tuoi sogni mi metti in cattiva luce», dice.
Io smetto di raccontare, lei mi chiede di continuare. Io racconto.
Lei mi azzanna una mano sino a farmela sanguinare. Ora dice che non mi so autocensurare.
Io mi zittisco, mi chiudo in me stesso, mi rifiuto di proseguire. Lei prende tempo, cambia argomento, mi domanda di che colore è il suo vestito.
Rispondo che posso soltanto tirare a indovinare.
Mi parla di una porzione arrugginita della rete metallica del letto, poi dice: «Prova».
Io obietto: «Mamma, ma sono cieco!».
Lei dice: «Non fare la vittima».
Io tento: «Nero?».
Lei risponde: «Sbagliato».
E mentre me ne sto seduto sul letto, si alza dalla sedia e mi colpisce con una gomitata.
La mia bocca sanguina.
Si risiede e mi chiede: «Sono una troia, secondo te?».
Io dico: «No».
Non sembra contenta della risposta, si rialza e mi stampa una ginocchiata dritta sullo sterno.
Mi chiede: «Sono una vacca, io?».
Io tergiverso. Accenno al fatto che le vacche, in fondo, sono importanti perché ci danno il latte.
Lei mi afferra il labbro superiore con una mano e con l’altra mi conficca uno spillone sulle gengive.
I denti me li ha strappati. Come forma di misura precauzionale. Ero un ragazzino.
Io tiro indietro la testa, lei grida: «Fermo!».
Io piango. A lungo. Sputo sangue.
Mi concede tempo.
I respiri si regolarizzano.
Mi placo.
«E allora? Forza, racconta! Riprendiamo daccapo».
Accetto l’invito.
«Ci sono dei cappotti appesi dentro un grande guardaroba, hanno tutti una manica lunga e una corta. A destra, in una bara aperta piazzata in un angolo, c'è il cadavere di un uomo con il volto coperto da un drappo nero. La sala è animata da camerieri impeccabili dall’andatura coreografica. Un ristorante di lusso in un mondo di lusso».
«E chi sono questi camerieri?».
«Non so mamma, non so. Gente che non conosco. Non conosco nemmeno il guardarobiere che fuma, alternandole, una pipa e una sigaretta. In verità, è vestito con una divisa da guardarobiera, è alto come certe drag queen e si lamenta perché nessuno fabbrica le ciglia finte con la stessa serietà e attenzione per il particolare di una volta. Mi dice pure che non gli piace che gli si dia del travestito».
«E perché gli dai del travestito?».
«Non gli do del travestito, non l’ho mai fatto. Né in questo né in nessun altro sogno. Ma a lui non interessa. Anzi, mi dice che se vuole può sodomizzarmi senza che io opponga resistenza e lo farebbe solo per dimostrarmi che, sempre se vuole, può togliersi questa etichetta di omosessualità passiva quando gli pare. Dice che, semmai, molti uomini, anche se non vanno di certo a dirlo in giro, lo cercano per la sua omosessualità attiva. Aggiunge che tanti maschi amano i pois di certi suoi vestiti, ma non lo ammettono. Dice anche che mi violenterebbe con la pipa, dato che il suo organo sessuale lo ha perso abusando di un ventilatore. Pale ingorde che non hanno tenuto a freno le loro smanie di protagonismo. Lui si credeva il padrone, e quelle si sono sentite come gli angeli della morte nella loro versione più affilata e inaspettata».
«Sei ripetitivo con questa storia della castrazione».
«Sei tu che trai conclusioni affrettate. Fammi continuare».
Sento il suo respiro. Mi si avvicina. Si riallontana. Tace.
«Il guardarobiere vestito da guardarobiera mette in dubbio la mia buona fede; non crede che io possa annusare quello che non riesco a vedere, non pensa che attraverso l’olfatto possano arrivare al mio cervello immagini con tale livello di dettaglio. Poi mi mostra la foto di una vacca sola e persa dentro un pascolo enorme – come la verde Irlanda moltiplicata cento e diviso nulla; uguale: l’infinito – e mi sfida: “Annusa questa, se ci riesci”.».
«E tu che fai?».
«Gli rispondo: “Ah, che senso di pace emanava tua madre”. Lui grida che è un trucco, vuole sapere come ho fatto a capire che quella vacca è sua madre. Replico: “Era tua madre, non è. Era”. Ignora le mie parole, mi intima di non provare pietà per lui, inghiotte il filtro della sigaretta, porta via la pipa dalla bocca e la punta in avanti a indicarmi il tavolo. Gli dico: “Ciao, amico”. Lui mi afferra e prova a baciarmi sulla bocca, io lo schivo e preciso: “Di te apprezzo soltanto la parrucca dal tono biondo avvolgente; è una cascata di voluttà”. Lui piange e grida: “Reinventatemi, allora”.».
Mamma sbuffa, dice: «Avrebbe fatto bene a spaccarti il naso, la tua proiezione avrebbe fatto bene a spaccarti il naso».
«Non è la mia proiezione, mamma; e te lo dimostro. Qualcuno, il meno sospettabile, scambia l’invocazione del guardarobiere per un’evocazione e, come i leoni al circo che alzano la zampa davanti al domatore, il cadavere esce dalla bara. E cammina. Ha un baffo curvo, lungo e sottile, e nei pugni stringe due matite acuminate. Le punte scintillano. Il cadavere trapassa le orbite del guardarobiere lasciandovi, conficcate, le matite. Gli occhi non sanguinano e io grido al miracolo. E penso che, probabilmente, per la prima volta un uomo grida al miracolo per un paio d’occhi che non lacrimano sangue. Gli occhi non sanguinano, ma lui muore lo stesso».
«E questo dimostrerebbe che il guardarobiere vestito da guardarobiera non è la tua proiezione? Solo perché muore? Mio caro, tu uccidi te stesso».
«Ascolta il resto prima di trarre conclusioni. Il Responsabile di Sala – assieme a un tipo che si fa chiamare il Capo Cerimoniere e a una nana con un seno enorme, completamente nuda e con un giaguaro al guinzaglio – mi accompagna al tavolo. Mi siedo. Il Capo Cerimoniere passa alla nana una lavagnetta e si fa consegnare il felino. Lei afferra la lavagnetta con entrambe le mani, la alza, la mostra e col passo da casta in calore, sfregando le cosce tornite, ancheggiando con eccesso lascivo, sentendo un orgasmo montare: va per la sala. Chiede, eccitata, ai presenti di leggere bene.
«Si alza un coro e una risata: “Anche–se–tua–madre–ti–ha–bucato–gli–occhi–e–ti–ha–lasciato–dentro–una–culla–per–sempre–ora–è–arrivato–il–momento–di–fartene–una–ragione”. E tutti guardano me. Capisci mamma, me».
«Ti stai immedesimando. Non provare a mettermi al centro delle tue frustrazioni solo perché da piccolo ti ho bucato gli occhi».
«Non ti metto in mezzo, ma nel sogno una vampata di calore mi incendia la faccia e m’imbarazzo. Ho paura che la mia reazione induca i presenti a pensare che le parole sulla lavagnetta abbiano una valenza autobiografica. Quando io, in verità…».
«Quando tu, in verità…?».
«…non ho ancora finito di fare i conti con la mia carceriera che, dopo avermi portato in grembo per nove mesi, dopo avermi tenuto in ostaggio rifiutandosi di abortirmi, mi ha poi strappato gli occhi perché guardassi il mondo con i suoi».
«Che vuoi dire? Ce l’hai con me?».
«Sarebbe ingeneroso?».
«Idiota, meno sarcasmo e vai avanti col sogno».
«Sono in imbarazzo, voglio sprofondare, ma è il Capo Cerimoniere a sparire. Alla nana e al giaguaro basta uno sguardo. L’animale mostra i denti; gli occhi della nana scintillano dando lezioni di ferocia consapevole. L’animale comprende l’ordine, scatta, azzanna e sviscera. Il ventre del Capo Cerimoniere si presenta adesso nella sua migliore versione pulp. Dalla bocca del felino penzolano, ai lati, tratti intermedi di un intestino umano. Il giaguaro muove due passi; dalle viscere che ha tra le fauci scivola un biglietto insanguinato. La nana lo raccoglie e lo legge a voce alta: “Non sono mai stato tuo padre”. La sala esplode in un boato, applausi e scene di giubilo. La nana viene sollevata e portata in trionfo. Sorride, pare si sia pacificata. Si forma un trenino come durante un veglione, l’ultima notte dell’anno. La nana ha la fica bagnata».
«Cazzo, ti sei ficcato dentro la banalità di un complesso edipico. Ragazzo, sia tu che io sappiamo chi è il Capo Cerimoniere. Tu sai chi si sta uccidendo».
«Il tuo è solo un banale cliché. Ma non è questo il punto, ci sono dei particolari tutti da spiegare».
«Tipo?».
«La bottiglia di vino sul mio tavolo ha la metà superiore piena e la metà inferiore vuota. Il liquido rosso galleggia sull’aria sottostante. Un pesciolino rosso ansima sul fondo della bottiglia, batte la coda con sempre meno energia. Poi si placa».
Lei rimane dentro il silenzio di chi non ha una risposta. Io continuo.
«Dopo la scena del giaguaro, al mio tavolo siede un uomo anziano, poggia il culo sul bordo della sedia, tiene le gambe serrate e con le mani si accarezza, accelerando gradualmente, le ginocchia. Come se avesse freddo. Sulla parete un vecchio proiettore manda le immagini del mio sguardo vuoto e del suo sguardo assente che si alternano a un ritmo prima incalzante e poi frenetico. Finché tra il suo sguardo e il mio sguardo non resta che un nanosecondo. L’occhio umano smette di percepire l’alternanza e il mio sguardo e il suo sguardo si fondono in un’immagine fissa attraversata da un tremore elettrico. Il proiettore avvolge completamente la pellicola, l’immagine rimane proiettata sul muro, la bobina continua a girare a una velocità inverosimile. Il proiettore si surriscalda, gocce rosso sangue cominciano a imperlarne la struttura metallica. L’avvolgono. Le parti in plastica si liquefanno. Il proiettore si squaglia in tutte le sue componenti sino a dissolversi. Non resta niente, a parte una chiazza di sangue e quattro bulbi oculari. L’immagine è sempre lì, fissa e tremolante sul muro».
«Sei un’identità irrisolta, un essere sovrapponibile. Mi fai schifo», dice lei, cominciando a perdere il controllo.
«Non ti sto raccontando questo sogno perché tu possa analizzarmi. Fammi finire».
«Farti venire? Non so se ne ho voglia».
«Ho detto: “Fammi finire”.».
«Non so se ne ho voglia».
«Sì che ce l'hai».
Alzo la voce, due toni in più, e me ne pento.
«L’anziano mi fissa, apre la bocca e resta così. Aspetta. Mi fissa, come se io ignorassi la sua sfrenata voglia di essere ancora un orologio a cucù. Come se non conoscessi le dinamiche che lo portarono alla castrazione. Ti spiego: lui era stato un orologio a cucù in un tempo in cui gli orologi a cucù, come quelli a pendolo, avevano dignità, sobrietà, aristocrazia, eleganza, e anche buon cinema, ma aveva infilato l’uccellino dentro le pale di un ventilatore – uno dei primi modelli rudimentali – che si faceva chiamare: Il Boia».
«Ma gli altri presenti, nel frattempo, rimangono indifferenti?».
«No, anzi. Si apre un dibattito. Si discute se, anche senza uccellino, si possa pretendere di essere riconosciuti come orologi a cucù. Presentarsi come orologi a cucù. Essere orologi a cucù. E, soprattutto, in caso contrario, quale sconvolgimento può rappresentare la perdita d’identità? Di questo si parla. Ma nell'infervorarsi della discussione all’improvviso l’uomo orologio a cucù senza uccellino, a cui ormai nessuno avrebbe più attribuito nemmeno la patente di semplice orologio, si avvicina al mio orecchio e con la bocca perennemente spalancata sillaba con la voce artificiale di un cazzo di registratore magnetico nascosto dentro le viscere: “Mia madre non c’entra niente con questa storia di castrazione”. Non so che dire, devio su un “mi chiama il cameriere, per favore?”. Lui risponde: “Certamente, signore”. Si alza, fa due passi e si dissolve».
«Sei solo un narciso».
Ignoro la battuta. Continuo.
«Arriva, comunque, un cameriere. Evocato da un gruppetto di: quattro signore anziane e possedute, un tavolino a tre piedi, una seduta spiritica e la risata del diavolo. Il cameriere sta dritto davanti a me. Non ha la bocca, il notes su cui annota le ordinazioni non è sorretto da alcuna mano, la penna sospesa in aria è pronta a muoversi da sola. Sembra pure nervosa, come se non vedesse l’ora. L’uomo è anche privo di entrambi i piedi, ma non ne ha bisogno perché è staccato di almeno venti centimetri dal pavimento. Mi chiede di ordinare con una voce femminile. Io sobbalzo, perché lo trovo strano.
«Non ha la bocca. Cazzo.
«È un ventriloquo? Cazzo.
«O ha una bocca nascosta da qualche parte? Cazzo.
«Mi apro in un sorriso di sollievo: mi accorgo che acquattate sulla sua spalla sinistra, timide, ma con la voglia di farsi notare, tengono il broncio un paio di labbra carnose e lucide. Da donna. Si muovono indipendenti e leggere come ali di farfalla e dal labiale capisco che mi dicono: “Che cazzo guardi, mon amour”. Poi spiccano il volo e scappano via. Il cameriere mi pianta e le insegue galleggiando nell’aria, muove le gambe e sale come se affrontasse una rampa inconsistente di scale».
«Tu non riesci a concepire una via d’uscita se non in termini di via di fuga. Tra affrontare e scappare, tu non hai dubbi».
«È vero, ma questo accade perché quando non scappo finisco sempre in un angolo e i miei incubi cominciano a picchiare. Magari se tu smettessi di somministrarmi farmaci che, tra l’altro, hanno nell’impotenza un trascurabile, come dici tu, effetto collaterale, forse non scapperei più. E se poi, quando mi lavi, lanciandomi addosso secchiate d’acqua gelida, la piantassi di deridermi per la mia scarsa virilità, forse non elaborerei piani di fuga.
«Ma lasciamo stare.
«Nel sogno nessuno mi serve nulla. Mi verso il vino da solo, ma si svuota solo la parte inferiore della bottiglia. Quella vuota. Scivola dentro il bicchiere il pesciolino morto, mentre il vino resta dentro.
«Mi sto spazientendo per il servizio, alzo lo sguardo e perlustro in cerca di un interlocutore. Ma la mia attenzione la cattura un uomo molto elegante seduto al tavolo di fronte. Conficca delle olive dentro le cavità orbitarie della moglie e, ad ogni oliva, volge lo sguardo verso di me. Mi chiede: “Sta apprezzando?”; e io: “Non vedo nulla, signore; e annuso fino a un certo punto”. Allora mi incita a partecipare: “Non sia discreto, osi, chieda, si lasci coinvolgere; a noi non costa nulla farlo e poi, a dire il vero, solo così lei raggiunge l’orgasmo. Vuole provare?”.».
«Il tema degli occhi è troppo presente dentro di te. Te li ho bucati da piccolo, e allora? Tu sai cosa significa provare a proteggere un figlio dall’orrore?».
Cala un pausa che lascia: me seduto sul materasso tra chiazze di piscio, vomito e sangue; lei sulla sedia a meno di un metro di distanza. Sento il suo alito caldo, il suo respiro faticoso da obesa.
Ricomincio.
«Quando noto un signore portare con naturalezza un bel paio d'occhiali e mi rammarico: “Peccato che non abbia la testa”; accetto che stiamo diventando una grande famiglia.
«L’aria si fa informale. Addirittura, non mi stupisco per un tipo che sembra essere il proprietario del ristorante. Se ne sta seduto alla cassa e mangia spaghetti afferrandoli con le mani. Ogni spaghetto ha occhi di serpente, si muove sinuoso e schizza veleno. Il proprietario li sgozza uno per uno e poi li ingoia.
«Ora mi sento come chi ritrova la casa dopo un lungo viaggio, ma è solo un momento, abbasso il capo, annuso, e sul mio tavolo un grosso coltello da cucina conficcato nel legno sembra voglia parlarmi. Vibra, come se fosse appena stato scagliato dal suo lanciatore.
«Io non ho ancora ordinato.
«Un cameriere mi disillude: “È solo un inganno ottico, bastardo; è sempre un inganno ottico, coglione, hai ordinato e anche consumato”. Un altro mi afferra, mi trascina, mi chiude in un angolo del locale e mi ricorda i miei obblighi: "Ora paghi il conto!".».
«Finisce così?».
«No. Mi sveglio, il cuore martella, apro le palpebre e non cambia niente. Mi lascio cadere, mi sento triste, mi riaddormento e riparte il sogno.
«Un grosso coltello da cucina, e non mi è nuovo, mi apre il torace descrivendo a voce alta e con dovizia di particolari l’operazione. C’è solo lui, nessun chirurgo. Io e lui dentro una sala operatoria. La voce proviene dall’interno del suo manico. Sostiene che mi restituirà la vista, definitivamente. Che la mia è una cecità del cuore. Assicura che non sarà più necessario annusare la vita ricostruendola. Mi chiede se sono pronto. Ripete più volte che, in un primo momento, sembrerà il male, ma sarà il bene. Che molto di ciò che è stato considerato male, percorrendo la vita all’incontrario, ci si accorge che era bene. E viceversa. Sottolinea che, in fondo, la mia vita era oscena.
«La punta si conficca dentro il mio cuore e, il coltello, effettuando un movimento secco, lo asporta facendolo saltare fuori. Fa plooofff sul pavimento, posandosi lento, come paracadutato.
«Entrano due infermieri, mi chiudono il torace, lo sigillano verticalmente con una striscia di nastro adesivo da imballaggio, ne ripassano un’altra per prudenza, mi trasportano via. Io, sulla lettiga. Attraverso un corridoio lunghissimo, le ruote cambiano continuamente posizione, come una bandiera impotente preda di una giornata ventosa. Il ritmo sale, nemmeno fossi un’urgenza.
«Le porte sbaragliate, io che irrompo su un enorme piazzale. Mi caricano su un’ambulanza e via. All’altezza del primo ponte il mezzo si stoppa, due addetti scendono, aprono i portelloni posteriori, mi tirano fuori e mi buttano sotto. Si puliscono le mani sui lati dei pantaloni, le battono con un movimento che ricorda i suonatori di piatti nelle bande musicali di paese durante la fiera del maiale, risalgono e se ne vanno fischiettando un motivetto dal gusto un po’ retrò».
«Capisci da solo quanto tu sia ossessionato dal tema dell’abbandono», obietta lei.
«Non direi. Perché mi risveglio sdraiato sopra un prato verde umido. Il sole distribuisce luce gratis. Nel cielo, di nuvole, nemmeno una. Una vacca staziona sopra di me, impallandomi la visuale. Accanto ho il mio vecchio cuore ancora pulsante. E per la prima volta – malgrado la vacca che continua a impallarmi la vita – sento di star bene».
«è vergognoso il trattamento che mi stai riservando in questo sogno. Sei un ingrato, uno schifosissimo ingrato».
«Non cominciare a piangere, ti prego. Sempre i soliti mezzucci. Mai un atto di coraggio, sempre a gestire potere. E che cazzo, non sei tu la vacca».
«Sì che sono io», ribatte lei.
E piagnucola.
«No che non sei tu! Lascia stare! Semmai, mamma, ascolta il finale.
«C’è la pace. L’odore di un temporale che sembra essere appena cessato, a terra non è rimasto più nulla, ogni foglia è stata spazzata via dal vento e dall’acqua, ci sono solo pozzanghere che riflettono tutte lo stesso volto stravolto di donna. Da una delle pozzanghere parte un arcobaleno, un foglio di carta con sopra un appunto svolazza nell’aria, si posa sull’acqua, l’inchiostro sbiadisce, si scioglie, una frase lentamente scompare: “La vita è lunga, dura un’intera notte”.».
«Me ne vuoi fare una colpa?», dice lei.
«Non so, però devo dirti che in fondo al sogno ci sei tu, accanto alla vacca, che mi minacci con un pugnale – venti centimetri di lama non seghettata larga due e mezzo – e lo chiami: il bisturi dell’amore».
«E tu?».
«Io mi alzo in piedi, allargo le braccia e grido: “Mamma, per favore, chiamami Malcom.”.».