PARTITUREAntonio Amodio

Postilli S.a.s.

PARTITUREAntonio Amodio
Postilli S.a.s.

La risata dell'avvocato Notarangelo era la cosa più irritante che un uomo avesse la sfortuna di udire al mattino presto, un cinguettio stridulo e sfiatato, simile al singhiozzo d'un gabbiano. Mimmo la detestava, e tanto era profondo quel disgusto che solo a sentirla gli schiumava il midollo. Oltre al ghigno dell'esimio principe di Via Lanza, però, al signor Domenico Scopece repelleva anche la coppia di gattopardesche comparse che ogni giorno, in accordo col Galateo dei Ruffiani, aveva l'abitudine di ronzare attorno al vecchio procuratore – il dottor Scarpiello, lo strabico primario di Oncologia, e il notaio Pipoli, il cui unico vanto rimandava a una laurea in calligrafia.
«Mo' si mangia pure il barista.» bisbigliò Notarangelo, fra uno starnazzo e l'altro.

Mimmo colse la battuta squallida e addentò il primo dei suoi tre cornetti alla crema, maledicendo i bastardi al banco non solo perché gli avevano riso dietro mentre aveva cercato di accomodarsi al tavolino, ma soprattutto perché quel trio di pagliacci dalla lingua pelosa non aveva mai dovuto guadagnarsi nulla.

Se il loro patrimonio risaliva ai tempi di Franceschiello Borbone che ne sapevano di come si porta a casa la pagnotta? E che volevano capirne di sacrifici quando per secoli avevano dimorato in ville dove i letti e l'ingresso erano a un intero giorno di distanza?

La risposta era ovvia.

Domenico, invece, lui sì che veniva dalla gavetta. Sgobbava da che aveva quindici anni, era un uomo integro, di buona volontà, e grazie a Dio il suo titolare storico – il signor Remo – l'aveva scoperto giusto un mese prima di fondare l'azienda.

All'epoca della sua assunzione, ricordava Mimmo, la società non era che una compagnia di spedizioni stipata in un capannone dietro il cimitero, e lui un fattorino che viveva in un caseggiato popolare di via Boccaccio assieme ai genitori e sei fratelli.

Circa un decennio dopo, tuttavia, il gruppo aveva incamerato tanti di quegli utili da riuscire a diversificarsi e investire in decine di nuovi reparti – dall'ufficio finanziario al team di controllo rischi – e così, attraverso una sana etica e il duro lavoro dei dipendenti, la Postilli S.a.s. si era evoluta nella più grande multi-servizi del Sud Italia.

Ripensando alle fatiche di quella travagliata carriera e alle numerose responsabilità che ancora attendevano al varco, Mimmo sbriciolò la punta di un altro croissant con un morso secco. Un caldo schizzo di chantilly gli sporcò i baffi già lordi di schiuma, addensandosi sopra il suo arco di Cupido, ma lui non se ne curò e sorvolò persino sull'ennesima frecciatina del terzetto in fondo alla sala – le bestie.

«Cialànghe 'u chiàmene a Mimì» squittì Scarpiello al compare notaio, che in risposta gli mollò una pacca sulla spalla «Pecché 'n g'avaste maije, capì?»

Domenico li ignorò di nuovo e stavolta ne approfittò per tracannare un lungo sorso di cappuccio. L'acredine del caffè nero violentò la vanigliata gentilezza del latte, scuotendo l'uomo con un brivido di guizzante frenesia. No, si rese conto Mimmo, adesso che i dirigenti avevano deciso di affidargli la gestione della filiale di Roma e nominarlo socio, competere con quegli scarafaggi aveva perso ogni logica. A differenza dei cari baroni che s'ostinavano a giudicarlo come fosse l'ultimo degli sguatteri, infatti, lui era sfuggito alla fame con le sue forze, e ora non solo abitava in un appartamento dalla cui finestra poteva ammirare le statue di Fedora e Chénier, ma a giorni sarebbe anche stato a capo di un'area vergine – guadagnando più soldi in un mese di quanti Notarangelo, Scarpiello e Pipoli potessero farne assieme in un decennio.

Divorato pure il secondo cornetto, con le briciole di sfoglia che gli nevicavano dai polpastrelli, Mimmo iniziò a sistemare la pratica per l'ultimo. Di Remo Postilli, intanto, nemmeno l'ombra. Strano. Il direttore non tardava mai, era una cambiale.

Pizzicato da un lampo d'ansia, Mimmo leccò via un ricciolo di crema giallo-pus che colava dal croissant. Mancava poco all'incontro – lo sentiva – ma quanto poco?
Sollevando il polsino della camicia, l'uomo notò che il quadrante del suo President d’oro a diciotto carati segnava le sette meno dieci. Possibile? Ancora le sette meno dieci?
     

No, non preoccuparti, si rincuorò lui, che nel frattempo aveva già lanciato un poderoso fischio, di quelli riservati ai bracchi, per attirare l'attenzione di Antonio, il ragazzetto che da quasi un anno gli serviva la colazione ogni mattina. Giusto per sicurezza, pensò Scopece, con i denti immersi nel ripieno. Un confronto.

Di colpo l'intero bar Cavour piombò nel silenzio, e mentre Notarangelo e i suoi pupi restavano annichiliti da un così laido e vorace sfoggio di cafoneria, il giovane barista si asciugò di corsa le mani e aggirò il banco, diretto verso la voce del padrone.

«Ué, Tonì» esordì Mimmo, ripulendosi i baffi. «Pure tu fai le sette meno dieci?»
«Meno cinque, signor Scopé» precisò l'altro. Il cameriere gli riservò un occhiolino, e nonostante le pietose condizioni del tavolo non parve disturbato dalla mole di rifiuti che aveva sotto il naso – chiazze di zucchero a velo ovunque, un bicchiere sporco di polpa d'arancia, tovagliolini macchiati, bolle di schiuma rappresa...
«Appo' allo'» replicò Scopece, che un secondo dopo accennò a Tonino di avvicinarsi. «Me jà, mo' pìgghje 'sta rrobbe e pùrteme 'nu dolcette. Fai tu.»
«Ci stanno parecchie cose stamattina, volete un dolce in particolare?»
«Ma niente, un biscotto. Pure piccolo va bene, ché fra poco me ne devo andare.»
«Arriva subito.»

Durante la conversazione, tuttavia, la mente di Antonio aveva fissato due parole soltanto – fai tu – e dato che il resto delle indicazioni non sembrava importante, il barista sparecchiò con calma per poi tornare con una sorpresa: un rotolo dolce.

«Assaggiate, assaggiate» lo incoraggiò il cameriere. «È di oggi. Specialità siciliana.»
L'uomo sollevò dal piattino il medaglione ricoperto, lo annusò e lo infilò in bocca senza nemmeno spezzarlo, mentre le scaglie di cioccolato gli piovevano sulla cravatta. Dopo due masticate in croce, quasi fosse un pellicano, lo ingurgitò prima ancora che le papille avvertissero il sapore della ricotta o la granulosità della pasta reale. «Buono» apprezzò Mimmo, sfoggiando quell'affannata parlantina che mostrava solo in rare occasioni di felicità, e un rutto ribadì la lode.


«Ci fa piacere, signor Scopé» disse Antonio, che parlava anche a nome del suo capo, ma all'improvviso un nuovo arrivato scassinò la discussione con una battuta.
«U' gio', incartane uno purammé, và» ordinò il tizio a Tonino. L'uomo, il cui accento chieutino ne piallava la voce, indossava un cappotto di astrakan. «Anzi no» si corresse al volo. «Fai due, ché l'altro lo portiamo ai 'uagliòni. Che dici, Mimì?»

Domenico annuì, e subito lo colse un crampo allo stomaco. In un primo momento aveva creduto si trattasse di un attacco d'ulcera, ma il problema dipendeva dalla fame scatenatasi all'arrivo di Bruno Tavani, il capo-area di San Severo detto Malanno, che s'era presentato all'incontro senza alcun preavviso – al posto del titolare.

«Il signor Postilli non c'è?»
«Ué, non t'agitare, madò, già si agita. Mica ti dobbiamo licenzià» rivelò Tavani. «C'è stato solo un imprevisto, niente di che. Dobbiamo fare una riunione» spiegò. «Dai, piglia la giacca, andiamo. T'accompagno io da Remo al ritorno, non ti preoccupare.»

A quel punto, Scopece si alzò per pagare, ma al banco dissero che offriva la casa.

Fuori dal bar, lo sciabordio delle spazzatrici sfumava a fil di nebbia e la bruma mattutina ancora resisteva per celare ai passanti la fronte della città, venata di rughe liberty. Presto, immaginò Mimmo, il sole sarebbe asceso a coronare il Pronao di Oberty e l'avrebbe inondata di luce cremisi.

«Vai» fece di colpo Bruno, indicandogli il retro della macchina.

La Croma di Malanno era parcheggiata a mezzo metro dal marciapiede, col motore acceso. Scopece entrò, tirò a sé la portiera e i due partirono. I Pooh alla radio.

«Dove sta la riunione?» domandò a Tavani.

«A San Menaio.»

           

San Menaio.

Non esisteva posto più lugubre per incontrarsi a dicembre, considerò Mimmo, ma il fatto in sé era solo una delle tante anomalie che pian piano sarebbero emerse dalle ombre di quella scampagnata fra colleghi, a cominciare dalla strada che percorrevano.

Avrebbero potuto imboccare la A14, risalire verso i laghi, e invece Tavani aveva scelto  di prendere la statale 89 – valeva a dire mille tornanti e un'ora di viaggio superflua.

La situazione divenne chiara soltanto quando la mole del castello clinico di Padre Pio fu scomparsa dal lunotto posteriore, fagocitata dal paesaggio attorno.

Fuori dai finestrini scorreva una sfocata pellicola di fronde e sprazzi di luce, non un lampione né una casa, verde ovunque. A quel punto Bruno – che fino ad allora non aveva fiatato – abbassò il volume della radio e costrinse Gino Paoli alla lingua dei segni.

Erano in auto da una cinquantina di minuti.

«Com'è stato il matrimonio, Mì?» gli chiese Tavani, senza una ragione apparente.
«Un bello sposalizio, perché? Tu non ci stavi?»
«No» replicò l'altro, proseguendo sulla 272. «Però a Remo l'avevo già avvisato, dovevo andare a Nicotera. Quelli non ti pensare che aspettano le messe. Avete mangiato bene?»
«Assàje. Pure il vino era buono» aggiunse.
«Ah, sì? E il problema è proprio questo, Mimì» lo incalzò Bruno, mentre ne osservava il viso bovino dallo specchietto retrovisore. «Hai fatto piangere a Patrizietta.»
«Io? Ma che dici?»
«Manco te lo ricordi, uggesù mije» sbottò il chieutino. «Le faldacchee, Domè. Le faldacchee. Ninuccio u' rusce m'ha detto che i ragazzi avevano lasciato le ultime due per Remo e Patrizia. Però quànne padre e figlia so' arrivati al buffet, nella guantiera non ci stava chiù 'nu cazz» abbaiò Tavani. «Ma lo sai almeno che ti sei fregato, ciaciù?»
«Oh, guarda che non sono stato–»
«No, no, tu sei stato. T'hanno visto uguale uguale» lo zittì il compare, che nel frattempo aveva sfanalato a una Clio uscita troppo veloce da una curva. «E comunque te lo dico io che ti sei fregato. I dolci della sposa. Erano un pensiero, mannàgge a chi t'è vive. Don Remo l'ha fatti arrivare da Turi. L'ha preparati 'na suora cieca, l'ha preparati.»
           

Ed ecco finalmente il motivo della riunione – realizzò Mimmo in silenzio. Dolci.

Le faldacchee confezionate da una che nemmeno ci vedeva. Da non crederci, la sua vita sbriciolata per un paio di mignon. Aveva offeso il capo, Remo u' Ciambacòrte, l'uomo a cui doveva prosperità e benessere, il vertice di un'onorata società che – se pure avesse voluto perdonarlo – di certo non avrebbe mai dimenticato la tristezza di una figlia che il giorno delle nozze finiva in lacrime a nascondersi dagli invitati.

Bruno svoltò piano a sinistra, portandosi sulla provinciale per Vico.

«E mo' lo sai che succede, Mimì?»
«No» si limitò a replicare l'uomo seduto dietro, con lo stomaco che brontolava.
«Che Roma è la mia, e da domani a trattare co' quelli di Montecitorio vado io.»

Si giocava a carte scoperte ormai, il momento della liquidazione era vicino.

La Fiat marciò su quella serpe di curvoni che era la 528 per un'altra quarantina di chilometri, finché la strada non giunse al bivio con la provinciale 144, l'ennesimo rigagnolo d'asfalto che attraversava le alture del promontorio.

Alle nove e mezzo circa, ormai a pochi minuti dal paese, i due scorsero da lontano i flutti dell'Adriatico che fustigavano le striminzite spiagge di San Menaio. La vista oltre il parabrezza era una cartolina dal Purgatorio – da una parte il mare, un eburneo nulla spennellato di bianco, e dall'altra la vecchia Difesa, un polmone di pini pronto a diventare un mausoleo.
Mentre l'auto s'inerpicava lungo uno sterrato che dalla litoranea deviava verso la pineta, lo stomaco di Mimmo ebbe un sussulto. Formicolava come un pugno di vespe.

«Siamo arrivati» gli comunicò Bruno.

Qualche metro più in là, Scopece notò una voragine nel terreno, alla cui destra attendeva una coppia di sagome che già conosceva – erano Pippo Guerra u' favrecatòre e Ciccillo Rignanese detto 'zije Siponde, due cani da faida che don Remo prendeva a prestito dai suoi amici di Monte quando bisognava reclamare "quel che è di Cesare".

Tavani spense il motore, poi uscì dall'auto e s'avvicinò alla portiera dietro.

«Esci.»

Mimmo obbedì rassegnato. Sarebbe stato doloroso, intuì poco dopo, dato che nessuno aveva portato con sé le armi – l'unico ferro sulla scena era la vanga sporca di fango che Guerra aveva usato per scavargli un monolòculo abusivo vista aldilà.

«Vai, su.» Con un cenno del capo, Bruno lo spinse a proseguire, e mentre lui si stringeva nel giaccone di astrakan l'altro camminava in direzione della tomba aperta. «Fermati sul bordo, là, ué» ordinò infine, allungando la destra verso i sicari di Postilli.

Ciccillo tirò via la pala dalla fanghiglia e la porse a Malanno.

«Non so' stati i dolci u' probblème, Mimì» gli confessò il chieutino. «Quella è solo una scusa. U' fatt' è che non ti controlli proprio. Ogge jè u' magnà, e domani? C'avèssema curcà col pensiero che un giorno che riscuoti po' àmma truà le briciole tue, è 'ccussì?»
«Io a voi non v'ho mai rubato una lira.»
«Non ancora, però don Remo dice che il rischio c'è.»
«Ma tu lo sai che d'è la fame? Che significa a' spàrte u' piatt' a ott', lo sai?»

Tavani sospirò. «Mimì» disse, «a noi non ce ne fotte un cazzo se c'hai fame e che eri povero, so' problemi tuoi. Nuije sapìme schit' che guadagni bene e lavori, ma oramàije sije 'nu dammàgge. Ci possiamo mai fidare di uno che in questura s'u pònne accattà cu' trenda bignè? Stai sempre con la bocca aperta, jà... Inizi così e po' finisce che parli.»

Mimmo guardò nella fossa. A occhio e croce, la buca era profonda quasi quattro metri e larga mezzo. L'avevano preparata su misura, come il suo abito a taglia calibrata.
«E allora sbrigati a fare que–»

Malanno non lo lasciò concludere. Gli mollò semplicemente un colpo di vanga sulla nuca – di taglio. Scopece piombò giù nel buco a peso morto, fratturandosi anche le ossa che non aveva, e i suoi centoventidue chili di lardo e manie finirono per sbriciolargli la spalla destra. Dall'alto si vedeva già il sangue scorrergli dalla tempia.

Era ancora vivo, però, e questo lo sapevano tutti – incluso lui, accartocciato laggiù.

«Nella macchina c'è un'altra pala» rivelò Bruno a 'zije Siponde. «Pigliala, và.»

Cinque minuti più tardi, in regola con le direttive d'impresa, Bruno Tavani delle Risorse Umane fu pronto a espletare le ultime formalità per il licenziamento del signor Scopece Domenico, meglio noto come Cialànghe. Giusta causa, avrebbero segnalato gli stagisti Guerra e Rignanese nella relazione finale – applicazione della clausola ematica per violazione del protocollo deontologico. La Postilli S.a.s. non poteva tollerare un impiegato alla Mimmo. Il direttore era stato piuttosto chiaro: «Se l'annà magnà i vìrme».