Favola crudele (Cerenentola On The Kerbstone)  

Favola crudele

(Cerenentola On The Kerbstone)

 

C’era una volta una bimba povera e brutta.

Eh sì, perché se si nasce poveri è probabile che la povertà si sposi alla sgradevolezza, alla grossolanità, alla goffaggine e se invece si nasce ricchi è quasi certo che l’agiatezza si accaserà con la leggiadria, la grazia, la bellezza. Dunque la bimba, oltre che poverissima, era, diciamo così, bruttina.

Un visino da topo, puntuto, affilato, un corpicino esile e fragile che pareva sempre sul punto di rompersi, di spezzarsi, di frantumarsi in mille pezzetti come la tazzina di un servizio da quattro soldi. Una figurina disadorna, sgraziata. Un misero fiorellino di campo, già appassito. Il pallore che scolorava quel musetto esangue, cereo, avrebbe certo giustificato il nomignolo di Cerenentola.

La mamma, povera donna, era invecchiata precocemente per la fame, per la fatica, per le sofferenze, per le tante disgrazie e per le botte di cui, quasi ogni sera, riceveva una robusta razione dal marito, che tornava a casa regolarmente ubriaco e sfogava in quel modo la sua rabbia e la sua cattiveria.

Finito con la madre ne rimaneva ancora abbastanza per la figlia. La bimba già dormiva nella sua brandina quando l’orco gonfio di vino la svegliava a strattoni, a calci, a manrovesci e subito dopo la costringeva a cucinargli un piatto di pasta. Se la madre interveniva in difesa della bimba era un’ ulteriore razione di busse per tutt’e due.

La madre dunque s’ammalò e velocemente, per sua fortuna, morì.

Il padre non mandò più la bimba a scuola; la spedì invece a fare le pulizie nel caseggiato dove aveva lavorato la mamma defunta.

Quando la sera tornava a casa, la meschinella doveva far da mangiare a quel mascalzone che subito le requisiva i quattro soldi che la ragazzina aveva guadagnato col suo duro lavoro. La poveretta si metteva quindi a cucire e a riparare abiti, accecandosi al lume di un mozzicone di candela, per racimolare qualche altro soldino che in ogni caso non sarebbe finito nelle sue tasche. A notte fonda, terminati gli ultimi lavori, sperava di poter riposare, ma troppe volte il mostro alcolizzato e depravato le faceva fare le veci della madre morta.

Molti anni dopo, anche l’aguzzino morì. La bimba – che bimba però più non era – volle credere  che l’inferno in terra fosse finalmente svanito.

Un prete l’aiutò a trovare lavoro, lontano, in una città dove andò a servizio presso una famiglia facoltosa.

‹‹Gente tanto perbene!›› la rassicurò il sacerdote.

Ma, volle il caso, l’inferno aveva una succursale anche lì.

Il padrone di casa era un sadico vecchio. La picchiava con metodica, terribile attenzione. La moglie la umiliava e la trattava peggio di una schiava facendola faticare come un somaro. I due figli maschi la usavano per soddisfare i propri turpi appetiti.

La giovinetta non ne poteva davvero più quando, per fortuna, conobbe un bel giovane che si recava nella ricca magione a eseguire svariati lavoretti e riparazioni. Giungeva, quel giovane, in sella a un vecchio scassone di motocicletta che però alla fanciulla pareva un bianco e gagliardo destriero.

Quella versione riveduta e corretta di principe azzurro le regalò un giorno un paio di minuscoli guanti che però calzavano alla perfezione sulle piccolissime mani della fanciulla, arrossate dall’acqua, dal freddo e dalla liscivia. Non aveva mai ricevuto un dono, e così bello, in vita sua. Piccini com’erano, solo lei avrebbe potuto indossarli.

Arrivò il giorno in cui giovanotto le confessò di amarla e lei volle credergli; addirittura ringraziò Dio per averle inviato quel bravo figliolo a salvarla.

Una notte, a mezzanotte in punto, lui era venuto a prenderla. Lei era salita sul vecchio scassone come fosse una carrozza d’oro e d’argento, l'aveva abbracciato stretto ed erano fuggiti insieme.

La condusse a casa sua, che non era propriamente un castello ma una topaia lurida e maleodorante. Ma quello non era né sarebbe stato un problema.

Il problema era che al bravo giovane proprio non andava di lavorare e adesso sì che aveva trovato un modo per vivere in ozio. C'era la povera ingenua, che doveva pulire, cucinare, soddisfare le voglie del nullafacente il quale, anche a costo di stancarsi davvero, tutti i giorni verso sera la accompagnava sulla strada provinciale a vendere per poche lire un povero corpo disfatto. E se le lire erano troppo poche per pagare i suoi vizi e l’alcol che, similmente al suo predecessore, ingurgitava anche lui come un cammello, il bravo giovane, il maledetto, ricorreva alle botte. Soldi o non soldi, la faccenda delle botte divenne presto - e ancora una volta - un’abitudine: la povera disgraziata andava ogni sera al suo triste, turpe mercimonio con gli occhi neri, zoppicando, piena di lividi.

La notte, sulla strada buia, l’infelice aveva freddo e paura, tanta paura. Gli enormi camion in transito rischiavano di travolgerla e il loro rombo infernale la terrorizzava. Loschi individui che vagavano da lì si fermavano con lei per qualche minuto la usavano con violenza, con disprezzo, talvolta senza neanche pagarla talvolta rapinandola dei pochi soldi che ella aveva con sé.

Capitava poi che passasse un’automobile con la sirena e un grande faro acceso sul tetto, che l’accecava. Si fermava, ne scendevano terrificanti uomini in divisa che le ricordavano ciò che le sarebbe capitato se non fosse stata gentile con loro, e anche generosa, così che, bontà loro, avrebbero volentieri chiuso un occhio e lei avrebbe potuto continuare con la sua bella vita senza troppi problemi.

Seduta su un piccolo paracarro, nella notte gelida, l’infelice pregava il Padreterno di chiamarla a sé, in Paradiso, farla morire come la sua povera mamma e portarla nel giardino meraviglioso, pieno di luce dove lo avrebbe incontrato, finalmente, quel suo amato Signore Iddio che le avrebbe svelato il Grande Mistero, inondandola di luce e di grazia, e che di certo l’avrebbe ricompensata per tutte le sofferenze patite.

Chissà se il Signore non l’avesse udita realmente, fatto sta che in breve volger di tempo, sarà stato il freddo, saranno state  le tribolazioni, la poveretta s’ammalò.

Una mattina la trovarono per terra, vicino al suo paracarro,  con i guantini ancora infilati sulle piccole mani.

La portarono in ospedale e lì, grazie al cielo, restò in una lunghissima agonia fino a che, un bel giorno, come aveva pregato sperato e chiesto tante e tante volte, finalmente morì.

Finalmente.

Finalmente andò .

Là però il Signore non c’era.

Non c’era nulla, nessun giardino, nessun mistero svelato, niente luce, niente.

Solo un grigio crepuscolo, un luogo angusto, confuso, in cui si percepivano infinite presenze, anime afflitte anche loro, senza redenzione, affogate nel dolore, private di qualsiasi possibilità di contatto.

Sola dunque anche lì, nello spazio incerto, nella nebbia.

Sedette allora su un basso cilindro di pietra, gelido - una specie di piccolo paracarro - e pianse per l’eternità, rimpiangendo la vita.

 

***