rmet

Scrivo incurante del rischio come, del resto, chi legge.

Lea è ormai materia inorganica e presto forse lo sarò anch’io e non è detto che mi spiaccia, almeno, stando a quel che dice Lea, diceva.

/nosleep è la sottocategoria di uno dei tanti forum dispersi in rete. Lea l’aveva trovato in uno dei suoi ‘giorni bui’, come amava chiamarli. Non mi aveva spiegato di cosa si trattasse, mi aveva solo fatto leggere un post, firmato Anita. Una storia che induceva i visitatori notturni a perdere del tutto il sonno.

Ne lessi qualcun’altra quando andai a letto. Le prime due, che non finii, rischiarono di produrre l’effetto opposto, ma la terza mi tenne davvero sveglio più del dovuto. Il giorno dopo entrai alla seconda ora del compito di greco e il professore, com’è giusto, imprecò.

Lea mi invitò a scegliere, come lei, uno pseudonimo e a partecipare, così iniziò un lungo semestre le cui albe si fecero di giorno in giorno più tormentose. Nel pomeriggio, dopo aver riposato durante le ore di scuola, andavamo al parco della villa, quella oltre la diga. Era nota per la sua chiesetta, nella zona abbandonata e inaccessibile, dove pare si svolgessero messe nere e sedute spiritiche.

Sdraiati sull’erba, commentavamo le storie lette la notte prima, cercando di capire se qualcosa di vero si celasse oltre il velo di terrore. Le stesse parole che di giorno sembravano innocue, a tratti anche comiche, alle tre del mattino, quasi fossero formule da pronunciare all’ora esatta, assumevano tutt’altra forma.

In una delle prime che scrissi, ma che non postai sul forum, c’era un essere, chiamato Hermeto, ai piedi di un sarcofago. Hermeto si muoveva all’interno della sala mortuaria, interrogava i muri e le colonne, che rispondevano con enigmatiche frasi, poi riemergeva e camminava tra le piramidi nel deserto, infine attraversava una porta disegnata sul lato di una sfinge. Sulla porta era dipinto l’universo buio su cui brillavano alcuni corpi incandescenti. Fin qui avevo scritto quasi senza pensare, poi mi ero bloccato. A corto di idee, conclusi la storia con Hermeto che varcava la soglia.

Avevo persino disegnato i simboli scolpiti sul sarcofago e li volevo aggiungere in coda al post. Quella notte mi svegliai in preda all’angoscia. Ripensavo ai simboli di cui non conoscevo il significato. L’indomani strappai i disegni e cancellai la storia.

Secondo Lea /nosleep era il risultato di operazioni combinatorie di cui nessuno conosceva i meccanismi profondi. Eravamo lettori di Radcliffe, Poe e Lovecraft, disassemblavamo le loro parole per riassemblarle e ricontestualizzarle a modo nostro, e il risultato a volte riusciva a tenerci svegli.

Secondo questo criterio potevamo dirci soddisfatti, ma conoscevamo il vero significato dei messaggi annidati tra i paragrafi? Per Lea no, neanche chi sembrava padroneggiare l’arte, per il semplice fatto che nessuno poteva dirsene padrone. Sembrava semmai di essere costretti a un gioco bendato e, in questo gioco, l’unico modo per trionfare o uscirne, morti o non più morti, era rischiando tutto.

Le raccontai di Hermeto e dei simboli che avevo disegnato e cancellato. Lea si mise a ridere e disse che ero un coniglio. Più precisamente, sussurrò: «Coniglietto bianco stai attento agli altari».

Qualche pomeriggio dopo, sul prato della villa, ascoltavamo My Bloody Valentine bevendo una birra.

«Tisicomio».

«Mi son che?» scherzai, pensando che dicesse qualcosa nel dialetto artificiale della nostra generazione.

«No, tisicomio. Non te si comio. Che tra l’altro non significa nulla».

«Tisicomio?».

«Sì. Era un tisicomio» disse puntando la bottiglia verso la villa. «Per i malati di tisi».

«Be’ ora invece dei tis ci stanno i tos… sici».

«Questa schifezza l’aggiungo nella mia prossima storia» disse fingendo di prendere nota.

«A che punto sei?».

Fece spallucce, poi disse: «Secondo te, cosa farebbero Lea e il suo valoroso amico, in una villa maledetta?».

Non le dissi quello che, in una qualunque villa, – nei miei sogni – Lea e il suo valoroso amico avrebbero voluto fare. Farfugliai qualcosa, ma abbassai gli occhi quando nei suoi vidi che, maliziosamente, aveva già letto la mia versione e, divertita, era passata oltre.

Non è che temessi di trovarci chissà cosa là dentro, a parte la roba lasciata da qualche barbone. Lea ridacchiò “grow a pair” e corse verso l’edificio, infilandosi dove la rete era stata trinciata. Sospirai.

All’interno la villa era fredda e umida. Intere sale erano distrutte e alcuni piani erano pericolanti. Quelli che non erano crollati avevano i muri ricoperti di graffiti. Spesso ricomparivano le parole ‘chi’ e ‘come’. In alcune zone c’erano candele, ceri o bastoni bruciati sul pavimento. Per fortuna non incontrammo nessuno. Lea scrisse qualcosa sotto a un graffito che diceva ‘language not available yet’, poi uscì ridacchiando com’era entrata. Guardai la piccola parola che aveva scritto col rossetto – Anita – poi la seguii fuori.

Lea aveva decisamente le idee più chiare di me sulle storie di /nosleep. Ma un’opinione me l’ero fatta pure io, anche se un po’ confusa.

Ne avevamo scritte due o tre a testa, più o meno riuscite. Entrambi pensavamo che avessero avuto, in buona parte, un’origine indipendente da noi. Niente di magico o soprannaturale, solo incontrollato.

Per Lea non conoscevamo il significato dei messaggi; per me, nemmeno le voci che li producevano. Mi sembravano molte e contradditorie, alcune addirittura da evitare, come quella di Hermeto. Lea non era d’accordo: in base a cosa distinguerle? Secondo lei, tutto poteva essere capovolto e quello che sembrava tossico forse era davvero βenefico e viceversa.

Finite le lezioni compravamo kebab e birre e andavamo in motorino alla villa. Per arrivarci dovevamo passare dalla diga. A volte Lea si fermava a metà, spegneva il motore e guardava in basso, verso i mulinelli prodotti dalle turbine. Appoggiata alla recinzione arrugginita, lo sguardo fisso sui vortici torbidi dell’acqua, lasciava cadere un po’ di saliva in quella direzione e mi guardava aspettandosi che facessi lo stesso. Poi ripartivamo.

Da quando avevamo visitato la villa, aveva iniziato a raccogliere ogni sorta di informazioni a riguardo: lo stile architettonico – esotico, neopalladiano, eclettico – i cicli secolari di splendore e decadenza, i saccheggi e gli atti vandalici, quelli passati e quelli recenti, e poi le sedute spiritiche, i riti e, specialmente, i graffiti. Doveva dormire meno del solito: sul pallido viso, cosparso di lentiggini, i suoi occhi erano scavati ed enormi.

Mi aveva fatto leggere alcune bozze. Erano incomplete, ma non per loro natura. Era come se alcune frasi, parole o lettere fossero state rimosse. Altre sembravano fuori posto, come se qualcuno le avesse spostate a caso mentre lei era distratta. Dove serviva movimento, c’era materia inerte. Dove di solito c’era sfondo, si trovavano presenze in movimento, in fermento. Figure e fondale erano invertiti o, tutt’al più, equivalenti.

La protagonista era l’alter ego di Lea, Anita. Scriveva storie che emergevano da lei come una sostanza viscosa. Cercava di reciderle da sé stessa attraverso ellissi e tagli. Sostituiva parole senza criterio, troncava paragrafi in modo arbitrario, invertiva l’ordine dei pensieri. A dispetto di tutto ciò, rimaneva invischiata nella sostanza collosa delle sue storie.

Gli elementi della trama erano pochi e semplici: c’era una villa abbandonata come la nostra, due ragazzi che potevamo essere noi, alcuni graffiti. La vicenda era sospesa, Lea non sapeva come finiva.

Mentre pranzavamo sul prato, mi disse che dovevamo tornare dentro alla villa, forse così avrebbe trovato la soluzione. Non capivo questa sua fissa, avrei voluto dirle di abbandonare quella storia e scriverne un’altra, se non riusciva a concluderla. In realtà, stavo solo cercando scuse. Mi trascinò oltre la rete trinciata mentre stavo ancora mangiando il kebab.

Di nuovo l’odore umido e antico delle sale. Il solito silenzio, salvo il rumore di lontane macchine e dei nostri passi sui detriti. Anita mi precedeva alla ricerca di segni. Si fermava di fronte a ogni graffito, faceva foto e scriveva alcune note. Mi fermai a guardare quello sotto al quale la volta precedente aveva scritto il suo nome col rossetto. Ero incantato di fronte alla sua calligrafia minuta. Pensai a molte cose e non mi accorsi del tempo che trascorreva finché non sentii uno strillo.

Corsi in quella direzione ma, quando raggiunsi Lea, sembrava tranquilla. Fissava un ammasso di coperte che si muoveva. Ci misi un po’ a vedere una faccia seminascosta. Guardava verso di me, più precisamente, il kebab ormai freddo che tenevo in mano. Farfugliò qualcosa.

«Eh?».

«Lo mangi» sollevò una stampella da sotto le coperte e indicò il kebab.

Posai gli occhi sul panino dall’aria deperita.

«Lo mangi o no?».

«Ehm, no…» mi avvicinai quasi senza pensare e con cautela gli diedi quel che restava.

Diede un morso e mi guardò con delusione.

Feci un gesto di scuse. Lui sollevò le spalle e tornò a mangiare.

Lea, che nel frattempo era rimasta in silenzio, si mise a dire qualcosa.

«Chi ha scritto quello?» indicò un disegno fatto su quel che restava di un enorme specchio rotto.

«Io» disse lui continuando a masticare.

«Anche gli altri?» fece Anita riferendosi ai segni che ricoprivano la sala.

Fece cenno di sì, ma sembrava più interessato al panino che a rispondere.

«Cosa significano?» chiese Lea.

Bofonchiò qualcosa con la bocca piena. Lea mi guardò con aria interrogativa. Feci ‘boh’ con le spalle.

«Domani» aggiunse lo sconosciuto mentre raccoglieva le briciole.

«Domani?».

«Domani, portate un altro di questi» disse sollevando la carta unta del kebab. «Caldo, grazie».

«Desidera anche una birra ghiacciata?» si spazientì Lea.

«Sì» ci pensò su un momento. «Sì, grazie».

«Ci spiegherai quei segni?».

«Mmmh, ok». Ma era evidente che pensava solo alla birra ghiacciata.

Appena usciti, riguardammo le foto che Lea aveva scattato ai graffiti. Alcuni servivano solo a segnalare luoghi inagibili, altri erano tag che ritornavano di continuo nelle varie sale, poi ce n’erano di complessi e artistici, in stile illusionistico o tipo glitch art, altri ancora erano semplici frasi allusive. Alcune sale avevano segni apparentemente legati ai riti: pentacoli, croci rovesciate, simboli ermetici o figure di tarocchi, come quella dell’impiccato. L’ultima foto era quella scattata al disegno sullo specchio rotto. Aveva l’aspetto di una clessidra orizzontale. Lea aggiunse alcune righe ai suoi appunti, per chiarire il ruolo che doveva avere nella storia che stava scrivendo.

Non sapeva ancora come si sarebbe conclusa, ma sperava di scoprirlo attraβerso βushmill.

Tornammo il giorno dopo con la birra e un kebab che nel tragitto era diventato tiepido.

«Non è tanto caldo» fece lui.

Lea sbuffò.

«E questa non è ghiacciata» disse scolandosela e tirando un rutto.

«Mi parli di quel segno allora?».

«Cosa vuoi che ti dica?».

«L’hai disegnato davvero tu?».

«No».

«Chi? Hai visto chi l’ha fatto?».

«Mmmh, no».

«Lea, ci sta prendendo in giro. Andiamo».

«Aspettate» disse tirandosi su dalle coperte e reggendosi sulla stampella. «Se mi portate una birra veramente ghiacciata, vi dico tutto».

«Col cazzo» fece Lea.

«Va bene va bene, seguitemi».

Infilatosi a fatica dei Moon Boot rosa e logori, iniziò a fare strada tra le sale. Dopo varie svolte, si fermò di fronte a una parete crollata, con una fenditura grande abbastanza da far passare una persona alla volta. Oltre si intravedeva una scalinata di pietra che scendeva verso l’oscurità. Non ero troppo lieto di andare laggiù con lui, ma non potevo lasciare Lea sola, che al contrario sembrava disposta a seguirlo pure all’inferno.

«Mi chiamo Bushmill» disse scendendo le scale. «Bushmill Black Bush».

«Ma è un whisky!».

«È anche il mio nome, non va bene, padrone?».

«No, non intendevo dire…» feci un po’ imbarazzato.

Lea sembrava spiritata, impaziente di svelare un segreto che la rendeva incapace di giudicare se ci stessimo ficcando in un guaio colossale. Bushmill aveva l’aria affidabile, ma non mi piaceva il luogo in cui ci stava portando. Si sentivano rumori provenire dal buio in fondo alle scale. Facevamo luce con le torce dei cellulari anche se lui non pareva averne bisogno.

Arrivati in fondo, ci trovammo di fronte a un corridoio.

«Vai avanti tu, coso» mi disse. Ero pronto a dire “no grazie”, ma Lea si fece coraggio e andò lei.

«Impara dalla tua amica» disse e la seguì. Così feci io, chiudendo la fila.

Le porte che ci lasciavamo alle spalle erano chiuse con catene e lucchetti. Lea procedeva verso i rumori in fondo al corridoio. Sembrava il suono di un ruscello o di una cascata, di liquidi che scorrono. Raggiunta l’immensa sala all’estremità, ci accorgemmo che, più che liquidi, erano liquami.

Una massa nera e oleosa formava un denso fiume sotterraneo. A parte alcune chiazze lucide come mercurio, era per lo più opaco. Bushmill gettò la carta del kebab e la lattina nel flusso. Le guardai sprofondare lente. Qua e là mi sembrava di vedere emergere delle creature, forse ratti o bisce.

Mi voltai e vidi Lea ipnotizzata di fronte a una parete completamente ricoperta di graffiti, fin dove la fioca luce della sua torcia riusciva a illuminare. Sembrava di essere piombati in una dimensione antica e sacra, come se ci trovassimo nelle grotte di Lascaux di cui ci aveva parlato il prof d’arte.

I graffiti non erano moderni come quelli dei piani di sopra. Erano fatti con vernici e colori di ogni tipo: bombolette, pennarelli, smalti. Alcuni erano incisi. C’erano immagini umane, semi-umane, animali, vegetali, oggetti quotidiani o assurdi, cuori di innamorati, teschi, ossa, sangue, graffi e nomi, un’infinità di nomi, nomi familiari o ignoti, nomi comuni o impensabili, coppie di nomi di donne e di uomini, nomi e iniziali di nomi che tra loro si intrecciavano, gli uni sopra agli altri, soffocandosi a vicenda.

«Questo sono io» disse Bushmill indicando con precisione il suo tra tutti. Tre b scritte come la lettera greca: βββ.

«Cos’è questo posto?» chiese Lea senza distogliere gli occhi dalla parete.

«Non lo so. Di solito vengo qui quando mi scappa».

«Sei solo in questa villa? Chi sta qui con te?».

«A volte quelli che disegnano. A volte alcuni amici, ma loro preferiscono dormire da altre parti». Lo disse come fosse dispiaciuto, poi si rianimò.

«Bè, ecco. Domani me la portate una birra?».

Lea finì di scattare alcune foto col flash e disse di sì. Poi risalimmo.

Il giorno dopo cercammo Bushmill ovunque, ma fu inutile. Tornammo alla sala in cui l’avevamo conosciuto. Guardai nello specchio rotto con il disegno a forma di farfalla – era così realistico che per un attimo sembrò battere le ali. Vidi il riflesso di Lea che mi faceva segno di seguirla.

Voleva tornare al fiume sotterraneo. Entrambi pensavamo di ricordare la strada, ma non riuscimmo a trovare l’ingresso a cui ci aveva condotti Bushmill. Dopo vari giri a vuoto dovemmo rinunciare. Stappai la birra che avevamo portato – nel frattempo era diventata calda – e ne offrii un po’ a Lea, ma rifiutò.

Guardava fuori, attraverso una parte di muro crollato, verso la zona abbandonata del parco. Piante rampicanti e rovi sommergevano quello che restava di alcune statue in stile esotico. Un leggero ronzio, provocato forse da migliaia di insetti e bestie che vivevano nascosti in quell’ecosistema, solo apparentemente separato da noi, ci raggiungeva attraverso le piante, attraverso i rovi, attraverso il muro crollato della villa, attraverso il suono che ricongiungeva le loro innumerevoli ali, zampe, chele e proboscidi, alla sottile membrana dei nostri timpani, alle nostre estenuate coscienze. Lea restò immobile per un tempo che potevano essere minuti o potevano essere millenni, non provai neanche a dirle di andarcene, aspettai finché non fu lei a decidere e poi la seguii.

[reinserire paragrafo farfalle]

Un nuovo post su /nosleep, firmato Anita. Manca la conclusione. Lo leggo decine di volte, ogni volta capendoci di meno. Resto sveglio tutta la notte. Il giorno dopo non la vedo a scuola, provo a chiamarla, a mandarle messaggi. Dopo la ricreazione faccio finta di essere malato per uscire prima. Vado di corsa alla villa. Passo sopra la diga, vedo i vortici in basso e provo vertigine al desiderio di buttarmi.

Entro senza timore. Di Bushmill non c’è traccia, salvo il serpente a forma di otto che sosteneva di aver disegnato sullo specchio. Percorro tutte le sale con rabbia, passo di fronte al nome di Lea scritto col rossetto. Mi bruciano gli occhi.

La fenditura nel muro: corro giù dalla scalinata, verso l’oscurità. Attraverso il corridoio fino al fiume sotterraneo, cerco Anita ovunque, ma non è qui non è qui non è... Do le spalle alla melassa nera, fisso la parete di segni, il suo nome, scritto col rossetto, il suo nome vicino ai simboli di Hermeto, il suo nome, vicino ai simboli che credevo di aver sognato disgnato vicino ai simboli che credevo di aver vcino a qugl’incomprsibili s gni t