Sono venuto per la musica

Ho trent’anni e vengo dall’ultimo bar aperto.
La piazza centrale della città, i palazzi scrostati, l’insegna indiana, i bidoni stracolmi e nessun gatto: tutto finisce dentro la mia notte, come quei piccoli mondi di plastica racchiusi dentro ovali di vetro, da capovolgere o ribaltare a seconda della neve – ma qui non c’è neve, è estate, è caldo, è afa anche se sono le tre di notte come solo qui sa essere afa anche quando sono le tre di notte. Sbronza incompleta, sbronza incapace di fare il suo mestiere di sbronza: è quanto mi sarei ripetuto se l’umore fosse stato diverso; se ne avessi avuto uno, uno soltanto, di umore.
Ho un ruolo ben preciso però: sono il giovane vecchio che si ferma di colpo sotto la spenta insegna gialla dell’indiano, un lampione vicino, a pochi metri dalla grande piazza con le statue in circolo come in un teatro di posa – sono personaggi, sono attori, sono evocazioni di un’opera.
Se c’è una prima scena in questa notte strana, be’, forse è proprio questa: io che alzo lo sguardo verso una luce che si affaccia da un palazzo antico. Il balcone ampio, le portefinestre altissime, le persiane spalancate. Il secondo e ultimo piano affacciato sulla piazza, è da lì che proviene: il tenore, il soprano, gli archi. La lirica.
Non conosco il libretto, lo spessore, l’epoca; non ho mai avuto contezza di questa arte ignorata e bella che nella piazza centrale con le statue in posa, sedendo tra loro, sento cadermi addosso, posarsi sulle spalle sudate, gocciolare lungo la camicia sbottonata sul petto.
Nella notte silenziosa e umida ascolto quello che non conosco, ne intuisco la melodia, provo a carpirne il senso, l’importanza capitale – gli ignoranti autentici hanno sempre un coefficiente di deferenza da impegnare, mi sarei detto, se quella notte non fosse stata questa notte.
La città sgombera, come evacuata. E la lirica, al secondo piano.
Il portone del palazzo è solo accostato allo stipite, c’è una targa dorata, in alto, e un cognome altisonante che non leggo. L’androne, l’eco, la scalinata. La ringhiera di ferro battuto decorata con arabeschi che striscio appena con la coda dell’occhio, un odore di museo che non so decifrare e che mi lascio dietro mentre seguo la musica, la stessa che mi ha preso tra le statue strappandomi alla notte, che ho rincorso alzandomi di scatto, scollando i jeans dalla panca e puntando dritto verso la luce al secondo piano. Sul pianerottolo, all’ingresso, la musica è un fiume: sento i tamburi, le viole, i violini, le fanfare – ma saranno fanfare? – che si avvicendano, si fondono, si rompono in mille suoni di un’armonia misteriosa.
Entro, ma sono già dentro.
«Sono venuto per la musica».
È la cosa più intelligente che mi viene, di sicuro la più onesta. Sono uno scrittore, eppure non mi viene altro, non al cospetto dell’uomo che mi accoglie al centro del salone della sua casa senza soffitto. Sopra, l’oscurità nasconde confini illimitati.
«Soffitti alti, case antiche».
È l’uomo a parlare in risposta a me che alzo la testa – retaggio d’infanzia, meraviglia repressa.
La musica è forte, la sua voce non è alta ma il tono mi arriva netto. Intorno a noi, in quella che si sarebbe detta la sala di rappresentanza, solo esili lumini da una parte e dall’altra, est e ovest, a sparpagliare una luce bassa distesa su una schiera di mobili in legno che non ho la lucidità di inventariare. È in piedi, è alto, è imponente, e alle sue spalle c’è il balcone a mezzaluna che sporge sulla mia notte – le statue che si intravedono, i dorsi delle mani concitanti, le teste reclinate.
Se c’è una seconda scena, forse, è proprio questa.
«Beve?».
Ha un bicchiere in mano, ghiaccio sciolto.
«Quando fa così caldo non riesco a dormire, spalanco tutto, anche la musica».
Al mio cenno di risposta si avvia lento verso l’angolo bar: la luce bianca di un banco frigo incassato impatta sugli sgabelli, sul breve bancone di legno che curva attorno all’angolo della sala, su una libreria di vini e liquori che immagino di gran pregio. Mi chiede se mi intendo di lirica ma dice opera, teatro dell’opera, è così che si chiama, e quando gli dico di no, mentre è ancora chino, lo sguardo dentro luce del frigo, si volta, mi guarda, inarca un solo sopracciglio e argomenta una pausa che è più un’interrogazione a se stesso.
«Ma mi piace la musica» mi affretto a dire, a spiegare, a rassicurare. «Mi ha come conquistato, ero proprio qui giù, lì».
Indico il balcone, la portafinestra aperta, ma l’uomo sta già versando da bere, i cubetti di ghiaccio che scivolano attutiti dal suono della musica. È seduto su uno dei quattro sgabelli, al bar di casa.
«Il bicchiere della staffa, no?» Lo alza verso di me in segno di invito e io finalmente mi schiodo dal marmo, nuoto dentro l’opera che adesso è un soprano che sembra chiamare qualcuno, invocare un nome che non colgo: archi che sostengono la forza limpida della voce e poi come un salire e scendere, un salire e scendere su quella voce – non so dire.
«Io, comunque, io volevo solo…».
Apre la mano, la impone davanti alla mia faccia.
«Questa è la mia aria preferita» dice – l’aria, dunque, è un’aria. «…Durante la rivoluzione francese la sua casa è stata data alle fiamme… “Il posto che mi ha cullato sta bruciando”».
Siamo seduti, i gomiti sul bancone, uno di fronte all’altro. Ha le palpebre socchiuse ed è elegantissimo, me ne accorgo soltanto in quel momento, mentre cerco di capire dove guarda, da che parte, il colore degli occhi. Giacca di sartoria, camicia bianca senza tracce di sudore, cravatta sottile allentata attorno al collo ampio. Mocassini lucidi che tiene ben aderenti sul marmo del pavimento, il sedere poggiato appena sullo sgabello: un uomo grosso, piantato, che tutta la leggerezza di cui si ammanta stravolge dall’interno – mi chiedo l’età, cinquanta, forse sessanta ma se così fosse dovrebbe avere capelli più bianchi e fiato più corto, più pesante, e così non è – e quella di cui si ammanta no, non è leggerezza, è qualcos’altro.
«È Madeleine che parla». Alza il dito per indicarmi il suono, dà un sorso, continua a spiegarmi i versi, a citare l’opera alla lettera, le parole. «“Porto dolore a chi mi ama”».
La voce che arriva è tersa, deve essere un grande soprano, forse la Callas – l’unica che conosco e vorrei persino domandarglielo, farmi coraggio, ma quando valuto di farlo ecco che lui è già avanti.
«“Fu durante questo dolore che l’amore venne a me”».
Un’altra sorsata, stavolta più lunga. Mormora appena il nuovo verso che conosce a memoria, abbassa gli occhi e a me non resta che imitarlo: bevo il mio whisky dal sapore di dolcissimo fumo e guardo giù, i suoi mocassini, l’ombra accennata dietro di lui che danza con la musica – una goccia di sudore mi cade sul braccio, ho la fronte bagnata, non me n’ero accorto.
«Qui sta dicendo che il paradiso è negli occhi… “Tutto intorno a te è solo sangue e fango”. Sta facendo riferimento al divino».
«Al divino?».
«E all’oblio».
Gli esce un sorriso, l’unico di questa notte.
«“Dio che discende dai cieli e fa della terra un paradiso”»
Muove una mano a mezz’aria atteggiando un solfeggio.
«…Io sono amore, io sono amore…».
Mi chiedo da dove diavolo arrivi la musica, da quale punto della stanza, da quale cassa, da quale angolo della casa che si cela e si distende oltre una porta a vetri che non varcherò mai – chissà quante altre sale, quali mobili, che soffitti infiniti di là da quella porta.
L’aria scolora, gli archi rallentano, tutto diminuisce. Sfuma. Sento un leggero premere contro la coscia sinistra, infilo una mano in tasca e riconosco qualcosa: un anello.
L’uomo alza il volto, mi fissa.
«Oggi muore mia figlia».
Siamo sul balcone, nella notte, sopra le statue, ed è successo tanto tempo fa ma continua a succedere e quel giorno è questa stessa notte di afa e lirica, è sempre quella: sono le sue parole queste, sono le sue ma sono più ampie, più grosse, io proprio non ci riesco, non ne sono capace – è come la storia del soffitto che sconfina. È un monologo, ma per quanto mi sforzi, per tutto l’impegno che io possa profondere non c’è mai modo di starci dietro. Parla di lei, di sé, di qualcosa che come uno scoglio continua a segare il mare a metà.
«Quello che va in scena qui sotto è esattamente ciò che stiamo ascoltando».
«Le statue, dice? L’opera?»
«Ma non è una coincidenza. Faccio questo gioco ogni anno ormai, a mezzanotte in punto».
Se c’è una terza scena non è quella in cui siamo entrambi su questo palchetto, fuori, affacciati sul teatro della piazza mentre la musica risuona ancora. Non è lui che dice gioco dopo aver detto di sua figlia che muore e non sono io che comincio a sentire freddo, i brividi che si increspano lungo la schiena malgrado un’afa sempre più opprimente.
«Mia figlia è lì sotto, la vede? È quella accanto ad Andrea Chénier, quella a sinistra, per terra».
Se c’è una terza scena sono io che provo a mettere su carta quelle parole, il monologo che sopravanza e che rapido si va a riprendere ogni singola nota suonata, ogni strumento, ogni voce di tenore, di soprano, di contralto, per riportare tutto dentro, risucchiare ogni singolo battito di suono nella casa dai soffitti alti. Sono io che altrove, alla luce di una stanza indegna, il foglio sotto al mento, provo a raccontare invano il gioco che fa l’uomo ospitale, provo a scrivere figlia e poi nuca vicini, a dire sangue così come l’ha detto lui, con la stessa intonazione, la stessa parola che nella mia testa diventa un’altra parola. Sono io, qui, adesso, che scrivo e non ci riesco.
«Ha diciassette anni, mia figlia».
Ha il bicchiere poggiato sull’ampia ringhiera, la mano intorno, le dita arrossate come a tenersi a qualcosa di saldo nel bel mezzo di un decollo. Forse è stato un incidente, provo a domandargli, a scuotermi. Un maledetto incidente, ripeto, mi avvicino, faccio un passo provando a ricordare il tono della mia voce, il riflesso di quella supposizione che si infrange contro le urla di qualcuno, la corsa di altri, la gente che si avvicina, che diventa folla, che fuoriesce dalle strade mentre una ragazzina con le trecce comincia un lungo pianto tra le braccia della nonna che prova a portarla via senza riuscirci, le sirene dell’ambulanza e la notte appena accennata.
«Forse…», insisto, «…forse non doveva succedere…»
L’uomo ospitale si alza, corre, esce. Divora le scale e sbatte contro lo stipite del portone del palazzo che gli si apre in faccia, qualcuno che ha visto, che gli urla di andare, di muoversi, il sangue che comincia a colare dalla fronte e di cui si accorgerà solo due ore dopo, in ospedale. I piedi nudi che salgono il gradino della piazza, la folla sempre più folla pochi metri più in là, le statue attorno a un corpo biondo disteso e a un ragazzo con la faccia da adulto che scuote la testa, la bocca aperta senza emettere suono. E la bambina con le trecce poi, il viso affondato dentro la pancia della nonna, quel pianto lunghissimo che è una cantilena e che copre ogni maledetta cosa – le sirene arrivate, la madre sul balcone che chiama il nome del marito, una voce maschile che dice di non muoverla, di non muoversi, non muovetevi.
«Forse è stato uno sbaglio».
Continuo a dire, sto tremando.
«Non ha dosato la forza, una spinta, un errore, un…»
L’uomo ferma la sua corsa di colpo, gli altri seguono tutti una direzione ma lui si accovaccia accanto alla bambina con le trecce, si inginocchia, le si aggrappa parlandole all’orecchio, la cantilena che non si ferma, che continua.
«È stato un errore, cristo, un maldetto errore!»
La quarta scena sono io che scaglio il bicchiere di whisky nella piazza centrale della città: lo lancio verso le statue in circolo, mirando a quella indicata dall’uomo ospitale, a quella col braccio teso, Andrea Chénier – la mano assassina inclinata verso il basso e lo schianto del vetro sopraffatto dalla musica che riprende a salire. Un soprano intona una nuova aria che non è la sua preferita, la mia fronte è gelata, le mani bagnate sulla ringhiera bagnata, a teatro.
«Piangere non aiuta».
«Il mio pianto è diverso dal suo».
«Lo conosco, ce l’ho qui davanti anche adesso, l’ho imparato a memoria».
Beve l’ultima sorsata, si volta dalla mia parte, mi guarda.
«Sono anni che a mezzanotte di questa notte guardo quel pianto inutile uscire dagli occhi che hanno visto per l’ultima volta mia figlia viva».
Ed è vero, è tutto vero, cazzo, ma non so raccontarlo.
Non lo so dire, non a quell’uomo ospitale che mi ha riconosciuto dal primo momento in cui sono apparso sull’uscio, in quella casa che non avevo mai conquistato e di cui mi sarei dovuto dimenticare durante tutti questi anni di oblio. Non so dirgli dell’anello che continuo a girarmi in tasca, della promessa che avrei tanto voluto fare alla ragazza bionda che si fa scherno di me tra le statue della piazza, le mani in volto, lo sguardo allibito, persino derisorio: gli occhi celesti verso il ragazzo col volto da adulto che prova a dirle che sente qualcosa, che per lui è importante, che siamo giovani ma siamo anche umani ed è naturale, è naturale, dice mentre stringe il pugno, mentre sale la rabbia, è naturale innamorarsi di qualcuno e pensare a qualcosa di duraturo, di lungo, di eterno. Non so dire a quell’uomo che non ho mai conosciuto prima, non ho mai fatto in tempo a conoscere, che sono dieci anni che penso a questa notte, che aspetto di uscire dall’ultimo bar aperto e ritrovarmi qui, sul balcone del teatro di casa sua, i soffitti perduti, a trent’anni, a fare quello che stiamo facendo – qualsiasi cosa sia, qualunque sia il suo nome e io no, non lo so dire, non lo so scrivere cos’è che stiamo facendo.
«Non era così», provo a dire, «non era così che doveva…».
La musica è al suo massimo grado, i tamburi rullano, il tenore e il soprano intonano le note più alte e dicono la morte, la gridano forte, la invocano insieme in un tripudio di strumenti che la mia ignoranza non riesce a rendere. L’opera cala sulla piazza, su questa notte che non so raccontare e che improvvisamente tace, si ferma, non suona più.
«Muore mia figlia e io consolo una bambina che non conosco», dice l’uomo ospitale, il padre, mentre tiro fuori l’anello e glielo lascio accanto al bicchiere vuoto, sulla ringhiera, prima di sparire.
«È questo che proprio non ti perdono».
La quinta e ultima scena se c’è non c’è: è un suono, ma non è la lirica. È il pianto lunghissimo della bambina con le trecce, l’inconsolabile cantilena soffocata nella pancia della nonna.
Da allora, la sento ogni notte.