Lo spazio nero
Ogni giorno, dopo mangiato, salgo al terzo piano dalla Maggioni. La Maggioni è ricca, mentre noi siamo povere. Così da qualche mese vado ad aiutarla con le pulizie della casa. Mi dà cinquemila lire all’ora, anche adesso che non mi chino più a sfregare le mattonelle del bagno. Da un paio di settimane, infatti, l’unica cosa che faccio è allargare le gambe nel letto matrimoniale con la testiera in ottone.
All’inizio mi ha fatto schifo perché le dita della Maggioni sono lunghe e hanno le macchie marroni che trovi sulle bucce delle banane. Ma da un po’, soprattutto quando lei usa la lingua e non la guardo, mi lascio andare. Non succede sempre e dopo mi viene voglia di afferrare il posacenere di cristallo sul comodino e di fracassarglielo in testa. Immagino il sangue caldo che si mescola ai miei umori e in qualche modo mi eccito. Lei lo sente e ricomincia. Il piacere si mescola al ribrezzo. Non riesco più a capire dove finisca il disgusto e cominci il calore che mi bagna il ventre.
Penso spesso che potrei anche smettere di andarci. Il fatto è che ci servono i soldi e la lingua della Maggioni è meglio delle sigarette che mia madre mi spegne sul braccio se non le porto il denaro.
Oggi in classe Enrico non la finisce di fissarmi. Si volta ogni cinque secondi e mi mangia con gli occhi. Occhi giovani, che non stanno fermi sotto il ciuffo scuro dei capelli scomposti. Ieri, nell’intervallo, ci siamo nascosti nel cesso con le piastrelle color senape. C’era puzzo di piscio e sudore. Sopra la fila dei lavabi, i cazzi disegnati con l’Uniposca sembravano salsicciotti tedeschi.
Enrico ha cominciato a baciarmi sul collo. Odorava di muschio e sapone neutro. Io volevo che mi guardasse. Che restasse per un po’ con la bocca a pochi centimetri dalla mia. Avevo bisogno di una certa distanza per riuscire a carpire il suo insieme: la contrazione della mascella, le fossette sulle guance, il rosso di carne e sangue sulle labbra. Dovevo guardare, avevo fame di un corpo e di un volto prima distante e poi vicino. Così vicino da non volermene più staccare.
Dopo la lezione di geografia, al suono della campanella, ci precipitiamo in corridoio. Ho messo il vestito a fiori blu che la Maggioni adora. Quando lo indosso, le piace sollevarmi l’orlo della gonna e pensare a me come a una contadinotta vogliosa. Ha fantasie puerili, da vecchia con il fiato che puzza di stantio e caffè bruciato.
Adesso non ci voglio pensare e prendo Enrico per mano. Gli altri sanno che andremo nel bagno in fondo al corridoio. Al nostro passaggio ridacchiano e stringono le mani a pugno, muovendole su e giù. Sappiamo che non verranno a spiarci, perché hanno paura di lui. Enrico ha i bicipiti sviluppati e le dita grosse come quelle di suo padre che fa il capocantiere.
Quando entriamo, il sole di maggio penetra dalla finestrella che dà sul cortile della scuola. In questa luce incerta, Ernico ha un’aria un po’ triste. Dice che mi vuole. Mi prende in braccio e mi appoggia sul bordo del lavabo macchiato di calcare. Poi comincia a baciarmi. La sua lingua fa pensare alla colazione dei bambini: al cioccolato e ai cereali al malto. In fondo ha ancora tredici anni. La Maggioni mi fa spesso bere il caffè. Dice che sono abbastanza grande e che il caffè fa sentire vivi e battere forte il cuore.
Enrico fa scivolare la lingua sulla base del collo. Ho voglia di interromperlo e di guardarlo. Devo farlo spesso, sempre più spesso, e glielo dico. A lui non dispiace anche se adesso non riesce a fermarsi. Dopo avermi sollevato il vestito, appoggia la testa sulla mia pancia sudata. Fremo e ansimo, ma riesco a bloccarlo. Affondo le mani tra i suoi ricci crespi e gli chiedo di smettere. «Che hai?» mi chiede con la voce impastata.
«Devo parlarti» gli dico.
Enrico sospira e si solleva. Mi fissa con la faccia stropicciata. «Pensavo che lo volessi anche tu».
Non mi aiuta a scendere, allora faccio da sola. Mi passo una mano sul vestito. Faccio un lungo respiro e cerco la forza per confessargli tutto. La prendo alla larga e alla fine gli racconto della Maggioni, di quello che mi costringe a fare in cambio dei soldi. «Vedi questo?» gli faccio, indicando il braccialetto d’argento che mi scivola lungo il polso. «Me lo ha regalato la vecchia. Vorrei ucciderla. È una bastarda».
Enrico sgrana gli occhi. Arretra e scuote la testa. È pallido. Ha una faccia che sembra l’impasto della pizza. Non ha il coraggio di guardarmi. Si passa una mano tra i capelli e mi scruta di sottecchi con una smorfia, neanche fossi uno scarafaggio che brulica in una discarica. Gli faccio schifo ed è normale. La Maggioni è schifosa. La sua permanente biondo paglia è schifosa. È schifoso il rossetto che si scioglie fra le mie cosce, ed è ancora più schifoso lo spazio nero tra i suoi denti gialli. Anche io sono schifosa. Perché qualche volta mi piace. E perché dopo che mi piace, vorrei vederle uscire fuori il cervello dal cranio.
La campanella, intanto, risuona lungo il corridoio.
Enrico si strofina il viso con la mano e alla fine mi guarda negli occhi. Rimane a distanza, ha la bocca socchiusa. Si gratta la testa e la inclina sul collo. Mi domanda se è una balla e se davvero mia madre mi mena. Lo fa per almeno tre volte e per tre volte lo rassicuro: ètuttovero, ètuttovero, ètuttovero. Poi mi chiede: «Dove sta la troia, come si chiama?». Glielo dico. «Ok», ribatte. Nient’altro. Dopodiché stringe i pugni, tiene lo sguardo basso ed esce dal bagno quasi correndo. Mi viene voglia di vomitare, scarico un fiotto giallo minestra nel lavabo su cui ero appoggiata.
Durante le due ore di Lettere, Enrico non si volta più. Sulla schiena il sudore gli traccia un arco scuro. Non so perché gliel’ho detto. O forse lo so e questo mi eccita. Stringo le cosce e penso alla Maggioni con la testa rotta.
Concluse le lezioni, esco dall’aula nella speranza che Enrico mi raggiunga. Lo vedo mentre si allontana. Ride e scherza insieme a due coglioni con i brufoli e la pelle grassa. Il più tarchiato indossa una maglietta con lo smile e ha il tartaro sui denti. Starà chiedendo a Enrico se in bagno gli ho fatto un pompino.
Mi avvio verso casa. Non ho amici né amiche con cui fare un pezzo di strada. Le ragazze mi odiano, perché sono bella come una bambola di porcellana e non me ne frega niente della vita degli altri. Non ho nulla da raccontare. Non invito mai nessuno da me, anche perché in casa ci sono le blatte che saettano ovunque. Mia madre, inoltre, odia i giovani: tutti i giovani, me compresa. Dice che abbiamo il diavolo in corpo, che vogliamo solo scopare e succhiare il sangue degli adulti. Siamo dei vampiri, dei vampiri del cazzo. Non facciamo che sottrarre al mondo la sua linfa vitale. Desideriamo che tutto sia per noi; siamo talmente avidi che ci riempiano i buchi fino a scoppiare. E alla fine distruggiamo ogni cosa. I genitori, per starci dietro, finiscono come la pelle di San Bartolomeo dipinta nella Cappella Sistina. Diventano gusci vuoti. Prosciugati e privi di forza.
Alla fine non me ne importa. Se non dovessi più andare dalla Maggioni, e mia madre non urlasse tanto, starei bene da sola. Qualche volta potrei vedere Enrico, andare a mangiare con lui un gelato in centro e studiare insieme come far fuori la vecchia. Potremmo strangolarla. Sarebbe bello vedere la sua lingua bianca e schifosa sgusciare fuori, mentre soffoca.
Intanto arrivo a casa. Faccio due piani di scale, giungo sul pianerottolo e mi fermo davanti alla porta chiusa e scrostata. C’è odore di fritto e ho ancora un po’ di nausea.
Infilo le chiavi nella serratura e ascolto lo scroscio dell’acqua nel lavello della cucina. Prima di entrare, mi volto e lancio un’occhiata agli scalini che portano al terzo piano. Non so che cosa mangi la Maggioni a pranzo. Quando arrivo da lei, verso le due e mezza, in casa c’è sempre odore di ammoniaca e talco.
Oggi mia madre ha preparato le patitine fritte e l’insalata di pomodori. Mangiamo, accompagnando il pasto con il prosciutto cotto e il pane casereccio. Durante il pranzo mi osserva con aria torva. Nell’ultimo anno è invecchiata tanto. I capelli rosso fuoco, che tinge in casa, le sbiancano la fronte. Gli occhi chiari spiccano nelle sclere giallognole. Finché la pupilla è stretta, posso stare tranquilla. Quando si mangia tutto l’azzurro, il pericolo è imminente. Si preannunciano botte o sfuriate senza motivo. Per fortuna, da quando porto i soldi, succede di rado.
Terminato il pasto, mi lavo di corsa i denti ed esco. Salgo le scale con il cuore che rimbomba nel petto. Forse Enrico sta per arrivare: suonerà il campanello, entrerà con una scusa e mi aiuterà. Darà una botta in testa alla baldracca e mi porterà via con sé. Andrò a stare da lui, conoscerò il padre e stringerò le sue mani sporche di calce. All’inizio dormirò nella stessa stanza di sua sorella, che studia per diventare parrucchiera, e fisserò stupita il suo megaposter dei Duran Duran. Sono sicura che mi porteranno al mare con loro. Faremo il bagno e gli scherzi con gli spruzzi d’acqua. Poi staremo a mollo nell’acqua e guarderemo da lontano gli ombrelloni-oni-oni.
Devo avere ancora un po’ di pazienza.
Suono il campanello e la Maggioni viene ad aprire di corsa. Indossa una vestaglia rossa di viscosa e seta. Mi fa entrare e chiude la porta con uno scatto secco. Ha l’aria imbronciata.
«Sei in ritardo di dieci minuti. Sai che ti voglio puntuale».
Annuisco. Le rughe intorno alle sue labbra si infittiscono. Non si è truccata. I capelli bruciati dalla permanente le cadono in ciocche disordinate sulla fronte. La voce le va e le viene. È un po’ atona, come avesse gridato a lungo.
«Su, vai in camera e spogliati. Oggi niente convenevoli».
Obbedisco e vado nella stanza da letto. Il copriletto di ciniglia non è teso come al solito. È probabile che la Maggioni si sia stesa dopo pranzo per riposare.
Levo le mutandine e mi tolgo il vestito che le piace tanto. Lo faccio scivolare sul parquet lucido e mi stringo nelle braccia. La vecchia entra nella stanza, mi lancia una rapida occhiata e mi ordina di stendermi sul letto. Vuole che spalanchi le gambe e chiuda gli occhi. Enrico ancora non si vede. Chissà se riuscirà a venire. Sono certa di sì. Mi ama e non ci si sbaglia su queste cose.
Con gli occhi chiusi, aspetto che la faccia della Maggioni prema contro le mie cosce. Che lei inizi a toccarmi o a usare la lingua. Ho freddo, anche se siamo a maggio inoltrato. Non mi piace tenere gli occhi chiusi, sentire il buio rossastro che pulsa dietro le palpebre abbassate.
La Maggioni mi si butta addosso. Ha il fiato che sa di aceto guasto. Sento il suo bacino ossuto contro il mio. Dopo qualche secondo, si solleva con il busto e resta seduta sopra di me. Le sue gambe flaccide mi bloccano. Senza dire una parola, si piega un po’ in avanti e allunga le mani. Mi palpa le tette con gesti rapidi. Le sue dita risalgono e mi si serrano intorno alla gola in una morsa improvvisa. Mi manca l’aria, come se un macigno mi fosse caduto sul petto. Ho paura di aprire gli occhi, di vedere il volto rugoso della Maggioni trasfigurato da una furia cieca. Provo a scalciare, non ci riesco. La baldracca è forte.
Dov’è Enrico, perché non viene a salvarmi? Sto morendo.
Alzo a fatica le braccia e provo ad afferrarle i polsi, a liberarmi dalla stretta sempre più soffocante. Non ce la faccio. Quando comincia a parlare, la sua voce è remota, ovattata. Proviene dagli abissi dell’oceano. Vincendo il terrore, schiudo le palpebre: il suo viso è una maschera contratta nella nebbia. Le forze mi stanno abbandonando. Il masso che mi schiaccia ha reso l’aria un filo sottile. Un filo impalpabile che non riesco più ad afferrare.
Nella semicoscienza, catturo qualche parola: telefonata anonima, ridevano, vecchia troia leccapassere, sappiamo che cosa fai, vogliamo i soldi, a chi lo hai detto puttanella.
Forse, nonostante tutto, non è ancora troppo tardi ed Enrico arriverà in tempo. Sì, ce la farà, e mi porterà via da questo schifo.