L'intrusione
Nonostante l’abbia vissuto in prima persona, quello che vengo ad esporvi non sono certo si tratti di un fatto realmente accaduto.
Venerdì primo novembre 2019, nel giorno di Ognissanti, rinvenimmo il corpo privo di vita di una giovane ragazza all’interno di una casetta in pietra abbandonata, praticamente un sudicio rudere invaso da rifiuti e foglie umide appassite.
Impiegammo circa due ore a trovarla da quando quel mattino, attorno alle 10, la madre, Giovanna Aureli, si annunciò al mio portone con quelle che dovettero essere decisamente tre brusche pigiate sul campanello; fu mia moglie a farla entrare e a ricevere le sue prime sconclusionate e ansiose parole, tanto ansiose che quando la raggiunsi in salotto, complice il dettaglio che mi fossi appena svegliato, impiegai buoni cinque minuti solo per capire chi fosse il soggetto del suo delirare.
In breve, la sera precedente la figlia era andata ad una festa di Halloween e quella mattina, non essendo nella sua stanza e non rispondendole al cellulare, aveva fatto un giro di chiamate e più o meno tutte le sue amiche asserivano di averla vista uscire intorno alla mezzanotte dal pub GoodSnow insieme ad Augusto Bovi, un ragazzo con il quale si frequentava da qualche settimana. Ma Augusto Bovi non le riusciva di rintracciarlo e allora, tanta la preoccupazione, dovette proprio spingersi fino al mio domicilio, poiché la caserma quel giorno, sotto mia cordiale concessione, era rimasta chiusa.
Congedai la signora, nonché vedova Aureli (ripeté almeno tre volte di come il marito fosse scomparso da poco), confortandola e rassicurandola sul fatto che ci saremmo messi subito in cerca e che presto le avremmo dato notizie; quindi chiamai mio figlio, che ai tempi era anche mio vice – e che se non fosse stato per questa allucinante giornata adesso avrebbe preso il mio posto –e spiegatagli la situazione lo esortai ad andare a controllare con discrezione a casa dei Bovi, ché da quello che ricordavo il padre di Augusto, Cesare Bovi, aveva fatto le medie insieme a lui e sporadicamente ancora si frequentavano.
Ero sereno, sicuro, convinto senza l’accenno di un dubbio che la ragazza sarebbe saltata fuori dal letto di quell’Augusto e che il tutto si sarebbe concluso con la solita e proverbiale ramanzina che una madre in apprensione può riservare ad una figlia negligente; quindi mi ero seduto in cucina e avevo chiesto a Caterina, mia moglie, se per favore non le fosse dispiaciuto mettere a bollire un po’ d’acqua per prepararmi una tazza di tè con poco limone e un cucchiaino di miele, ché come la sa fare lei non la sa fare nessuno.
Lo squillo del mio cellulare si sovrappose alle impressioni che le aveva suscitato quell’Aureli, che con quelle occhiaie plumbee scavate nel volto e quelle guance avvizzite risucchiate tra gli zigomi le era sembrata una tipa già da un bel pezzo fuori da ogni grazia di Dio. Risposi e mio figlio aveva un tono angustiato e fu talmente conciso e infausto da farmi alzare quasi immediatamente dalla sedia: “Qui la ragazza non c’è e a questi non so cosa gli prende”; mi precipitai al piano di sopra, in camera da letto, tolsi la vestaglia e indossai i miei soliti abiti da lavoro e dissi a mio figlio di venirmi prestamente a prelevare nella sua ormai ex dimora; cominciai istintivamente a pensare a tutti i peggiori scenari possibili nei quali quella figlia potesse essere incappata e, pur sperando il contrario , temevo che difficilmente l’avremmo trovata ancora in vita in uno di quelli.
Pochi minuti ed ero già a bordo della jeep bianca di mio figlio. Di comune accordo decidemmo di dare un’occhiata per primo al GoodSnow e subito gli chiesi di specificarmi cos’era che non lo aveva convinto nei Bovi. Cesare era stranamente nervoso e sbrigativo mi disse, come se fosse stato preso alla sprovvista e avesse avuto paura di dire anche una sola parola di troppo; mentre sua moglie, Angela, aveva impiegato non si sa quanto tempo per preparare un imbevibile caffè lungo che era venuta a servire quasi tremando e aveva proferito, dopo essersi seduta insieme a loro in soggiorno, solo timide e inquiete frasi di circostanza…e improvvisamente Augusto si era precipitato giù dalle scale tutto imbacuccato in una sciarpa nera e in un lungo cappotto grigio e su esplicite domande di mio figlio a proposito di Valentina Aureli, aveva infine risposto, testuale mi disse mio figlio: “Non ho la minima idea né di chi sia lei né di chi sia questa Valentina Aureli”. Ed era uscito lasciandosi la porta aperta alle spalle.
Mio figlio allora lo aveva seguito sulla veranda per chiedergli spiegazioni e incredibilmente quello in quei pochi secondi sembrava essere sparito dove era impossibile sparire, nello spiazzale deserto di fronte a quel nucleo residenziale; dentro la casa i genitori erano restati immoti, come indifferenti e inermi, e solo Cesare Bovi si era limitato a difendere genericamente Augusto, dicendo che era un ragazzo giovane e bisognava lasciargli vivere il suo tempo.
“Ma quello non era Cesare”, proseguì mio figlio, con quelle pupille dilatate e in tensione che parevano non sbattere da ore e con quelle movenze compassate da automa. Gli aveva dato l’idea di essere come ipnotizzato o drogato, o comunque in uno stato di trance indotto da chissà chi o da chissà cosa.
E Angela aveva sorriso!, ricordò ancora incredulo, aveva sorriso e aveva lanciato un paio di occhiate al soffitto, o al lampadario, o al piano di sopra ipotizzò mio figlio, credendo le stesse suggerendo la Bovi di recarsi al secondo piano per constatare la presenza della ragazza; ma non c’era, né nella cameretta di Augusto né altrove, e quando era tornato in soggiorno i due non si erano minimamente disincantati dalle loro psicotiche pose sul divano e non si erano neanche inalberati per l’eccessiva sua sfacciataggine nel girovagare per la villetta, affatto; Angela si era addirittura scusata per il disordine generale e per la stanza sicuramente lasciata un disastro da “quella peste di mio figlio”.
“Sembrava una messa in scena però recitata appositamente male…la messa in scena di una messa in scena!” Stentava ancora mio figlio a farsi una ragione di quanto aveva appena vissuto.
Per arrivare al GoodSnow dovemmo attraversare la piazza dirimpetto la chiesa, in quel momento-erano le 11 passate, la messa era appena iniziata-sicuramente colma della maggior parte delle famiglie e dei “fedeli” di Rocca di Corna.
Di fronte al pub (una baita neanche troppo grande sulla quale più di una volta abbiamo sorvolato per quanto concerne la questione della “messa a norma”) per un 400, 500 metri massimo, si dipana la vallata del Monte Parallelo, finché per l’appunto questo non si staglia su nel cielo sino a toccare quota 1815 metri sopra il livello del mare (circa 666 se misurati dalla suddetta valle-per via di questa fatalità numerica soprannominata Valle del Demonio).
Stavamo setacciando i dintorni del locale quando Arturo, mio figlio, asserì di riconoscere l’immobile sagoma di Augusto Bovi che sembrava fissarci dal centro della vallata; immediatamente ci dirigemmo verso di lui accelerando via via il passo e quando gli fummo a meno di 100 metri e cominciammo a chiamarlo questo scappò di lato immettendosi lestissimamente nella stradina che penetra il monte; subito mio figlio prese a corrergli dietro intimandogli di fermarsi mentre io ,non senza patemi, arrancavo e inciampavo in preda al terreno zolloso e agli affanni dei miei sessantacinque anni inoltrati.
Il sentiero era cosparso da un dito di foglie secche e rossastre che andavano cadendo in quei giorni e tutt’intorno erano perlopiù betulle e faggi spogli soltanto per metà; passai sotto gli spettrali seggiolini della “faglia” e dopo una cinquantina di metri udii la voce di Arturo chiamarmi disperatamente dal rudere in pietra; una volta giunto nei pressi della casetta, mi spiegò concitatamente, era stato lo stesso Bovi ad indicargliela dichiarandone freddamente il tremendo contenuto.
Stava distesa lì, perfettamente supina, tra bottigliette in plastica, vetri spaccati e paccottiglie di ogni genere; le calze a rete strappate in più punti, un paio di pantaloncini neri di pelle e una felpa bianca con un piccolo e circolare alone verde inodore e asciutto all’altezza del petto; il volto completamente ricoperto da cerone bianco con dei rivoli rossi e blu attorno agli occhi e i capelli biondo platino attraversati da mèches rosa legati sopra la testa; abbigliamento e trucco tipici delle feste di Halloween mi disse mio figlio.
Era morta, senza una causa fisica evidente che in quel momento potessimo ipotizzare data la totale assenza di eclatanti segni sul corpo.
Arturo era in preda al panico, al terrore più sconsiderato; per di più né il mio né il suo cellulare in quel momento prendevano campo e assurdamente nessuno dei due sembrava in grado di affrontare neppure le chiamate d’emergenza. Poi uno schianto, più in alto, nel mezzo del bosco, come un tuono scagliato a richiamare la nostra attenzione… per destarci… per invitarci.
Uscimmo dalla casetta e ci rimettemmo sulle tracce del Bovi.
Prendemmo a salire in mezzo alla vegetazione monotona e disorientante, tra brevi e diradati banchi di nebbia e tra le innumerevoli foglie scroscianti sotto i nostri passi; spiegavamo le pistole a mezz’aria e mio figlio si girava nervosamente in tutte le direzioni mentre io cercavo di mantenere il più possibile una qualche specie di calma.
Dopo non so quanto tempo ci imbattemmo senza neanche accorgercene nella recinzione della Nido d’aquila, una vecchia e dismessa base militare concepita ai tempi del fascismo; e avvicinandoci ad essa notammo il cancello principale essere completamente sbaragliato, annichilito a terra come se qualcosa di enorme e compatto lo avesse precedentemente sfondato ;mentre lo oltrepassavamo, non so il perché, osservando quella costruzione nera e obsoleta ,e oscura, ebbi come l’impressione che mi stesse attendendo da tutta la vita.
Una volta dentro tutto divenne buio e incomprensibile; non avevamo torce con noi e come immaginavamo le luci nella struttura non erano in funzione; procedevamo lentamente, nel chiaroscuro, tra i sinistri scricchiolii delle tegole sotto i nostri piedi e quando giungemmo in un corridoio c’accorgemmo di un bagliore verde nitidissimo proveniente dal retro di una porta, come se la trapassasse; Arturo mi passò davanti e la superò per poi andarsi ad accostare alla parete adiacente ad essa; io rimasi sull’altra sponda e con un cenno del capo invitai mio figlio ad aprirla.
Prima io poi lui entrammo puntando subito le pistole contro Augusto Bovi, che se ne stava seduto tranquillo al centro della stanza con le braccia distese su un tavolo in formica rettangolare e lo sguardo serioso e placido, quieto, come se non stesse svolgendo altro che una formalità.
“Sedete, prego” ci disse con tono cordiale, indicando le sedie di fronte a noi. Mio figlio provò a raggiungerlo ma da quel che ricordo ogni qual volta tentava di avvicinarsi a meno di un metro da esso la luce verde s’addensava sul suo petto spingendolo all’indietro; non era chiaro da dove provenisse quella luce, non c’era un qualche tipo di raggio né di fonte dalla quale partisse; sembrava invece circondare il Bovi e proteggerlo, se non addirittura muoversi sotto il suo telepatico comando.
“Sedete, prego” ci disse nuovamente. Arturo sbottò sfinito: “Ma cosa sta succedendo, Augusto!?” ma la sua voce risultava ovattata, quasi provenisse da dietro una parete, o come se venisse fuori da un vortice.
Ci sedemmo.
Dopo essere rimasto per un po’ a fissare le nostre facce terrorizzate – prima la mia, poi quella di Arturo – cominciò a parlarci: “Mi dispiace signori che voi siate entrambi qui, purtroppo, per una banale questione di comodità che non sto a spiegarvi e che temo non possiate comprendere, adesso necessito di uno di voi due solamente”. La sua voce era nitida invece, come se potesse viaggiare dentro quelle particelle verdi tanto tangibili quanto impalpabili che vedevamo nell’aria. “Mi dispiace anche per la ragazza e per il ragazzo che sto utilizzando…credetemi se vi dico che ho il terrore che qualcuno possa farsi del male quando poi certe cose devono accadere… comunque, adesso c’è solamente una maniera per far tornare tutto al suo principio: uno di voi due deve venire con me”.
Mi guardò accennando un sorriso benevolo: “Stia tranquillo papà, nulla di apparente, eppure la trasformazione sarà irreversibile”.
Arturo aveva cominciato a tremolare e a sudare dalla fronte; sembrava sul punto di avere uno di quei suoi brutti attacchi di epilessia di cui soffriva da ragazzo. “Se vi rifiuterete la ragazza morirà e voi due verrete accusati dell’omicidio del ragazzo!” disse con tono brutale e digrignando i denti in un sorriso mostruoso.
Al suo volto contratto da un istante all’altro prese a sovrapporsi ad intermittenza una maschera nera… completamente nera e rotonda con due antenne o, non so, forse erano due orecchi sottili e rigidamente piegati.
A questo punto svenni, e fu come sprofondare all’interno di una qualche materia
tenebrosa e viscida dalla quale non riuscivo a sottrarmi.
Mentre lottavo disperatamente contro quella tenebra vedevo per lo più Arturo e Caterina chiamarmi o aspettarmi non ricordo; erano a casa o per strada e sorridevano o piangevano, si addormentavano nei loro letti… era un rimestare tra ricordi e immagini di loro che probabilmente stavo creando in quel preciso momento… erano le mie armi contro quell’assurdo male che avevo incontrato.
Quando rinvenni fu come affiorare prepotentemente dall’interno del mio stesso io.
Ero in mezzo al bosco, stavo correndo all’interno di questo oltre le mie possibilità; avvertii di colpo il battito oltremodo accelerato del cuore pulsarmi con veemenza nel petto e il fiato corto e il respiro affannato mi costrinsero ad inginocchiarmi stremato; vomitai sangue e un qualche altro liquido verdastro e rialzandomi a stento estrassi spasmodicamente il cellulare che nella tasca mi stava vibrando; era mia moglie, chiedeva quale diavolo di fine avessi mai fatto: un’ora prima ero uscito in tutta fretta dalla chiesa tra l’imbarazzo generale e di me più nulla, nessuna notizia. Le parlai agitatamente di Arturo e dell’Aureli e del Bovi e lei niente, solo si preoccupò domandandomi se non fossi impazzito…era come se quella mattina non fosse accaduto nulla di ciò che io avevo appena vissuto.
Riemersi dal bosco e non ero nel Monte Parallelo, ero più in alto, alla base della Cisterna, una collinetta situata ai Cinque Confini, a un chilometro circa dalla chiesa.
Quando rincontrai Caterina ero sudato e sporco di terra e puzzavo di qualcosa di ferroso disse lei… di metallico. Subito cominciò a sospettare tradimenti, ischemie, Alzheimer, e proprio mentre mi domandava chi fosse l’Aureli di cui le avevo chiesto poco prima ecco che Claudia, la moglie di Arturo, la raggiunse al cellulare informandola del fatto che lei e il marito non si sarebbero presentati per il pranzo, causa la febbre alta di lui.
Ero scioccato, lo sono tuttora in verità, e dovetti insistere passando per un totale invasato prima di convincerla ad accompagnarmi con la sua Panda 4x4 fino alla casetta in pietra… e il corpo non c’era.
Ahimè, non riuscivo neanche a esserne sollevato fino in fondo; sì, il cadavere non era lì, ma poteva essere stato spostato, oppure nulla era avvenuto e allora io mi ero recato in chiesa quella mattina e mi era accaduto esattamente cosa?
Ma prima di occuparmi di me dovevo assicurarmi delle condizioni di Valentina Aureli e di Augusto Bovi, assolutamente, e d’un tratto mi venne in mente che appena poche ore prima Giovanna Aureli mi aveva lasciato il suo numero nella speranza di ricevere al più presto una chiamata rassicurante…ma il numero non era tra i miei contatti. Chiesi a Caterina, se per caso non fosse stata lei a salvarlo sul cellulare, ma di nuovo, guardandomi seriamente allibita, insistette nel dirmi che nessuna, e di certo non una stralunata e agitata donna di nome Giovanna Aureli, era venuta a disturbarci quel mattino.
Non era possibile, non riuscivo a crederci ;avevo parlato con quella donna, ero stato al pub, avevo preso il polso di quella ragazza e ne avevo constatato l’assenza di vita. E non era avvenuto come in un sogno… era avvenuto! come adesso stava avvenendo che mia moglie non sembrasse comprendermi.
Mi venne in mente Franca, impiegata del comune che tutto sapeva degli abitanti di Rocca e che speravo sarebbe stata in grado di aiutarmi a trovare, se non proprio il numero dell’Aureli, almeno qualche informazione sul suo conto; e proprio mentre ero lì a scusarmi per averla distolta dalla preparazione del pranzo, ecco che li incontrammo, Augusto e Valentina, mano per la mano, camminanti sul ciglio della strada che risale verso i Cinque Confini.
Ma dovevo sentirlo dire da lei e volevo che anche mia moglie ascoltasse. “Perdonatemi ragazzi” dissi loro quando ci raggiunsero, una volta che ebbi convinto Caterina ad accostare e ad attenderli a bordo strada. “Te sei Augusto Bovi e questo lo so, mentre lei, signorina, non è vero che si chiama Valentina Aureli? la figlia di Giovanna?” I due sorrisero e titubarono e sì, la ragazza disse che sì, lei era Valentina Aureli, la figlia di Giovanna.
Strano sentirsi dire da un morto di essere ancora in vita, ma tanto era, tanto mi è toccato di passare in questo Mondo; e mia moglie dovette scusarsi con i due, poiché io probabilmente seguitai ad osservarli ambiguamente pure dopo le loro risposte e, una volta ripartita, l’unica cosa che riuscii a comprendere di quello che mi disse fu che in sostanza il giorno dopo mi avrebbe voluto condurre da un qualche tipo di medico, e capire cos’era che mi stava capitando.
Era ed è ancora convinta che mentre ero seduto accanto a lei in chiesa mi sia passata chissà quale ischemia – mai svelata da successivi esami – e che tutto quello che io racconto da quel momento sia avvenuto nella mia mente come in un sogno, reso però più reale dall’anomala circolazione di sangue nel cranio.
Non è tipa, mia moglie, di mettersi a credere a cose che non è in grado di spiegare; non posso fargliene una colpa.
Quel pomeriggio attesi che si appisolasse come suo solito sulla poltrona davanti al camino e passai a casa di Arturo.
Claudia mi disse che dormiva profondamente, allora entrai nella cameretta di Elisa, mia nipote di sette anni, e dopo un po’ lei prese le carte da Uno per farsi una partita. Ero rimasto con una carta quando pescai un otto verde con al centro disegnata una maschera nera e rotonda con due stanghette piegate sulle tempie.
Raggelai e chiesi balbettando alla bambina chi fosse stato a disegnare quella cosa, ma lei non sapeva o non ricordava e proprio mentre stavo insistendo Arturo entrò nella stanza a carponi “abbaiando” e mozzicando scherzosamente sua figlia che scoppiò a ridere soggiogata.
Quando riuscii ad avere la sua attenzione gli domandai della carta e lui con sufficienza mi disse di non saperne nulla e che non importava. Al che lo presi per un braccio e guardandolo dritto negli occhi gli chiesi se sul serio non sapesse di cosa stessi parlando. “No papà”, mi ammonì lui severamente, “solo tu sai di cosa stai parlando”.