Piena di grazia
Ave, o Maria, piena di grazia, prega per noi peccatori.
Nella stanza accanto, Maria pregava.
Niura non dormiva.
Che il suo Dio se la porti, o la ammazzo io prima.
Gli occhi minuti soffocavano, annaspando, tra le guance paffute insidiate dal grosso naso storto, troneggiante al centro della faccia in tutta la sua arrogante bruttezza. I seni risibili, incassati tra le spalle larghe, piallati sull'ampio torace, il ventre esuberante e i fianchi generosi a render tozza l’intera persona. Niura era ossessionata dalla propria immagine allo specchio, che non guardava. L'informe riflesso era quello della madre. Ruppe lo specchio, si augurò la morte della donna della stanza accanto e la propria, confondendo il disgusto per le due figure. Ogni notte i piedi scalzi misuravano i quindici metri quadri del perimetro, senza posa; ogni venti passi si chinava a raccogliere cocci di vetro e li infilava dentro il Calimero di pezza bucato sullo stomaco. Quel buco nero era il suo scrigno, ci infilava dentro di tutto, anche le parole indicibili. Una notte si tagliò il pollice destro, lo mise in bocca senza sfilare il coccio dalla carne lacera e succhiò il sangue con vigore. Sapeva di chiodo arrugginito, anche se non ne aveva mai leccato uno. Anche se avrebbe tanto voluto. Masticare un chiodo, ingoiarlo, lacerarsi la pelle. Vomitare il buio. Dormire. Trovare pace. Sfilò il coccio ed esaminò le possibilità di quell'apertura. Tentò di penetrare con l'indice sinistro nella zona molle e rossiccia, spalancando la crepa. Dolcemente. Ci passò sopra la lingua, avanti e indietro, con calma ripulì il sangue che colava ai lati e s'inebriò della maestria di quel tocco. Ripulì il coccio e lo ripose nel buco nero. Infilò con impazienza due dita tra le gambe e rimestò nel sangue, ritrovando lo stesso piacere. Nelle notti difficili sapeva cosa fare, e come. Verso l'alba si addormentava. Voltolandosi tra le lenzuola, giaceva scomposta, le braccia penzoloni, punendosi in sogno per i cattivi pensieri: un demone dispettoso, brandendo la falce ossuta, si accovacciava sul suo torace, le schioccava un bacio, le strappava la pelle a morsi e la sputava accanto al comodino dove giacevano, insieme al vetro, i cocci della sua faccia di vecchia.
Ah, che schifo! Non hai un buon sapore!, gridava il demone. Poi spariva.
Ave, o Maria, piena di grazia, prega per noi peccatori.
Il sonno della donna della porta accanto, protetto dall'acquasantiera in ottone e dai santini sparsi sul comodino, era quasi sereno. In sogno ripeteva il mantra. Per il Padrenostro e l'Ave Maria la sua bocca, come la sua anima, erano rimaste dolci. Eppure Maria era poco più che un pezzo di carne morta attorto ad una colonna vertebrale vertiginosamente ritta, memoria di un fulgido passato da ballerina classica. Ad ogni risveglio incrociava le gambe, drizzava i palmi delle mani verso il cielo e chinava il busto sul pavimento, tendendo le braccia rovinosamente in avanti, fino a spezzarsi. Un'avemaria e un po’ di ginnastica. Tendere la schiena fino al dolore era tutto ciò che, di quell'abortito futuro possibile, le restava. Dietro le chimere vanite, resisteva un empito vitale nel sussulto della carne di fronte alla paura. I globi risucchiati dalle orbite, il sorriso mozzato, gli angoli della bocca tirati verso il basso da due uncini. Accartocciandosi su se stessa digrignava i denti, trafiggeva con le unghie i palmi delle mani e si sollevava.
Faticosamente.
Iniziava una nuova giornata.
Si torceva le mani al pensiero che la figlia, un giorno, avrebbe lasciato quella casa. L'avrebbe lasciata sola. Se scorgeva la brama di vita di Niura in un imperdonabile accenno di vanità - una camicetta discinta, una pennellata di rosso sul viso - alzava la voce per coprire la paura.
Una donnaccia! Ecco cosa sembri. Che schifo!
Niura faceva le prove davanti allo specchio rotto solo per capire cosa significasse, e se fosse possibile, sentirsi bella senza che nessuno te lo dica. Portare nel mondo un corpo informe dentro un inganno ben congegnato. Oggi una gonna corta – giudicò le cosce il suo punto forte – e una canottiera con lo scollo a V – si eccitò a guardare la propria pelle nuda nella zona tra le scapole e il torace. Le dr martens slacciate e le calze a righe nere e viola, la sua ribellione ai colori pastello dell'infanzia, gli orecchini blu bordati di nero come gli occhi sbavati dentro le lacrime. Rivolgere all'anta dell'armadio sorrisi ammiccanti stringendo al petto il Calimero di pezza e incontrare quel primo sguardo, pronto a schiantare il colore.
Ave o Maria, piena di grazia, prega per noi peccatori.
Sull'attenti per il controllo di rito, Niura serrò gli occhi e le labbra fino a sanguinare.
La speranza, fracassata dai rimbrotti della madre, si slabbrò in un grido silenzioso ah, che schifo!
La lingua purulenta del demone, vibrando, si abbatté sulla sua guancia per il bacio di rito. Impotente come negli incubi, Niura nascose il volto con entrambe le mani e corse in camera a sputare il rossetto e la bava sul cuscino.
Signore, che mi odi pure, purché non mi abbandoni.
Rimestò tre volte il mantra inconfessabile, sbattendo la porta alle spalle di Niura.
E recita tre volte l'Ave Maria, schifosa - gridò dal soggiorno - e chiedi perdono al Signore! Affrettò il passo e andò a inginocchiarsi davanti all'icona sacra 30 x 50 appesa sopra la tastiera del letto, specchiandosi nella sua omonima piena di grazia.
Preghiamo.
All'inizio, Maria trovava sempre qualche commissione da affidare alla figlia, lamentando la stanchezza o un grave malessere. Non resse a lungo la pantomima. Più capiva di dipendere dalla ragazza per la propria felicità, più gliene voleva per il suo desiderio di vita. Questo mendicare amore la rendeva vergognosamente debole ai propri occhi. In scacco, reagiva come una belva in gabbia.
L'1 novembre alle 16.45, lo stesso giorno e la stessa ora in cui era nata, Niura uscì a fare la spesa. Compra la torta di fichi – disse Maria – così festeggiamo il tuo compleanno. La preparerei io ma non mi reggo in piedi. Crollò sulla sedia. Stavolta sembrava sincera. La torta di fichi era il suo dolce preferito. Niura chinò il capo per assentire. Odiava i fichi.
Sebbene rassicurata dalla quiete degli ultimi giorni, Maria era sospettosa per natura. Sapeva che Niura teneva un diario. Dal bordo del letto il Calimero di pezza la fissava con occhio colpevole. Maria lo afferrò con foga e lo sollevò: quell'ammasso di piume silenzioso pesava più di quanto avrebbe dovuto. Un intreccio di fili neri appena visibile si perdeva nel folto del pelo, partendo dal collo gli attraversava la pancia in verticale. Maria afferrò le forbici e spezzò la cucitura. Il buco nero vomitò sul letto giarrettiere, cocci di vetro, rossetti, smalti e mascara, una boccetta con dentro un liquido rossastro, una miriade di pezzi di carta con sopra abbozzati seni, bocche, nasi, lingue. Per ultimo, dal fondo, cadde sul cuscino un quaderno nero. Dentro, incollata sull'ultima pagina, la foto di una donna dai capelli biondi, le labbra carnose, il naso aquilino, i fianchi stretti, il seno esuberante a stento trattenuto dentro la fenditura dell'abito succinto.
Cara Dora,
la mia vita è tutta un vorrei di stelle schizzate di fango sul volto di chi mi guarda. Di recente ho scoperto di essere un corpo. Ho passato la vita a ignorarlo come fosse una cosa meschina, insignificante. Non ero io, la mia voce. Era la voce di mia madre, la sola che riesco a sentire.
La mia nota si spezza, non conclude. Non so nulla di te, se non la sola cosa che conti: sei bella.
Un sogno: mi sdraio nuda sul divano e aspetto sperando che tu entri, mi veda, mi dica che sono bella e mi prenda con forza. Il divano è bucato, pullula di cimici. Lo specchio in bagno è rotto e l'orologio è fermo alle tre, l'ultima volta che ho pianto. Tu non vieni. Dovrei alzarmi e uscire ma resto immobile. Un piccione entra dalla finestra e lascia escrementi ovunque: sulle violette appena colte, sulla torta di fichi, sul mio corpo nudo.
Come l'amore di mia madre, questa casa non ha un buon odore.
Solo tu puoi liberarmi. Ho paura di restare qui a marcire per sempre. Una donna bianca senza volto, coperta dal manto blu dell'Addolorata, mi appare in sogno. Vorrei possederla su quel lurido divano, strapparle la carne a morsi. Punire una santa mi farebbe dimenticare la paura? Basta peluche di pezza, voglio un corpo vero dentro il quale infilarmi.
Vuoi essere tu, questo corpo?
Posso chiamarti Dora? Quanti anni hai? Potresti essere mia madre.
Ti guardo ogni giorno, da mesi. Martedì ti ho scattato una foto. Ho alzato la posta. Volevo che anche tu mi guardassi ma non ti sei nemmeno accorta di me.
Mi piace come misuri l'asfalto ad ampie falcate, i tacchi nel fango. Aspetti. Sorridi. Ammicchi anche quando nessuno ti guarda. O forse una donna come te sa di essere sempre guardata. Cosa si prova ad essere bella? È più facile o meno doloroso peccare? Chi è il peccatore? Chi tocca o chi si lascia toccare? Per chi prega mia madre? Tu sei davvero piena di grazia. Non quel simulacro davanti al quale mia madre s'inchina punendosi col dolore. Davanti a te sì, mi inginocchierei. Per il tuo sguardo, per la tua carne pregherei ogni notte.
Mentre mi lecco le dita sporche di gelato, comincia a piovere. Una Lamborghini inchioda, la portiera si apre e tu sparisci schizzando fango sulle lamiere dorate. Sei già lontana, come sempre, ma ormai ti ho presa. Ho disegnato ogni parte del tuo corpo. Ricucirò il buco nero per l'ultima volta e verrò a chiederti qualche ora d'amore.
Ti ho già detto che oggi è il mio compleanno?
Maria non pregò. Non si inginocchiò. Non chiese perdono. Restò seduta sul letto e ricucì la pancia di Calimero, in silenzio. Si fece buio, la cena si freddò, un piccione entrò dalla finestra. E Niura ancora non tornava.