Tutta la notte mi ha fatto di colpo paura

Tutta la notte mi ha fatto di colpo paura

«Che guardi?» chiese Lapo.

«Quanto in fretta si fa nera quella buccia di banana,» rispose Dalila.

«Quale?»

«Quella, quella lì sul bancone della cucina». Dalila la guardava, la buccia, nonostante il buio che dalla notte entrava in casa.

«La posso accendere la luce, almeno?» fece lui. Lei scosse la testa. «Perché? Non capisco, che c’è che non va?»

Dalila passò il dito sul sopracciglio. «Le candele sì, però» disse. «Le candele le puoi accendere, accendine due».

Lapo si alzò nel buio e nei contorni. Estrasse dalla tasca un accendino e lo fece scoccare sullo stoppino di due delle candele sul tavolo, infilate dentro delle bottiglie di vino vuote, con la cera colata sul collo e sul corpo. Due lingue sottili e ocra si gonfiarono e poi si stirarono, mostrando alla notte i tratti del volto di Dalila e di Lapo. Negli occhi di lei, le linee verticali dei fuochi vibravano allo spostarsi dell’aria e dei respiri.

«Me lo vuoi dire che succede?» chiese lui, sedendosi sulla sedia accanto a lei.

«Che deve succedere».

«Non fare così. Hai gli occhi come ghiacciati, e ti tremano ancora le labbra Dalila». Le poggiò una mano sulla mano. «Allora, me lo dici che è successo?»

«Non lo so, non lo so proprio,» fece lei scostando la mano e alzandosi dalla sedia. «Grazie per essere venuto a prendermi, però».

In piedi, Dalila prese la buccia di banana dal bancone della cucina contro cui si appoggiò con la schiena; mosse la buccia nel vuoto come fosse un nastro. «Ci mette così poco a marcire,» disse.

«Che cosa ci facevi lì per strada a quest’ora? Di solito a quest’ora non sei più lì».

«Non ricordo neanche di averla mangiata, e la buccia si è già fatta nera».

Lapo si alzò dalla sedia, le andò davanti, togliendole la buccia e prendendole entrambe le mani. «Dalila, guardami, avevi paura, mi hai chiamato e avevi paura. Io mi sono spaventato molto, lo capisci, eh? Lo capisci? Quindi me lo devi dire, Dalila, me lo devi dire se ti è successo qualcosa, se qualcuno ti ha fatto del male, me lo devi dire, okay? Per favore dimmi che ti è successo là fuori».

Il viso di Dalila, accarezzato d’ocra, rimase fermo, come a cercare nella penombra degli occhi di Lapo un palpito residuo di notte. «Se ti apro gli occhi, Lapo, se te li apro come si apre una finestra, arriva l’aria della notte? Fresca e buia, eh, arriva e mi lecca la faccia, piano, con amore o forse con odio?»

Il respiro di Lapo si fece gonfio, e quando espirò, all’aria del naso si accompagnò un odore di tiglio. «Che cosa è stato. Cosa ti ha fatto paura?» le chiese, lasciandole andare le mani.

«Il freddo di un palazzo vuoto, quando l’ho toccato,» disse lei, abbassando lo sguardo. «Era illuminato da un lampione che faceva zzz, il palazzo. Ed era antico e forte, e dentro era vuoto, ne sono piuttosto sicura, perché ogni notte che vado a trovarlo non c’è nemmeno una luce. Ma stasera era diverso, perché di solito non è così freddo, Lapo».

«Questa notte fa più freddo del solito, magari è per quello».

«No, non capisci. L’ho toccato con il palmo della mia mano, ed era freddissimo. Come un cadavere. E poi ha come preso a respirare, capisci? Un respiro sordo e fondo, lento. Come mi immagino il respiro di un uomo che muore». Dalila si spostò e tornò a sedersi, il viso davanti alle candele illuminate. «E a quel punto, non lo so perché, tutta la notte ha preso a farmi paura, come se l’incedere del cielo e i movimenti dei pianeti — sì, anche i pianeti — come se loro avessero preso a respirare come quel vecchio che stava morendo, come se tutto il mondo si fosse sintonizzato, Lapo, sull’incedere di quel rantolo, su quel soffio di morte». Portò la mano al retro del collo. «E tutta la notte, Lapo, tutta la notte mi ha fatto di colpo paura».

Lui le si sedette accanto, guardandola. «Mi dispiace, dev’essere stato molto brutto». Allungò la mano e le accarezzò la spalla. «Ma ora è tutto finito, Dalila, ora sei qui, e sei al sicuro, e va tutto bene».

Lei scostò la spalla dalla sua carezza. «Io non voglio che vada tutto bene, Lapo,» gli disse, guardando di nuovo i suoi occhi, e le fiamme che vi si rifrangevano come i ricordi di un sogno. «Io voglio che mi squarti, la notte, se vuole. Io voglio che si abbassi tutta su di me e che mi schiacci, se lo vuole, e voglio che lo faccia con tutta la calma che desidera prendersi. Voglio che mi ammazzi, se lo desidera, ma non voglio che mi lasci incerta, e sospesa. Non voglio che scherzi con me come fossi una bambina che ha paura, ma che mi prenda e mi trafigga e mi faccia sanguinare finché non crepo. Ma giocare così con me, quello non glielo permetto. Se vuole che io sia la creatura che oggi lascerà questo mondo, allora che lo dica, che mi pieghi finché non respiro come vuole, finché i polmoni non mi si ostruiscono e le costole si spaccano e mi si infilzano negli organi. Ma così non è giusto, non ho intenzione di essere spaventata e di essere lasciata ad avere paura di lei».

Lapo deglutì, portò le ginocchia al petto e le avvolse con le braccia. «Quindi dici che non ha ancora finito, per oggi?»

«No, non ha ancora finito. Sono scappata, ti ho chiesto di venire, ma dovevo starmene lì a creparci, se è questo che voleva».

«E che cosa possiamo fare, ora che sei qui?»

«Apriti gli occhi, Lapo. Fammici entrare, scopri la notte che contengono così che io possa tornare lì fuori».

«Sei sicura che è questo che vuoi?»

«Sono sicura».

«E poi io che faccio, eh? Che faccio qui, senza di te».

«Io sarò lì dentro, Lapo. Non ti lascio solo, per nulla al mondo».

«E dici che saremo liberi, così? Che tutto passerà? Che arriverà l’alba, e che io potrò raccogliere le spezie che ci sono in giardino?»

«Sì, andrà così».

«Forse dovremmo smettere, Dalila. Forse dovremmo smettere».

«Non possiamo smettere ora. Non ora che siamo così vicini».

Lapo spostò lo sguardo verso stanza buia alle spalle di Dalila. «Forse siamo solo in apnea, in questo sonno, e dopo questo buio non c’è altro».

«Avevamo detto che lo avremmo fatto», disse lei. «Io ci credo, io so che andrà tutto bene».

«Me lo prometti?»

«Te lo prometto, fratello».

Lapo la guardò nelle curve di luce calda. «D’accordo, sì, va bene. Io mi fido te, mi fido, Dalila, è questo che serve fare».

Dalila poggiò il palmo sul petto di Lapo, sentì il calore del battito, il respiro che gli scorreva nelle interiora come una fiamma verticale, stretta, fatta solo di aria, tutta blu. Lapo le sorrise e aprì la notte dai suoi occhi, e Dalila entrò, silenziosa, nel buio.