Sciami
Quando avevano trovato la casa abbandonata, avevano dato una rapida occhiata alle stanze: l’abitazione era stata svuotata, se non per un paio di scatolette di fagioli – una era diventata la loro cena, l’altra era custodita dal suo zaino – e una confezione aperta di sonniferi. Adesso, stesa sul divano e avvolta in una coperta – più per consolazione che per necessità di scaldarsi – Elisa stava valutando se prendere una pillola e concedersi una notte di sonno ininterrotto.
Sospirò, e rivolse la sua attenzione allo schermo acceso. Come ormai da giorni, l’emittente mostrava immagini della rivolta. Ma si trattava veramente di questo? A lei sembrava piuttosto un’allucinazione di massa, una specie di perverso incantesimo collettivo under 18.
Da un paio di settimane, infatti, i bambini si comportavano in modo strano. Li aveva visti anche lei raccogliersi in vasti gruppi di cento, duecento testoline disordinate. Una massa informe tra le vie della città, apparentemente tranquilli.
Rallentàti, aveva pensato allora.
Poi, da un momento all’altro, senza preavviso, si erano trasformati in un corpo unico e compatto. Reattivo, dotato di una mente collettiva. Questo particolare l’aveva impressionata: non vedeva più persone ma qualcosa di altro, insetti, un formicaio. Uno sciame, anzi, che in reazione a un qualche stimolo correva, attaccava, distruggeva.
Da due settimane i maggiori esperti del Paese cercavano di dare una spiegazione a questo fenomeno, con discorsi, grafici, paroloni.
Tutte stronzate. Nessuno ci capiva un cazzo. Non gli scienziati, non i politici, non i numerosi sociologi, psicologi, antropologi, tuttologi che si susseguivano davanti ai suoi occhi in televisione.
Decise che il sonnifero non era una buona idea, meglio restare lucida.
Nessuno, poi, che parlasse di eccezioni. Eppure dovevano essercene, ne era sicura: non poteva pensare che l’unico esemplare di essere umano minorenne immune a quella folle manifestazione di rete neurale fosse attualmente addormentato sul pavimento davanti a lei. Così come c’era Andrea, con la sua personalità ancora intatta, i suoi pennarelli colorati e la sua paura, dovevano esistere altri bambini ancora in sé.
Evidentemente si tenevano nascosti.
Come loro.
Era trascorso parecchio tempo da che Elisa era uscita, lasciandola sola. Ormai aveva esplorato ogni angolo della casa – no, non c’era altro cibo, e no, nemmeno giochi o fogli o colori: quella casa era noiosa da cima a fondo.
Andrea aveva aperto ante di armadi, cassetti e specchiere, ricavandone solo odore di chiuso e di pulito ostentato. Non c’era altro che potesse fare per ingannare il tempo. A parte uscire, ovviamente, ma questo Elisa lo aveva proibito.
Se solo avesse potuto esplorare il giardino… Era sicura che la siepe l’avrebbe tenuta sufficientemente lontana dagli sguardi degli altri bambini: era la cosa che sapeva fare meglio, mimetizzarsi e non farsi notare. Sempre che ci fosse ancora qualcuno nei paraggi.
Comunque non aveva il permesso di farlo, quindi era inutile continuare a pensarci. Elisa aveva anche detto - e ridetto più volte, pensava fosse stupida? - di non aprire per nessun motivo le tende della grande portafinestra della sala. Andrea aveva deciso che scostarle leggermente per sbirciare fuori non costituiva un’effrazione alla regola e stava scrutando la strada sperando di vedere comparire la donna, possibilmente provvista di qualcosa che le riempisse lo stomaco meglio di quei terribili fagioli con cui avevano cenato.
Quella mattina Andrea aveva scoperto che con la pancia che brontolava non riusciva a tenere la concentrazione necessaria per il suo passatempo preferito - chiudere gli occhi e inventare storie fantastiche in cui lei era di volta in volta una versione migliorata di Mulan, Wonder Woman, Hermione Granger o altri personaggi di sua invenzione, impegnati in imprese in cui mai si sarebbe sognata di imbarcarsi nella vita reale. Aveva affinato la tecnica nei lunghi pomeriggi solitari a casa: ormai era in grado di fare durare le storie per giorni, con intrecci e colpi di scena divertentissimi! Alle volte disegnava le parti più belle per non dimenticarle. Aveva iniziato a disegnare anche quelle scene che poi riviveva nella realtà, anche se nella vita vera succedeva tutto in modo un po’ diverso da come lo immaginava nella sua testa.
Comunque, quella mattina non era riuscita a portare avanti il gioco, tra la fame e i ricordi dolorosi dei suoi genitori che riaffioravano senza preavviso. Meglio lasciare perdere.
Era immersa in questi pensieri quando sentì bussare alla porta.
Tre tocchi. Trattenne il respiro.
Non era quello il segnale concordato con Elisa.
Ancora pochi metri e avrebbe avuto la casa a portata di sguardo, finalmente. Per tutta la mattina non aveva fatto altro che pensare ad Andrea, chiedendosi se stesse bene, se non sarebbe stato meglio portarla con sé, se sarebbe stata in grado di aiutarla. A fare cosa non era chiaro, a parte sopravvivere. Era tutto troppo stressante.
La caccia - per così dire - era stata fruttuosa. Ricordava che da quelle parti anni prima si era imbattuta in un piccolo market, uno di quei luoghi-non-luoghi al di fuori del tempo, che sembrano essersi incastrati in un certo punto dello spazio e lì persistono, incuranti dello scorrere delle stagioni. Il minimarket, o, come lo chiamava l’anziana proprietaria, la botèga vendeva a prezzi astronomici e del tutto fuori mercato un assortimento scelto di merci che andavano dagli affettati al banco ai superalcolici, passando per l’Appretto e il necessaire per lucidare e spazzolare le scarpe buone della domenica.
Contava sul fatto che la maggior parte delle persone in cerca di provviste avrebbe preso d’assalto i numerosi supermercati della zona ormai abbandonati, ignorando l’esistenza del negozietto. E infatti aveva trovato la bottega già violata ma non del tutto vuota.
Recuperato il possibile, aveva accarezzato l’idea di tornare al palazzo in cui Andrea viveva con i genitori. Ma non aveva senso tentare ancora: avevano già verificato che l’appartamento era disabitato. Dei due adulti non c’era traccia, se n’erano andati. Inoltre, aveva esplorato il quartiere per ore prima di dirigersi alla bottega, sperando di incontrarli: se fossero stati nei paraggi in cerca della figlia, li avrebbe visti.
E invece, di loro non c’era traccia.
Cosa avrebbe dovuto fare adesso con la ragazzina? Pareva proprio che fosse lei l’adulta del gruppo: toccava prendere una decisione.
Sentiva il peso dello zaino sulla schiena mentre risaliva la stradina privata. Non potendo accanirsi fisicamente sui propri pensieri, aveva preso a tormentare i bottoni della salopette.
Se ne accorse in quel momento e rise al pensiero che avrebbe affrontato quella sottospecie di apocalisse zombie junior con addosso la sua uniforme da battaglia prediletta: una tutona a bretelle di jeans da cui spuntava la sua maglia preferita a pois rossi e blu.
Stava ancora ridendo tra sé e sé, quando notò un movimento vicino alla porta del loro temporaneo rifugio.
Iniziò a correre, avvicinandosi quanto bastava per vedere Andrea aprire la porta di casa – gli occhioni svegli decisamente spaventati – e fare entrare due persone.
Col fiatone, aumentò il passo. Fu allora che si accorse del fumo.
Si era pentita subito, non appena aveva aperto la porta.
Al videocitofono le erano sembrate due persone tranquille, normali. Lui era così simile a papà, con i pantaloni troppo ampi e la polo larga sulle spalle, stretta in pancia. Lei una donna qualunque, che non si faceva notare, molto diversa da mamma.
Avevano chiesto rifugio: erano in pericolo, così avevano detto. Inseguiti dai bambini.
Insomma, aveva aperto. Quel ghigno soddisfatto non l’aveva visto, dal citofono. Aveva un brutto presentimento.
I due sconosciuti si stavano chiudendo la porta alle spalle.
Scattò indietro, ma erano troppo vicini. L’uomo, più veloce di quanto le dimensioni elefantesche facessero credere, la afferrò per un braccio, trascinandola verso il centro della stanza.
《Ehi, ciao ragazzina. Sei gentile a farci entrare. Sei sola in casa?》. Gli occhi della donna ispezionavano avidamente ogni angolo della sala.
《Non parli? Niente paura eh! Lù sembra cattivo ma è tutto cuore, vero Lù?》.
《Ahi!》. Per tutta risposta l’uomo aveva stretto la presa sul suo braccio, e le faceva un gran male. Puzzava di sporco, dolciastro e acre insieme. Non le piaceva che le stesse così vicino.
《Cla, la stronzetta si è mangiata la lingua. Controlla che la madre non c’è davvero》.
Lù aveva gli occhi strani, sembravano appannati, sfocati. Non del tutto aperti, con qualche venuzza rossa. La fissava.
《Com’è che sei qui, tu? Non ci piacciono gli altri bambini a te?》.
Il passo pesante della donna lo distrasse dall’interrogatorio.
Ritornava dal rapido giro di ispezione nelle altre stanze. Quel sorriso a mezza bocca lasciava intravedere una dentatura mal messa: 《Lù, non c’è un cazzo di nessuno qui. Solo lei》.
《Hai capito, stronzetta? Adesso voglio dircela una cosa a te. Noi lo abbiamo capito quello che volete fare. Tu e i tuoi amichetti. Io e Clà lo sappiamo, sì sì》.
《Volete mandare tutto a puttane, eh? Come fate, vi parlate nella mente? Con le onde elettromagnetiche?》.
La donna sembrava esaltata, completamente su di giri. La bambina non osava respirare.
《Clà, ’sta pezzente non ci prende sul serio. COSA CAZZO STATE FACENDO TU E GLI ALTRI??》.
Andrea era paralizzata. Non capiva il senso delle loro frasi. Intuiva che la accusavano di qualcosa che riguardava i bambini matti. Ma lei cosa c’entrava?? Era soltanto una bambina ubbidiente che giocava da sola.
Non osava dirlo, l’energumeno stringeva il braccio sempre più forte, poteva sentire il suo fiato umido addosso. Era terrorizzata. Elisa, le serviva Elisa.
《Ok piccola, adesso andiamo in cucina, tutti e tre, come una bella famigliola. Dai Lù, portala qui》. La donna iniziò ad aprire e chiudere uno per uno i cassetti della cucina.《Sei proprio fortunata tu, eh! Ci sono persone cattive in giro. Lo sai che non si deve girare da soli? La tua mamma non doveva lasciarti qui. Ma sei fortunata, perché vi abbiamo viste arrivare e a me e Lù i bambini ci piacciono eccome》.
《Adesso non ce n’è più che giocano da queste parti però》, ghignò lasciando la presa per ispezionare i pensili.
《Quindi, adesso, piccolina, ci racconti tutto quello che fate, e perché non hai amichetti attaccati al culo. Sei tipo il capo? Sei speciale? O non ti hanno voluta con loro? Tranquilla, che adesso racconti tutto, poi insieme giochiamo un pochino》.
Il cuore che martellava, Andrea si sforzava di ragionare. Cosa avrebbero fatto le protagoniste delle sue immaginarie avventure? Colpirli entrambi, legarli e consegnarli alla giustizia come una vera eroina? Impensabile, erano in due e lui era enorme.
Poteva scappare, adesso che l’energumeno si era allontanato. Ma per andare dove? E poi già prima ci aveva provato ed era stata lenta. No, serviva un'altra idea.
Elisa dove si era cacciata? Non è che aveva deciso di mollarla lì da sola?
Se solo avesse avuto i poteri come Hermione! E la sua intelligenza… Con uno schiantesimo li avrebbe messi al tappeto e sarebbe volata via. Ma era solo una bambina. In una casa con due tizi, che in quel momento avevano il naso nella dispensa – vuota, ho già controllato, mi dispiace.
Il rumore arrivò per primo. L’onda d’urto una frazione di secondo dopo. Andrea si era ritrovata a terra, l’aria satura di un fischio acuto e continuo, e di polvere.
Si alzò barcollando, senza capire. Vide l’enorme varco nella parete esterna della cucina, i mattoni sparsi per la stanza. Mobili caduti.
Il fischio sempre più forte.
E si gelò, trovando la dispensa ribaltata; sotto di essa, due corpi immobili.
Le sembrò che il mondo le roteasse intorno come una trottola. Stava per crollare di nuovo a terra, quando qualcuno la afferrò e la trascinò via. Elisa correva tenendola saldamente per mano. Alla fine era tornata. Andrea vedeva la donna muovere le labbra, lo sguardo preoccupato, mentre procedevano veloce lungo la strada, ma la voce non la raggiungeva.
Cosa. Cazzo. È. Successo.
Non riusciva a pensare ad altro.
Sapeva che non avrebbe dovuto lasciarla da sola. Quei due tizi… chi erano? Cosa volevano dalla bambina? Non poteva soffermarsi a pensare: aveva negli occhi lo spettacolo dei corpi schiacciati che la faceva rabbrividire. Avrebbe chiesto a Andrea di raccontarle tutto quando si sarebbe svegliata.
Procedevano a gran velocità sull’autostrada dei laghi, direzione: Milano. Aveva preso quella decisione d’impulso, mentre correvano via dalla casa sfregiata. Non sapeva cosa fare con Andrea. I genitori sembravano averla abbandonata, dovevano tenersi lontane dagli sciami di bambini. A quanto pareva, bisognava preoccuparsi anche degli adulti. Le era venuto in mente che Marco, un vecchio compagno di corso all’università, lavorava in un laboratorio di neuroscienze a Milano. Raggiunta la macchina, lo aveva chiamato. Marco le aveva confermato che l’università aveva aperto un gruppo di studio per il comportamento anomalo dei bambini: poteva portarvi Andrea, si sarebbero presi cura di lei.
Allora aveva messo in moto ed era riuscita a lasciare il centro abitato senza imbattersi in nessuno. Sfrecciava sulla A8, le mani tremanti aggrappate al volante e Andrea addormentata sul sedile accanto.
Tremava per l’adrenalina, ma non solo. L’esplosione, quella la turbava profondamente.
Aveva visto l’albero prendere fuoco, ma non capiva come. Prima era del tutto normale, poi la chioma – solo quella - era in fiamme. Non c’erano persone nei dintorni, né fili dell’alta tensione né altro. Però aveva preso fuoco. E fino a qui, tutto sommato, poteva anche esserci una spiegazione che le sfuggiva.
Ma come spiegare le fiamme che a quel punto dalla chioma avevano iniziato a muoversi verso il basso? Come un serpente, il fuoco aveva strisciato, oltrepassando il prato, poi il muretto di cinta della casa, fino a raggiungere il contatore del gas. Non si era allargato, diffuso o altro. Aveva proprio strisciato, lasciando dietro di sé una sottile linea bruciacchiata. Mai visto niente di simile.
Raggiunto il contatore del gas, c’era stata l’esplosione che aveva fatto crollare parte della cucina. Ma poi, i contatori del gas davvero possono esplodere in quel modo?
Iniziava a dubitare della propria lucidità. Che fosse in preda a un esaurimento nervoso? Le sembrava tutto troppo strano. Il piede premeva sull’acceleratore.
Non era sorda, quindi. Sentiva chiaramente il motore della macchina e l’attrito della piccola vettura contro l’aria. Si era svegliata, ma non voleva ancora aprire gli occhi. Sapeva che al volante c’era Elisa. Sapeva anche che le avrebbe chiesto spiegazioni. Voleva aspettare ancora un po’ prima di parlare, riordinare le idee.
Prima: borbottio allo stomaco; poi: i due tipi strani in casa; dopo: l’esplosione. Infine Elisa l’aveva trovata e portata via. Chissà se aveva pensato di recuperare il suo zaino con i colori.
Elisa l’avrebbe sicuramente sgridata.
Ok, non sembrava il tipico “adulto”, era abbastanza strana. Però sapeva che l’avrebbe sgridata: aveva fatto entrare i due tizi. Che stupida! E poi aveva desiderato di schiantarli – stupida due volte. E infine era successo davvero.
La macchina ebbe un sussulto e Andrea si ricordò che erano in viaggio: ma dove stavano andando? Non riuscì più a vincere la curiosità e dovette aprire gli occhi.
《Ehi, buongiorno principessa!》.
《Ciao Elisa》.
《Allora ci senti! Bene, benissimo. Hai dormito mezz’ora, prima non rispondevi alle mie domande e temevo ti fossi giocata l’udito》.
《Avevo un fischio fortissimo. Adesso è più debole. Dove stiamo andando?》.
Vide Elisa rovistare con una mano nello zaino, dietro al suo sedile. Dopo qualche secondo trovò quello che cercava e glielo porse.
《Ho trovato dei biscotti, al market. Mangiane qualcuno ché sarai affamata》.
《Elisa, quando siamo corse via… hai preso anche il mio zaino?》.
《No, piccola. Siamo schizzate fuori alla velocità della luce. Al negozio c’erano fogli e colori, te li ho presi. Non so, vedo che ci giochi spesso, così te li ho portati. Mi dispiace per il tuo zaino con i disegni》.
《Cioè hai preso i colori per me?》.
La domanda fece ridere Elisa: 《Certo, mica li ho presi per me! Di artista qui ce n’è solo una e posso assicurarti che non sono io》.
Così, li aveva presi per lei. Solo per lei. Una scatola di coloratissimi pennarelli a punta fine. Non i soliti trattopen blu oppure neri oppure rossi che riusciva a elemosinare quando i suoi andavano al supermercato. E comunque, li prendevano solo perché servivano anche a loro.
Un colore basta e avanza, dicevano: devi pensare a studiare e prendere buoni voti.
Chissà dov’erano andati. Mamma e papà. Chissà se adesso che era lontana pensavano un po’ di più a lei. Ora che non avevano un ufficio in cui tornare. O magari erano in un bellissimo posto sul mare e si erano dimenticati completamente della loro figlia.
Quando aveva immaginato la loro partenza, non aveva pensato alla destinazione.
Intanto aveva preso a disegnare.
《Ma tu disegni proprio sempre! Qual è il soggetto?》.
《Una cosa che ho pensato》.
《Disegni spesso cose che immagini tu?》.
《Sì. Non voglio dimenticarle. E poi le confronto con quello che succede davvero》.
Certo che si stava portando dietro una bambina un pochino strana.
《Andrea, adesso che cosa stai disegnando?》.
《Questo è uno scoppio bello forte》.
《Tipo l’esplosione di prima?》.
《Quasi, più magico》.
Elisa aveva decelerato per riuscire a sbirciare i fogli colorati.
《E quello? Un grosso fiammifero?》.
《Ma no! Non vedi? Quella è la casa del serpente dragone. Vive sui rami ma quando succede qualcosa che lo fa arrabbiare, lui scende e sgrida tutti》.
《Ma quindi è un albero?》.
《Perché, non si vede?》.
《… e il serpente, sputa fuoco?》.
《Certo! Se no come avrebbe fatto a fare esplodere il muro??》.
Erano alle porte della città. Elisa accostò in un’area di sosta, aveva il fiato corto per le parole della bambina. Doveva riflettere.
Elisa era scesa dalla macchina e guardava i campi oltre il guardrail, e i primi palazzi dell’hinterland milanese. Il silenzio innaturale la faceva sentire come se fossero rimaste soltanto loro: le ultime due umane sulla Terra. Un vento leggero le accarezzava la pelle.
《Perché siamo ferme?》. Andrea l’aveva raggiunta e la guardava un po’ perplessa.
《Mi serve una pausa》.
《Ah! Noi non ne facevamo mai quando viaggiavamo…》.
《Con i tuoi, intendi? Nemmeno pausa pipì?》.
《Ci si ferma quando si arriva!》 disse Andrea mimando il tono che avrebbe usato suo padre e agitando il dito indice contro il cielo.
《Ah, ma che carini!》, boffonchiò Elisa, sistemandosi gli occhiali sul naso. Prese fiato e si decise ad avviare un discorso che aveva posticipato fin troppo a lungo.
《Andrea senti, ricordi quando ci siamo incontrate, sotto i portici in paese?》.
《Sì, la sera dei bambini matti》.
《Eri arrivata lì con i tuoi genitori, giusto?》.
《Sì, eravamo andati al ristorante, per la festa di mio zio. C’erano anche i cugini, abbiamo giocato a nascondino nel cortile ed è stato bellissimo! Non ci vediamo proprio mai, i nostri genitori sono molto impegnati, non possiamo vederci sempre. E poi bisogna che stiamo attenti, non possiamo fare tutti i giochi che vogliamo》.
《Per esempio?》
《Mmm… per esempio non possiamo giocare a nascondino come piace a noi, perché se ci nascondiamo fuori nel cortile del ristorante gli adulti degli altri tavoli si arrabbiano, diamo fastidio. Non possiamo nasconderci nella cucina, che è perfetta, ha tantissimi nascondigli. Se ti nascondi in cucina, poi succede che devi scappare per non farti beccare, esci in fretta dal nascondiglio, inizi a correre, vai a sbattere contro il cameriere, fai cadere piatti, posate e tutto quando, e ti prendi una grossa sgridata》.
《Andrea, non dirmi che hai rovesciato il vassoio del cameriere. Ceeto che sei una teppistella!>>, ridacchiò Elisa.
La bambina, però, non sembrava divertita. Anzi, a quell’affermazione aveva preso a stringere le mani e intrecciare le dita, come per non scivolare via. Era serissima.
《Ti hanno sgridata tanto?》.
《Io volevo solo giocare con Chiara e Luca! Ma noi diamo fastidio, sempre. Se guardiamo i cartoni, il volume è troppo alto. Se giochiamo a nascondino, siamo maleducati che non sanno comportarsi. A loro va bene solo se gioco nella mia testa, ferma e zitta sul divano, oppure quando disegno.
《Siamo andati via senza nemmeno mangiare la torta con la frutta e la panna. Papà era furioso, la mamma mi teneva strettissima per mano e non parlava. Mentre andavamo verso la macchina, li ho sentiti: da quando ci sono io non fanno più una cena come si deve, hanno detto. Sono un’egoista che gli toglie tutto lo spazio》.
A quel punto, Andrea era in preda al pianto, il viso rigato e gli occhi gonfi. Aveva le braccia incrociate, le mani artigliavano i vestiti. Elisa avrebbe voluto abbracciarla, darle conforto. Ma allo stesso tempo era frenata da quel fiume emotivo che era straripato dalla bambina in un attimo. E poi, voleva che continuasse a raccontare.
《Andrea, mi dispiace, tu volevi solo giocare. Riesci a ricordare come sei arrivata al porticato dove ci siamo incontrate?》.
《Quando li ho sentiti dire quella cosa, ho gridato, e ho provato a scappare via. Non volevo stare lì se li facevo stare tanto male. Il papà mi ha preso per il braccio e mi ha detto di smetterla di fare la matta, che erano stufi di sentirmi piangere, che avevo tutto e che non mi andava mai bene niente>》.
Andrea, tornata alla macchina, si era appoggiata al sedile posteriore, le gambe buttate all’esterno. Faticava a controllare i singhiozzi e teneva i pugni strettissimi.
Dopo qualche secondo, riprese: 《Avevo paura che non mi volessero più. E allo stesso tempo non volevo tornare a casa con loro. Sentivo la delusione. Camminavano nella piazza che era pienissima di ragazzi e bambini; c’era tutto questo rumore di persone che parlano, come un ronzio. E papà ha sbattuto contro un ragazzo che lo ha guardato con gli occhi scuri. E allora ho capito che sarebbe successo qualcosa, l’ho visto nella mia testa, che tutti loro erano capaci e liberi di fare quello che io non potevo. Ho avuto paura: ci guardavano, tanti occhi, tutti su di noi, e anche i miei lo hanno capito. Allora ho sentito la stretta sulla mia mano che si allentava, papà che urlava di correre e la mamma che scattava in avanti. Poi hanno iniziato a muoversi tutti insieme, come in una spirale, prima piano, poi forte, allora ho corso anche io, sono uscita dalla folla e mi sono nascosta dietro una colonna. Ho pensato che sarebbero venuti a riprendermi per andare a casa. Poi ti ho vista》.
《Anche io stavo scappando dallo sciame, i ragazzini stavano diventando violenti e cercavano di abbattere la tensostruttura che copriva parte della piazza per riparare i tavolini dei bar. Ho capito subito che tu non eri in preda allo stesso delirio》.
Elisa si era messa sul sedile posteriore, le braccia calde intorno alle spalle di Andrea, che a fatica parlava tra un singhiozzo e l’altro.
《Li ho lasciati correre via, Elisa, non li ho seguiti. Pensano che li ho abbandonati, per questo non mi hanno più cercata>》.
Eh no, piccola. Ti hanno mollata lì, altroché. 《Non lo pensano, ne sono sicura. Hai fatto l’unica cosa che potevi fare e sei stata bravissima》.
La città era molto diversa da come Andrea si aspettava. Non c’erano tante automobili in giro. Ogni tanto intravedevano qualche gruppo di bambini, sembravano tranquilli.
Cerano tante macerie e un paio di volte Elisa aveva dovuto cambiare tragitto o fare inversione per trovare strade alternative. Chissà quanto era distante l’università. L’idea del gruppo di ricerca spaventava un po’ la bambina: temeva che le avrebbero messo un doloroso casco di elettrodi in testa, come in quel film che aveva visto.
Secondo Elisa era la cosa giusta da fare, e lei si fidava di Elisa. Le aveva anche preso i colori!
Erano arrivate a una piazza molto grande, c’erano gruppetti di bambini qua e là e tante macerie per terra.
《Non voglio fermare la macchina con tutti questi bambini intorno, ma devo per forza rallentare, altrimenti rischiamo di forare》.
In quel momento il telefono di Elisa squillò.
《Pronto, Marco? Stiamo arrivando, in teoria tra pochi minuti siamo lì, ma le strade sono una merda. Sì, lei sta bene. Qui è pieno di bambini, alcuni ci fissano e mi sembrano minacciosi: mi concentro sulla guida, ci vediamo tra poco》.
Andrea si tirò su per vedere meglio oltre il finestrino: una mezza dozzina di ragazzini le osservava con molta attenzione. Non le sembravano minacciosi, però. Anzi, avrebbe detto che erano incuriositi. Molto incuriositi da quella piccola macchina rossa che procedeva a zig-zag. Si sentì subito curiosa anche lei, voleva saperne di più: chi erano e perché stavano in quella piazza disastrata?
Poi udì una risata, di quelle sincere, che escono spontanee dal fondo della pancia, e cercò di individuarne l’origine: eccola, una bambina dai lunghi capelli ramati si dondolava su una altalena di fortuna, appesa a quello che era stato un semaforo. I capelli riflettevano il sole mentre inseguivano il piccolo capo che ondeggiava, dando il ritmo a collo, schiena, polsi, gambe. Le oscillazioni erano sempre più ampie, i bambini intorno avevano intonato una canzone e battevano le mani tenendo il suo ritmo. Sentiva l’aria fresca strisciare dal naso verso occhi, orecchie, bocca, e da lì accarezzare tutto il corpo, le braccia, che aggrappate alle corde facevano resistenza, la chioma libera.
Salendo verso l’apice dell’oscillazione, il ritmo rallentava, il sole era più vicino e – come se qualcuno avesse premuto il tasto PAUSA – per qualche secondo si trovava sopra al mondo. Poteva scorgere il suo sciame, sentirne il pulsare sincronizzato, percepire la sensazione che attraversava ciascun corpo e che si mescolava con il corpo di tutti, fondendosi, facendo sintesi, un tutt’uno. In quel preciso istante, ciò che li percorreva era come la gioia leggera della domenica, quando, in un'altra vita, pregustava il momento dei giochi, le risate, gli scherzi, il sonno, il poter fare, il non dovere.
Fine della PAUSA, ecco la discesa: in accelerazione, lo stomaco sembrava risalire verso l’alto e il brivido della corsa all’indietro così vicina a una caduta le infondeva paura ed eccitazione.
Sono io, sono viva, sono infinita.
L’aria dietro la schiena, i capelli in avanti, il mondo adesso velocissimo, la felicità, e la risata che sale dalla pancia ed esplode fragorosa senza freni senza limiti senza il fastidio di nessuno.
Andrea ride, è sull’altalena.
Ed è nella macchina.
Vede che Elisa la fissa, preoccupata. Sta cercando di rimettere in moto l’auto che si è fermata. 《Andrea, perché ridi? Hai visto qualcosa di buffo?》.
Niente di buffo, solo bello.
《Che c'è? perché mi guardi in quel modo?》.
Me l’ero dimenticato, Elisa. Lo avevo dimenticato, ma adesso lo so.
《Non aprire la portiera, resta su, ché è pericoloso. Aspetta Andrea! ANDREA!》.
Non posso restare. Cerca di capire. Non posso andare dal tuo amico, perché lui non lo sa, e anche tu non lo sai com’è. Però puoi venire a scoprirlo anche tu, se vuoi. Vieni anche tu, sarà bellissimo.
Me l’ero dimenticato, Elisa.
Lo avevo dimenticato, ma adesso lo so. So com’è andare sull’altalena.
Ed è così che voglio stare.