PARTITUREVanni Santin

Dentro me

PARTITUREVanni Santin
Dentro me

Fisso da un po’ il quarto di pizza che ho davanti, contornato da un Monet di macchie, unto su cartone. Ce l’ho appoggiato lì, sul tavolino, da un paio di giorni almeno. Però è in buona compagnia, con lui ci sono lattine di birra vuote, un rotolo di carta assorbente quasi finito, un posacenere pieno e tanti altri contenitori di pranzi cinesi e cene di hamburger dolciastri colmi di grassi saturi. Il televisore trasmette programmi a caso, la sua luce azzurrognola è l’unica che da giorni illumina il salotto. Non ho più aperto le imposte, da quando te ne sei andata.

Non sono neanche più tornato all’università, non ho più seguito un corso e non sto sentendo nessuno. I miei genitori ogni tanto mi chiamano e i miei amici mi mandano qualche messaggio, ma io non rispondo. Sopravvivo nella speranza che sia tu a chiamarmi, o risponda ai trenta messaggi vocali che ti mando ogni giorno.

Come sei stata crudele con me, lasciarmi in quel modo. Sei entrata da quella porta – quando, tre giorni fa? una settimana fa? – e mi hai detto solo che eri stanca di me. No, anzi, non hai detto così: hai detto che eri stufa di me. Stufa, hai usato questa parola, con quel sapore di insofferenza. Non è solo il tuo amore che è finito, ti sei proprio scocciata di avermi attorno. E non era sufficiente dirmi che è finita, no, tu dovevi infierire, intingere il dito nel sale e passarmelo sulla ferita, per poi versarci sopra dell’alcool e infine sputarmi in faccia. Ma io ti perdono, amore mio, io ti perdono, basta che torni da me. Dimmi che sono una nullità, dimmi che non valgo un cazzo, non mi importa. Vieni a casa, stai qui con me, torna qui con me.

L’altra notte (forse era giorno, non lo so) ti ho sognata. Ero legato a una sedia, tu sei entrata dalla finestra e avevi una pinza in mano. Mi hai strappato le unghie, una alla volta, e per ogni unghia mi dicevi quanto ti facevo schifo. Ma io ridevo, mi faceva un male bastardo, ma io ridevo perché mi stavi torturando ed eri qui, di nuovo con me. Poi ero di nuovo sveglio, stavo guardando la tv e non sapevo che giorno fosse.

Ma ti ricordi, amore? Ti ricordi lo scorso Natale, quando passeggiavamo in via D’Azeglio e tu cantavi le canzoni scritte sulle luminarie? E gli orecchini che volevi e non potevi permetterti, quelli d’oro bianco, ti ricordi di quando sono entrato in gioielleria e te li ho comprati, spendendo un capitale? Eh? Te lo ricordi, brutta stronza? Te lo ricordi o no, quanto mi sono fatto il culo per vederti felice? E lo rifarei ancora, sai? Non mi importava che tu fossi un’ingrata del cazzo, mi interessava solo che quando ti vedevo felice con quegli orecchini luccicanti, quando mi guardavi con le lacrime di gioia, quando mi dicevi “grazie amore”, tu abbracciavi me. Ero io che abbracciavi e nessun altro al mondo. Ero io a renderti felice, sebbene tu fossi felice per gli orecchini e non perché stavi con me. Però a me non importa, va bene così: umiliami pure, calpestami, pulisciti su di me le scarpe sporche di merda. Sii spietata, ma sii spietata con me solamente.

Sei tornata nei miei sogni, quei sogni che si mescolano alla mia disperazione e al tempo che scorre senza che io più lo riconosca. Tutto è uguale a sé stesso e anch’io sono uguale a quel grumo di ore che si confondono e non si muovono. Eri davanti a me, guardavi altrove, non parlavi. Allora mi sono avvicinato, ti ho accarezzato il viso, ti ho spogliata del maglione, dei pantaloni, reggiseno e mutandine. Tu non dicevi nulla, nemmeno mi guardavi. E allora ti baciavo, ti toccavo, entravo dentro te. La tua pelle bianca, ogni tuo neo, ogni pelo, le tue tette e le tue labbra. Ero ovunque, e tu mi volevi, mi dicevi «scusami» e sì, ti scusavo, per poi prenderti a schiaffi e piangere e implorare perdono. Ero venuto nel sonno e mi svegliai con le mutande sporche. Sono rimasto sul divano a guardare il soffitto nella nebbia dell’ultima sigaretta rimasta. Non ho nemmeno fatto lo sforzo di andare a lavarmi. Cosa importa, se tanto tu non sei più qui con me. Anzi, adesso chiudo gli occhi e, ancora con la sigaretta in bocca, mi faccio una sega mentre immagino di scoparti qui, sul divano. Peccato che poi penso che è solo una mia fantasia da sfigato e mi vengo nella mano mentre piango come un coglione. Mi rifugio sotto la coperta e piango, piango tantissimo, tanto che mi strapperei i capelli, tanto che la testa mi scoppia e mi fanno male le tempie. Mi sento come se avessi la febbre e probabilmente ce l’ho. Il sonno mi sorprende così, mentre sto sul lato destro, raggomitolato come i gatti e intanto la televisione continua a dare film e telegiornali.

Ti sogno di nuovo. Quella sensazione di atmosfera opaca, l’aria è sfocata come i miei pensieri, mi confondo con la realtà. Questa volta entri dalla porta, hai ancora le chiavi. Sei in lacrime e vieni verso me. Io ti guardo senza dire nulla, sono in piedi davanti a te. Ti metti in ginocchio, noto il mascara che cola come se stessi piangendo da ore e penso che un po’ te lo meriti, amore mio. Mi hai tritato il cuore, certo che te lo meriti, piccola cagna mia. Però non ti preoccupare, io sono qui, per te, come sempre.

Penso a tutto questo ma non te lo dico. La mia volontà è rarefatta come fossi ubriaco perso o pieno di md. Non mi muovo, ma ho bisogno di baciarti e anche di prenderti a calci e di fare l’amore con te. Alzi lo sguardo e i tuoi occhi incontrano i miei e ci chiediamo scusa: scusa se ti ho lasciato così, scusa se non sono abbastanza. Adesso sei tornata, adesso è tutto a posto. Finalmente ti sorrido e anche tu mi sorridi, con quelle labbra sporche di rossetto mezzo cancellato. Mi abbracci e ti abbraccio e mi perdo per un secondo nel tuo profumo, mentre le mie mani studiano quella schiena che conosco come il mio nome. Mi parli all’orecchio, non so cosa dici, ma che mi importa? Cosa me ne può fregare, quando l’unica cosa che conta è che sei qui? Ti bacio sul collo, lecco l’orecchio e passo la mano tra i capelli. Ti sento ansimare e piegare la testa indietro. Le nostre labbra di nuovo assieme, le lingue che si parlano ancora. Il tuo respiro si fa più forte quando infilo la mano nelle tue mutande e tu infili la tua nelle mie.

Ti tolgo la maglietta, alzo la gonna e ti sollevo di peso. Un grido soffocato, tra piacere e sorpresa, un invito ad andare oltre. Ti sbatto contro il muro mentre te lo infilo dentro e tu inizi a urlare di piacere. E ti scopo, ti scopo, ti scopo. In piedi, da dietro, per terra. «Sei tornata per questo? È questo che vuoi?» Mi dici di sì, e allora ti scopo ancora più forte, le mie dita nella tua bocca. Sto sul punto di venire e anche tu urli con me: ti prendo il collo con le mani e inizio a stringere, i tuoi occhi sgranati mi mandano fuori di testa. Ti schiaffeggio e ti chiamo “puttana” e vedo dal tuo sguardo che ti piace. Quando infine sto per esplodere, ti prendo per i capelli e sbatto la tua testa sul pavimento, una, due, tre volte, fino a che non mi sono svuotato e tu non ti muovi più.

Sono nell’estasi, in quel momento in cui ami tutti e ti fanno tutti schifo, quando esisti solo tu, ci sei solo tu e importa solo che sei venuto e che sulla faccia hai quel sorriso da ebete. Sei distesa davanti a me, ti muovi appena, non mi hai abbandonato di nuovo. No, amore mio, stavolta non mi abbandonerai, stavolta rimarrai qui per sempre.

Il tuo seno si alza e si abbassa, è impercettibile, ma lo vedo. Sento che ti voglio, ma non come ti ho voluta finora, adesso io ti voglio davvero. Io voglio te, voglio ogni cosa di te, voglio la tua bocca, i tuoi occhi col trucco sfatto, la tua pelle bianca e le tue cosce. La tua lingua, il tuo culo, i tuoi capelli, i tuoi pensieri e le tue mani. Ti voglio dentro di me, ti voglio portare con me in ogni istante della mia esistenza, io ti voglio qui, nel mio petto.

Ho un coltello tra le mani, la luce del televisore riflette sulla lama e cade sul tuo volto sporco di rosso. Che forse è rossetto; forse. Disegno una porta sul tuo petto, il passaggio a un mondo che voglio fare mio, una linea dritta fino in fondo, prima invisibile, sottile, poi rossa, infine nera, che straborda di vita e riempie ogni cosa mentre si svuota di ogni senso. Il coltello affonda e taglia e strappa e corrode e dirompe e distrugge e scava. Il tuo petto continua a muoversi, ma i tuoi occhi sono altrove.

La mia mano dentro te, sei così calda, Grande Madre che mi accoglie, mi dice «vieni a me, torna da me, sei a casa qui, sei al sicuro, prendi quello che ti serve». Sento i polmoni riempirsi d’aria, il diaframma si contrae, lo stomaco si nasconde. Tutta la bellezza di quello che sei e che nessuno ha mai visto, è qui davanti a me e luccica, rifrange la luce catodica di lampi viola, rossi, neri, le mie mani che ti accarezzano l’anima.

Eccolo lì, che si agita ribelle, il cuore bastardo che mi ha quasi ammazzato. Mi avvicino e ne sento i battiti e l’odore dolce e ferroso. C’è una ferita, anche dentro te. Una ferita da cui esce sangue, un buco, un taglio. Lo vedo aprirsi e chiudersi al ritmo delle pulsazioni e sembra una bocca che vuole parlarmi. Dimmi, amore mio, cosa mi vuoi dire, parla. È una U, una P, non capisco. Una A o una O. Avvicino le orecchie e un sibilo distante mi chiama a sé. Non riesco a smettere di guardare, quella bocca sul tuo cuore, ne imito il labiale, ma non riesco a decifrare.

È tra le mani mie, adesso, continua a parlare. Lo avvicino lentamente e mi perdo nel nero di quell’abisso. Ancora un battito, un’ultima pulsazione, sento chiaro il messaggio, la parola che mi dici, la ripeto con le mie labbra, con la mia voce dico «baciami». Le nostre bocche si toccano, le labbra calde, il gusto metallico mentre la mia lingua ti profana, in un viscido esplorare di ciò che più profondo ti appartiene. Il sangue tuo sul mio collo, sul petto, sulla mia mano che mi stringe il cazzo e, quando vengo, io ti mordo: mordo il tuo cuore, lo mastico, assaporo, lo faccio mio e lo ingoio nel nirvana di averti infine conquistata.

Un sussulto mi scuote, ritorno al regno dei vivi, alla vita di chi non dorme. La sigla del telegiornale si confonde con tre pugni dati alla porta e una voce dai toni scocciati che reclama attenzione. Rispondo con un mugugno e qualcuno apre la porta: il fattorino della pizza, credo, forse avevo ordinato prima di addormentarmi. Lo sento bestemmiare, è ormai lontano e io mi perdo di nuovo in un sonno al confine con l’oblio.

Altre voci, altri colpi. Luci che mi abbagliano, disegnano lunghe strisce blu sul soffitto, moltiplicate dal lampadario di vetro zigrinato. L’aria mi accarezza il viso, hanno aperto la porta. Sei ancora distesa qui, accanto a me, il tuo petto spalancato per accogliermi dentro te e il sapore del tuo nome, del tuo amore, nella mia gola. Dentro me, ora sei dentro me, amore mio. È dentro me, agente, non si preoccupi, va tutto bene: è qui, è qui con me, è dentro me.