Effetto collaterale
Ho aperto il gatto.
Non è una cosa cattiva e non è una cosa buona. Ma non miagolava e l’ho aperto e poi ho letto qualche nuova nel suo giornale di viscere e dopo ho fatto un fiocco con le sue budella da violino, buttando tutto nell’indifferenziata. L’ho fatto con serena mente ma poi ho tenuto il sacco; per ricordo.
Il problema è l’odore ed è sempre un problema.
La cura immediata è cotone nel naso, imbevuto di cocktail di citrosil da sala operatoria. Se poi disinfetti anche la bocca passa meglio. E puoi inghiottire la qualunque, anche bene. Anche tutta.
La pastiglia si piglia mattina, sera e mattina. Va tolta una sera, come da prescrizione, e pare faccia la differenza. Eppure ho sentito un grande spavento diventare sempre più grande, come un pupazzo di neve nera che cresceva dal pavimento della cucina. Chissà se l’ho sognato gocciolare e sciogliersi fino ai miei piedi. Eppure tutto gocciola ancora. E ho i piedi freddi.
Le rane scricchiolano da qualche parte oltre i muri di mozziconi colorati, tanti quanti i rossetti che ho indossato per fumarle. Sono veri rossetti da uomo. Mai rossi, io sono all’antica e quando mi vesto da altro nessuno mi vede, nessuno se ne accorge. Io sono sotto molte gonne, nere e colorate. Io sono anche molte gonne, ma tutte a terra e tutte nere.
Sono un cacciatore di tagli e mi vogliono curare. La ricerca è per quelli come me, ma nessuno ci trova.
Minima spiegazione sulle dosi opportune da prendere per sembrare passabile e poi basta.
Medicinale. Ho accarezzato il suo nome mutocieco inciso sul muro, per ricordarlo e forse ciò che è successo cadrà nella sua prescrizione.
Non mi è mancata la perizia, io ero un medico. Ma sono rimasto impaziente. Niente è dolce, e non la pastiglia, e con la pastiglia vivo immerso nell’acido per tenermi lucido. Peccato la puzza. La puzza ormai la vedo strisciare sui muri, ed è giallo limone. E la vedo, la puzza, come ascolto il sapore.
È accordata in chiave da serratura blindata e sulla targa della mia porta c’è scritto solo “chiuso”.
Quando il mondo ha iniziato a inclinarsi e poi a schiacciarsi, ho fatto quello che dovevo fare e infine ho leccato ogni interstizio tra le parti divise dal coltello come avrei fatto tra dure piastrelle rosa pelle colorata.
Ho leccato pure dentro alla crepa e aveva colore di ferro rosso. Ma dopo, ho inghiottito e il whisky torbato ha coperto tutto meglio del citrosil. Sa già di vecchia fossa, di passato: seppellisce tutto, tutto e tutto.
Pastiglie incontrollabili, biglie pazze; figli ornamentali, orfani e foglie. Cadute e caduti. Tutti morti.
Poker di picche, cimitero di carte.
Fasce, strisce, righe… frecce da seguire, ma non c’è un’uscita!
Mi affanno, solo con pensiero, tra rotoli di lenzuola grigie che sono larghe bende per coprire la faccia, per le ferite buttate in giro senza più corpi, viti avanzate dopo aver smontato tutto…
e non resta nessuna vita.
C’è una tomba, nella spazzatura. Ricordo. E forse un’altra nella stanza accanto.
Lì con lei ho avuto un orgasmo al contrario e le nostre urla sono diventate merletti di schiuma color regnatela sulla sua faccia impressa sul cuscino. Ora, fatto tutto, bevo impossibilmente dal rovescio del calice e questo è il mio corpo. Sacrificio. Offerto. In cambio del suo. Per questo andava diviso.
Per questo l’ho spezzato e so che la mia ferita è fortunata. È lunga come una linea della vita su un palmo che è un corpo intero. Non vi sono futuri da leggere e la mia prognosi è riservata come il disegno di Dio. Io però sono un artista. Sono S. Luca, medico e pittore. Un angelo, un evangelista. Un fumatore.
E un uomo che si scopa la cenere.
Il rosso cupo, quasi nero, fiorisce sul tappeto in fiori astratti che non sono mai fioriti. Il divano è scassato, il letto è sfatto. Di intero c’è un armadio aperto pieno di cappelli, una frana di scarpe…
Acido acetilsalicilico e polvere sono sparsi come fiches sul tavolo. Una vincita passata. Il momento è imbalsamato e ha occhi di vetro.
Sul tavolino questa fila storta di pastiglie bianche non è che una scoliosi di mal di testa possibili.
Penso a fuori. Penso al muro di cicche rotte, alla neve, alla goccia che cade e cade. Tutto si mescola e ormai è limpido come cielo quando gli uccelli non cigolano invadenti, la palude è calma; e nella palude le rane fanno quel che vogliono, sempre. Il mondo è invaso da girini che metteranno incinte le pozze. E le colline sono pance rotte.
Mi piacciono le rane. Mi piaceva pure il gatto. E anche la donna.
Pastiglia, ci vuole un’altra pastiglia.
Ma è la sera buona questa oppure quella che mancava?
Inghiotto, inghiotto. Brucio. Mi viene da vomitare. E tutto è cupo.
Non più fiori ma campi rossi e un lago; è troppo grande. Il mare è un pavimento lacca magenta, io sono disteso sul lucido che non è mai in nessun rossetto, nessuna gonna, nessun corpo, nessuna cosa reale. Il rosso è diventato nero.
Mi vomito dentro. E ho le ossa come fossi tutti i piatti rotti insieme. Ogni cosa gocciola, ma non fa più rumore. Viene da me, solo da me. E sta finendo.
So che Lei è viva. Non c’era, non c’è mai stata: sono sempre stato solo.
Ho riempito la ciotola, prima di cadere. È piena, va tutto bene. Tutto bene.
Ho sentito miagolare.
È il gatto. Io muoio. Lui, ha altre otto vite.