Un allegro dialogo tra morti
Pare che tra i vivi chiedersi “perché?” sia fuori moda, quando non doloroso.
Nel mio dialogo con illustri defunti parlo spesso di paradossi e del perché delle cose,senza avvertire l’onta del biasimo.
Chi scrive, lo sa.
Quando si scrive, capita di attirarsi qualche malcelata e sottaciuta etichetta. Si passa per cinici e solitari, radicali e stravaganti, un po’ buffi con quelle ali spelacchiate sempre spiegate, il naso sempre all’insù. Troppo cupi o troppo ironici, troppo spenti o troppo euforici, troppo soli o troppo strani.
Ad ogni modo: troppo. Chi scrive, cunctator di professione, con un pizzico di arroganza pensa di fottere la morte. Così, non di rado accade che solo i morti empatizzino. E allora,come a nessun vivente avrei osato chiedere, ad alcuni di loro ho chiesto:
“perché?”
Si scrive quando si è ossessionati dalla Morte. Quando la consapevolezza della vita diventa insopportabile: chi scrive non accetta l’umiliazione di morire.
Si scrive per gareggiare con Dio, illudersi di vincere il Tempo al suo stesso gioco, ed eternarsi.
Si scrive per ingannare la Morte o sedurla, che poi è lo stesso. Si spera di far ridere l’aguzzino e ritardare l’esecuzione: perciò un pizzico d’ironia qua e là, ci si ingegna di piacerle.
Chi scrive, lo sa. Vuole ammaliare, convincere, persuadere. Se stesso, primamente. Tra una lacrima e un ghigno, vincere la voluttà dell’abbandono, della caduta, del declivio, del silenzio.Si scrive di ciò che si è perduto, o non si è avuto mai, di ciò che si sogna e non si ha i mezzi per ottenere.
Si scrive per coprire una mancanza, risarcirsi di un’assenza. Ma che dovrei fare? Aspettare un’estate felice per scrivere di un’estate felice?, chiede provocatorio l’amico Bufalino.
Quasi sempre, ad una domanda chi scrive risponde con un’ altra domanda.Si scrive perchè una vita non è abbastanza. Se desidero incontrare qualcuno che non esiste, cosa dovrei aspettare? Non c’è tempo. Voglio incontrarlo. Lo invento. Funziona così.
Cosa dovremmo fare di tutto ciò che ci manca e non possiamo avere?
Si scrive per non soccombere sotto il peso dilacerante dei propri pensieri, per farne qualcosa più di un nugolo informe di respiri inquieti, strapparli al nulla cui sono destinati. Per dare loro una possibilità.
Si scrive anche un po’ per guarire. Ma, forse, è una pia illusione e la scrittura non vale più di una dieta sana e dei consigli del nutrizionista: perché nonostante un corpo tonico e in salute o qualche riga d’inchiostro ben tornita alla fine si muore, e questa guarigione ha il sapore della frode consolatoria di un istante che appena si materia è già finito. E subito pronti a ricominciare il giro di giostra, che se mi nutro di sedano e carote, se scrivo ogni giorno mi sento bene, il mio corpo non si ammala, la mia anima non soffoca. Mi sento bene. Sono felice.
Perché, diciamolo, scrivere fa bene, frutta e verdura funzionano davvero e vergare le proprie parole sulla pagina rende davvero euforici. In vista della Morte, è già qualcosa. In assenza di meglio, è già tutto.
Si scrive per possederle, farle proprie, le cose della vita, afferrarle a dispetto della loro inconsistenza e peribilità: una cosa diventa reale solo se la nomino e la accolgo nel mio immaginario.
La vita non ha l’agio della verosimiglianza, non è logica: mentre le determina, sconquassa continuamente le regole del gioco. E allora si scrive perché, in fondo, non si vuol rinunciare a giocare come quando si era bambini - “facciamo che io sono… e tu sei…” - ma con in più lo spasso di poter fare e disfare le regole a proprio diletto.
Chi scrive vive una realtà incorruttibile, tanto vera proprio perché irreale. Non è una soluzione – qualcuno dirà - non è un rimedio: questa vita surrogata, questa copia sbiadita di vita, questo espediente per nulla originale, questa trovata per nulla geniale.
Chi scrive, si scusa. Non ha trovato di meglio.
Anche quando non crede, chi scrive si rivolge sovente a Dio.
Scrivere è raccogliersi in preghiera facendo delle proprie parole un mantra che racchiude in sé la conditio sine qua non della propria efficacia.
E si scrive, certo, per non dimenticare e non essere dimenticati, talvolta predati dall’ansia di chi sa che a far vera e imperitura memoria serve più di un solo uomo: un popolo,serve, una nazione. Ma che dico, il mondo intero!
Per smorzare quest’empito dal sapore vagamente prometeico, del quale già provo vergogna (ogni scrittore prova vergogna delle proprie cose) acciuffo al volo un frammento del film Birdman: la scudisciata verbale che Sam abbatte sullo spasmodico desiderio del padre di eternarsi come attore:
Che conti davvero per chi? (…) L’unico interessato a questa merda sei tu! E adesso ammettilo, papà (…) Tu stai facendo questo perché vuoi sentirti di nuovo importante! Be’,lo sai che c’è? Là fuori c’è un mondo di persone che lottano per sentirsi importanti ogni giorno, ma per te tutto questo non esiste! Accadono cose in questo mondo che tu ignori! Un mondo che per la cronaca si è già dimenticato da un pezzo di te! Insomma, chi cazzo sei tu?! (…) Sei tu quello che non esiste!
Tu stai facendo questo perché hai una paura dannata, come tutti quanti noi, di non contare niente!
E la sai una cosa? Hai ragione: non conti! Non è così importante, ok?
Tu non sei importante! Facci l’abitudine!
Chi scrive, sa che Sam in fondo ha ragione ma, per cosi dire, non riesce a “farci l’abitudine”.
Nessuno pensa mai agli invisibili, ai dimenticati.
Chi scrive, spera segretamente (ecco,non bisogna dirlo, non sta bene) di non finire nel novero di questi ultimi ma, in fondo, lo fa a prescindere perché la scrittura ossessiona con le sue malìe, i suoi magheggi: quell’irresistibile tramestìo nell’anima che spinge a continuare ad ogni costo.
Così, chi scrive, sovente scrive nonostante la vita. Nonostante tutto.
I vivi che non scrivono sovente non comprendono: a chi scrive serve la solitudine dei defunti, non sentire il gravame del Tempo.
E la vita è Tempo, un furto mascherato da dono.
Per fortuna, chi scrive sovente non manca d’ironia. Si fa beffe di tutto: della vita, della Morte, di se stesso.
È un nano col cappello da giullare e il mantello di Birdman che si crede Dio per il solo fatto di credere di volare.
E, alle volte, tanto basta per essere un Sisifo felice.
Dimenticavo…
Chi scrive lascia sempre un testamento, tra le pieghe invisibili del non detto.