Border
È durata poco ma non esisteva fame, e non era un tentativo estetico, non hai mai avuto freni, ma in quel periodo non avevi fame. Eri stata brutalmente ingannata – ovvero usata come un animale e poi gettata una volta consunta – e ti sentivi inchiodata all’assenza, non importava davvero di chi. Non avevi fame. Le viscere risucchiate. Ti alzavi per inerzia, vagavi per un quartiere residenziale senza trovare pace. Non avevi fame. Non avevi sonno. Non avevi altro che mancanza. Ti eri specchiata in una pozzanghera e il corpo spariva, ti sembrava bello che lo facesse, avevi sempre avuto il problema opposto: il tarlo della carne, troppa. E della fame, troppa. Ora invece non c’era più, dissolta. Ogni istinto vitale, dissolto. Ti sentivi invulnerabile: una cosa che non ha bisogno di niente, un ordigno fuori perfetto e dentro strappato, rattrappito, pieno di fili sconnessi e tagliati. Ma finché restava perfetto fuori andava bene. Ti sembrava che la corda spezzata, i brandelli, le viscere cave fossero ben nascoste dalla freddezza dello sguardo e dalle ossa. Nelle ossa eri forte. Uno scheletro di cartapesta; il fantasma che veniva a farti visita da bambina era sgusciato in te, sovrannaturale, metafisica, incapace di legarti, avevi costruito la maschera aurea. Se qualcuno aveva osato abbandonarti, adesso ti eri nascosta nella parte oscura dello specchio: nessuno può distruggere un meccanismo guasto, saresti stata sempre tu da un lato e dall’altro. Fuggire, più d’ogni cosa, amare sì, ma solo per gioco. Ingannare fino a non poterne più. L’involucro era pieno e il contenuto cavo ma sparivi prima che qualcuno potesse riconoscerlo.
Lucania. Ti eri innamorata di quei luoghi antichi, magici, dove la gente crede ancora alle maciare e al di là degli smartphone non c’è nulla che richiami la modernità. Hai vissuto lì quattro mesi, girando per i luoghi menzionati da De Martino in Sud e magia: Colobraro, Ferrandina. Poi il tizio con cui stavi, Dario, ha deciso di trasferirsi da te a Roma. Ti aveva già picchiata una volta ma l’avevi presa come una cosa folcloristica del sud, un modo suo di dimostrarti il suo amore, ti piaceva la sua gelosia, se vogliamo ti eccitava. Sei stata complice di tutto.
Una volta a Roma le cose sono cambiate, Dario ti ha sfilato parecchi soldi, il rapporto si è invertito, sei diventata più gelosa di lui, gli controllavi il telefono, davi di matto quando scoprivi chat ambigue, spesso esplicitamente pornografiche. Litigavate fino a picchiarvi. Avresti dovuto cacciarlo ma non riuscivi. Un giorno gli dicesti che non potevi più mantenerlo, che i tuoi non ti davano più niente. Se ne tornò a Bernalda e andasti nel panico. Era furbo, ti telefonava tre volte al giorno e ti teneva legata a questa illusione di stare insieme – intanto ovviamente stava con un’altra. L’ultima cosa che hai fatto per lui è stato regalargli un biglietto per Berlino per il suo compleanno. Un’amica – mentre ti tatuava un uroboro sulla coscia – ti disse di aver scoperto che si sentiva con una tal danzatrice del ventre. Lo chiamasti, gli dicesti di andarci da solo o con lei. Invece alla fine ci andaste insieme. Lì sembravate felici, girovagavate senza meta blaterando di futuro, famiglia, figli, disse che avrebbe trovato lavoro all’estero.
Dopo una sbronza al Tresor ti azzittì: Ti ho vista lì dentro come ti muovevi, come ballavi, un maiale, una vacca.
Gli prendesti il telefono, cercasti i messaggi che aveva scritto alla danzatrice del ventre ma li aveva cancellati: E lei? Lei no, non è una vacca? Lei è sacra. Tutte le altre sono sacre, solo io sono sporca. Gli lanciasti una bottiglia di birra mezza vuota, si inzuppò ma non si fece male.
Andiamo a casa e.
Non riuscì a completare la frase che iniziasti a correre. Ma dove? Alla fine di Kreuzberg non si vedeva un accidente, cominciò a piovere e la nebbia invase la strada, i tigli, li rattrappì svelandone tutta l’irrealtà. Tornasti al BnB da tre soldi di cui vi avevano rifilato una soffitta umida e angusta. Lo trovasti sul divano che guardava il profilo della danzatrice del ventre sullo smartphone. Glielo spaccasti questa volta.
Ora me lo ricompri!
Manco per il cazzo, ridammi indietro gli anni e i soldi che ho perso per starti dietro.
Non ti ho mica rapita.
Litigaste di nuovo furiosamente e ti picchiò così forte che pensasti di morire. Rientraste in Italia e lui da Bernalda ti telefonò insultandoti perché in uno scritto appena edito avevi raccontato cose vostre private, ovviamente non c’era il suo nome, l’avevi chiamato Malvo, ma non te l’ha perdonato. Quella sera ingoiasti quattro boccette di xanax e una cinquantina di pasticche. Dario l’aveva capito, dal tono della voce al telefono, vero?, e aveva avvisato un tuo amico. Ti svegliasti in pronto soccorso. Lavanda gastrica. Volevi sfilarti il tubo, faceva male, e poi restare in vita non figurava tra le tue priorità. Picchiasti i medici. Volevano ricoverarti ma tuo padre ti fece uscire. Il giorno dopo andasti in cima a un palazzo – l’Unicredit dell’Eur – e tentasti di buttarti giù. Arrivarono i vigili del fuoco. E poi fosti davvero ricoverata.
Dario non l’hai più visto né sentito ma di tentativi ne hai fatti altri due, seguirono altri due ricoveri. L’ultimo al Santo Spirito, una cosa penosa, con un alcolizzato bulgaro che pisciava ovunque, medici del tutto indifferenti, infermieri impegnati a legare i pazienti più gravi. Tuo marito è venuto a prenderti – nel frattempo ti eri sposata con un uomo vero, di Dario a malapena ricordavi il nome.
Il legame con la Basilicata rimane forte, sarà che tuo nonno materno era di Matera e credi di avere del sangue maciaro. Dario era solo un’idea, un’illusione – in realtà non te n’è mai fregato niente – solo che non puoi essere lasciata, non reggi proprio la frustrazione. Non ne hai rette molte – e dovresti iniziare, hai trentatré anni – ogni volta hai provato a fuggire in modo più greve. Non ti voleva neanche la morte, non eri più una fanciulla, anche se Schubert ti piaceva da impazzire.
Le maschere ti si sono sfasciate addosso: è inverno. In ogni solco, in ogni libbra di carne recuperata ti si legge il vuoto. Raggeli. Cosa è rimasto? Una donna, non una dea, piena di strappi, saldature malferme, suture slabbrate. In questo perdere e slabbrare è entrato uno spiraglio. L’uomo che hai sposato ha l’odore dei giardini freschi di rugiada. Amare, perdere, piangere. Non sei la vacca o il maiale, sei una donna, non un portento o un genio, solo un essere umano, ti chiamano signora e allo specchio non ti riconosci quasi più, ma riconosci un altro in te, più potente del muro che avevi edificato intorno alle frane. Il muro è in pezzi ma lui ne raccoglie i cocci e attraverso la sua pelle sopperisci alla mancanza della tua.