Ricami
La mia casa ha grandi finestre. Sulle tende candide, in organza, ci sono dei ricami, ricami a uncinetto. E sono quei ricami che io amo guardare, più di tutto, sin da quando ero bambina. Anche allora mi mettevo accanto a una delle finestre, quella più grande, quella più luminosa, quella che dà sul giardino, e guardavo. Non era ciò che c’era al di là delle tende, a interessarmi. No, a interessarmi erano i colori che affioravano attraverso i piccoli buchi dei ricami. Buchi verdi, buchi di prato, buchi blu, buchi il cielo, buchi bianchi, buchi di nuvole. E il miracolo del mondo con i suoi colori, per me, oggi come allora, si condensa tutto là, dentro a quelle piccole assenze di tessuto.
La casa è proprio quella della mia infanzia. Le tende sono le stesse della mia infanzia. O meglio, non proprio le stesse, ma identiche. Le ho sostituite quando, subito dopo la scomparsa dei miei genitori, sono tornata a vivere, con mio marito e mio figlio in pancia, in questa casa. Le tende erano ancora in buone condizioni sì, ma un poco ingiallite e leggermente consunte agli angoli. Così le ho fatte rifare, perfettamente uguali, dall’unica sarta rimasta in paese. Le vecchie le ho tenute comunque, di scorta.
Quando io e mio marito Franco siamo venuti qui, sei anni fa, tutto era già pronto, abitabile. Era inverno, si avvicinava il Natale, e io ero quasi al termine della gravidanza. La casa era calda. Ed era accogliente con i suoi mobili in ciliegio e i suoi quadri di mare e di bianche isole. Li avevano comperati i miei genitori, quei quadri, durante una delle loro tante vacanze estive in Grecia. Abbiamo sostituito solo il letto matrimoniale e poche altre cose, ma il resto lo abbiamo lasciato così, così com’era.
Amo questa casa, queste tende, e quei ricami che, per me, sono sempre stati piccoli cannocchiali sulla vita. E sono certa sia stata quell’attitudine, quell’attitudine a guardare alla vita non da angolature e orizzonti troppo ampi, ma da spazi piccoli e intensamente colorati, a salvarmi, in tante occasioni.
A salvarmi quando in ospedale ho partorito Marco, un mese dopo la morte dei miei genitori. A salvarmi quando le madri e i padri delle altre partorienti venivano in visita e l’intera stanza d’ospedale, persino il corridoio, si riempiva di chiassose nenie. A salvarmi quando ho visto i capelli di mio figlio. La sua testina così piena di capelli appena uscita dal mio corpo. Capelli biondi. Gli stessi di mia madre. A salvarmi quando sono tornata a casa dall’ospedale: la pancia sgombra e il vuoto che si allargava, intorno a me.
E se diveniva troppo pungente, quel vuoto, andavo dal mio bambino e cominciavo a intonare una ninna nanna, quella che, da piccola, mi cantava mia madre.
Fai la ninna fai la nanna
Bimbo bello della mamma
Ninna nanna bel bambino
Ti abbiam fatto un bel cuscino
Fai la ninna fai la nanna
Bimbo bello della mamma
Ninna nanna bel bambino
Ti abbiam fatto un bel lettino
Sì, ne sono certa: è stata quell’attitudine alla vita a salvarmi perché, quando un dolore così ti travolge, un conto è prenderlo tutto assieme, un altro è riuscire a inghiottirlo a poco a poco. E io, se una dote ce l’ho, è questa: essere in grado di ridurre tutto, anche le cose più complicate, in piccoli pezzi. Bocconi di prato, bocconi di cielo, bocconi di nuvole. Il mio mondo è così: un mondo che sa farsi piccolo, per passare attraverso i ricami di una tenda.
Ed era una mattina d’estate, una mattina d’estate come tutte le altre, quella in cui mi sono alzata e, come sono solita fare, mi sono messa davanti alla finestra, la finestra del giardino. Ma la luce che filtrava dalle tende non era la solita luce. Era una luce lenta e fievole. La luce di una giornata di pioggia. E non c’erano i soliti colori, né il verde, né l’blu né il bianco. Solo il grigio, il grigio delle nuvole, affiorava dai ricami. Ciò che ha attirato la mia attenzione è stato il lieve ingiallimento del tessuto. Non c’erano più le tende nuove alle finestre, ma quelle vecchie, quelle dei miei genitori. Eppure, ero sicura, ero assolutamente sicura, di non aver tolto le nuove per farle lavare. Ed ero sicura, ero assolutamente sicura, di non averle sostituite con quelle vecchie. Non in quei giorni, almeno.
Mio marito era fuori per lavoro. Non potevo chiedere nemmeno a lui. Non rimaneva che il mio sguardo, il mio sguardo perso in mezzo a quelle tende, a quei ricami, a quei buchi. Buchi verdi, buchi di prato, buchi blu, buchi il cielo, buchi bianchi, buchi di nuvole. Quando ho rimesso a fuoco, però, il tessuto era tornato candido. Erano le solite tende, le tende nuove. Le vecchie, sono andata subito a controllare, erano al loro posto, nell’anta più alta dell’armadio.
Ho deciso di prepararmi un caffè. Ma, afferrata la moka piccola per metterla sul fornello, le mie mani hanno ceduto. Non era la mia moka. Era la moka di mio padre. Quella con cui mio padre, che si svegliava prima di tutti, soleva farsi il caffè, ogni mattina. L’ho raccolta da terra per controllare il manico consunto, bruciato. Lui la posizionava sempre troppo al centro del fornello e la plastica fondeva. Era una delle cose che avevo buttato, appena trasferita. Tenerla tra i ricordi non era il caso. Le cose rotte non hanno alcuna utilità, ingombrano casa e basta.
Ma, tempo di sollevarla e riporla sul tavolo, non era già più quella di mio padre, la moka. Era tornata a essere la mia, la solita.
Passò il tempo, passarono i giorni, passò l’estate. Non ci pensai più. Agli eventi, una volta trascorsi, non ci devi pensare più. Come alla morte dei miei genitori, anche a quella non ci pensavo più. A cosa sarebbe servito? Le cose dolorose vanno ridotte in piccoli pezzi, e poi dimenticate. Bocconi di prato, bocconi di cielo, bocconi di nuvole.
Così avevo rimosso quasi del tutto quegli strani avvenimenti, fino a quando non è accaduto qualcos’altro.
Era una giornata d’inizio autunno, una giornata bella come solo le giornate d’inizio autunno sanno essere. Avevo un po’ di mestieri da sbrigare: le stanze erano da riordinare, da cima a fondo; prima di tutto il letto matrimoniale. Ho aperto la finestra per cambiare l’aria. Una nuvola è passata e la luce, da brillante che era, è divenuta opaca. Una luce lenta e fievole. La luce di una giornata di pioggia. E quando mi sono chinata per sistemare il copriletto ho notato qualcosa di anomalo.
Era un letto contenitore, il nostro. Uno dei pochi mobili che avevamo portato dalla precedente abitazione, traslocando in casa dei miei. Si sa che, in una casa, lo spazio non basta mai. E si sa che, in una casa, la biancheria abbonda sempre. Faceva comodo, molto comodo, poter riporre nel letto quella in eccesso. Le tenevamo là dentro le lenzuola di lino, quelle che erano appartenute ai miei genitori. Perché è vero che il lino, sulla pelle, ti dà una sensazione di fresco come nessun altro tessuto, ma è altrettanto vero che quando lo devi stirare, il lino, là sì c’è da patire. Allora finivo sempre per usare le lenzuola in cotone, che tenevo accuratamente piegate negli armadi. E quando aprivo le ante si sprigionava nell’aria il profumo dell’ammorbidente alla lavanda, il mio preferito.
Quella mattina il letto aveva qualcosa di diverso: delle zampe. Zampe, sì. Il nostro letto non le aveva, le zampe. Non le aveva mai avute. E il contenitore, il contenitore era sparito.
Ho guardato meglio. Sparito. E le zampe. È stato come saltare in un buco del tempo. Non era più il nostro letto, quello lì. Era il letto dei miei genitori.
Le riconoscevo, pur nell’oscurità che albergava sotto il letto, quelle due zampe in ciliegio, ma non credevo ai miei occhi e così mi sono chinata e ho allungato la mano per tastarle. Nel farlo sono incappata in qualcos’altro. Un pezzo di carta. No. Ho guardato meglio. Una fotografia.
Era una foto di Marco finita là sotto chissà come. I colori di quella foto erano vividi, molto vividi. Spiccavano i capelli biondi del mio bambino.
Subito dopo il parto li avevo accarezzati, i capelli del mio bambino. Erano biondi, erano morbidi. Ne aveva tanti di capelli, il mio bambino. Erano proprio i capelli di mia madre.
Sul retro della foto, scritte a matita, una data, e una croce.
Ho chiuso gli occhi.
Quando li ho riaperti il letto contenitore era là. Là dove era sempre stato, dal momento in cui ci eravamo trasferiti. Ho sollevato il contenitore, e ci ho ritrovato dentro le lenzuola di lino.
E sulla foto la scritta non si vedeva più.
Ho aperto l’armadio. La normalità è nei gesti, nei gesti del quotidiano.
Il profumo dell’ammorbidente alla lavanda mi ha invasa. Come sempre. Come doveva essere. Com’era sempre stato, da quando ci eravamo trasferiti.
Il buco nel quale ero caduta si era ricolmato.
E passò anche l’autunno. Arrivò l’inverno. Si avvicinava Natale. Non ci pensai più. Le cose rotte, l’ho sempre pensato, inutile aggiustarle. Meglio buttare tutto e non pensarci più.
Ed era uno di quei giorni caldi e lucidi, uno di quei giorni caldi e lucidi che precedono il Natale, quello in cui ho guardato il calendario. Dalla finestra un raggio di luce andava dritto a colpire una data: ventitré dicembre. Era una luce lenta e fievole. La luce di una giornata di pioggia. Il ventitré dicembre era il compleanno di Marco. E il giorno ventidue sul calendario c’era una nota: preparare la torta. Quella nota mi ghiacciò il sangue.
La preparavo tutti gli anni la torta. Non potevo certo far passare il compleanno di Marco senza. Tutti gli anni una candelina in più, da spegnere. I bambini ci rimangono male se non li festeggi come si deve.
Ma quella che avevo visto sul calendario non era la mia, di grafia. Mi sono avvicinata per guardare meglio, anche se non ce n’era alcun bisogno. Avrei riconosciuto quella grafia anche a metri di distanza: era la grafia di mia madre.
E ho sentito il mio bambino avvicinarsi, mentre stavo ancora fissando il calendario.
«Per fortuna c’è la nonna a ricordarti di fare le cose!»
Mi si sono gelate le parole in bocca. Ho chiuso gli occhi. Li ho riaperti e il mio bambino era già andato via. Era già tornato nel suo mondo, a giocare.
Mi sono messa davanti alla finestra del giardino, a guardare. Buchi verdi, buchi di prato, buchi blu, buchi il cielo, buchi bianchi, buchi di nuvole.
La normalità è nei gesti, nei gesti del quotidiano.
Quando quella sera Franco è tornato dal lavoro ho deciso di parlargli: i segni, ormai, stavano diventando troppo evidenti.
L’ho bloccato subito, appena varcata la soglia di casa.
«Devo dirti una cosa.»
«Sono stanco, Ada.»
Ultimamente era difficile parlare con Franco. Era sempre più sfuggente, mio marito, sempre più strano, sempre più chiuso in sé stesso. Ma ora doveva ascoltarmi. Ascoltarmi per davvero.
«Lo so che sei stanco, ma devi darmi retta. Oggi è accaduta una cosa.»
Franco ha stretto le labbra: «Che cosa?»
«Stavo guardando il calendario. Il ventitré è il compleanno di Marco. Ricordi?»
Franco si è messo una mano sul viso: «Come potrei dimenticare?»
«Sul calendario c’era una nota: preparare la torta.»
«Ne abbiamo già parlato. Forse dovresti smetterla una volta per tutte con queste torte, Ada.»
«Non è questo. È che la grafia, la grafia era quella di mia madre.»
«Ada, smettila!»
«Lo so che non posso dimostrarti nulla. Ormai quella nota è sparita dal calendario. Ma dietro di me, mentre guardavo il calendario, c’era Marco.»
A quel punto ho visto Franco impallidire. I suoi occhi cerchiati, stanchi, sporgenti, si erano dilatati: «Ada stai esagerando. Basta!»
«Marco ha riconosciuto la grafia della nonna.»
«Ada!»
«Sì, lo so che tu pensi che io sia pazza. È una pazza, vero, quella che si prende cura di tuo figlio ogni giorno? Una pazza, vero, quella che a ogni compleanno gli prepara una torta con le candeline?»
«Ada!»
«Tu non lo sai quello di cui lui ha bisogno. Io sono la sua mamma. Solo io lo so. Hanno bisogno di ninne nanne i bimbi. Ninne nanne che sappiano incrinare il vento, vento freddo, vento duro, come il marmo. Ninne nanne su morbidi cuscini, per dimenticare la durezza del sole, del sole cocente che brucia l’inverno, che prepara una nuova estate. Ninne nanne per cullare i loro sogni, i loro sogni lucenti, nel buio.
Fai la ninna fai la nanna
Bimbo bello della mamma
Ninna nanna bel bambino
Ti abbiam fatto un bel cuscino
Fai la ninna fai la nanna
Bimbo bello della mamma
Ninna nanna bel bambino
Ti abbiam fatto un bel lettino
Ogni giorno sì, ogni giorno una ninna nanna, da quando è uscito dal mio corpo. Aveva già tanti capelli; erano biondi, erano morbidi, erano i capelli di mia madre. Ho chiesto che me lo mettessero subito sulla pancia, per non perdere neanche un minuto del suo corpo sul mio. Aveva freddo, il mio bambino. L’ho scaldato e i suoi capelli hanno scaldato il mio ventre, vuoto.
Tu invece, da quando è uscito dal mio corpo, te ne sei disinteressato. Le cose rotte, lo abbiamo sempre detto, inutile aggiustarle. Meglio buttare tutto e non pensarci più. Ma Marco io l’ho portato in pancia per nove mesi. Lo portavo in pancia durante la corsa in ospedale, dopo l’incidente dei miei genitori. Lo portavo in pancia quando li ho visti morire, i miei genitori, senza poter fare nulla. Lo so che tu pensi che non mi sono riguardata abbastanza. Pensi che avrei dovuto continuare a mangiare, a dormire, che non avrei dovuto prendere tranquillanti. Che avrei dovuto continuare a vivere la mia gravidanza come se nulla fosse, come se i miei genitori non fossero morti, morti così. So che pensi che sia colpa mia se Marco…»
Franco, il viso tra le mani: «Ada, no! Marco è morto. Non è stata colpa tua. Marco è nato morto. I tuoi genitori sono morti. Non possiamo farci più nulla, io e te. Più nulla!»
Buchi grigi, buchi di prato, buchi blu, buchi il cielo, buchi neri, buchi di nuvole. I colori del giorno avevano lasciato il posto a quelli della sera.
La mia casa ha grandi finestre. Sulle tende candide, in organza, ci sono dei ricami, ricami a uncinetto. E sono quei ricami che io amo guardare, più di tutto, sin da quando ero bambina.
Franco mi ha trovata ancora lì, la mattina dopo, sveglia, davanti alla finestra. Lui aveva una luce strana, una luce diversa, negli occhi. Era una luce lenta e fievole. La luce di una giornata di pioggia.
Si è messo a intonare la ninna nanna. Una voce roca, una melodia quasi metallica, usciva dalla sua bocca:
Fai la ninna fai la nanna
Bimbo bello della mamma
Ninna nanna bel bambino
Ti abbiam fatto un bel cuscino
Fai la ninna fai la nanna
Bimbo bello della mamma
Ninna nanna bel bambino
Ti abbiam fatto un bel lettino
Un lettino di legno chiaro
Che ti culli bimbo caro
Un cuscino di velluto
Una coperta di tessuto
Di tessuto viola scuro
Lì sotto al chiuso stai al sicuro
Fai la ninna fai la nanna
Dietro al marmo sogna la mamma
Marmo bianco marmo duro
Lì sotto al chiuso stai al sicuro
Stai al sicuro che tira vento
Dietro a quel marmo nessun lamento
Di martelli non ne hai
Di capricci non ne fai
Fai la ninna fai la nanna
La mamma ti ha fatto la torta di panna
Sulla torta il papà ha messo un cero
Adesso chiudi gli occhi e fai la nanna per davvero
Buchi verdi, buchi di prato, buchi blu, buchi il cielo, buchi bianchi, buchi di nuvole. La normalità è nei gesti, nei gesti del quotidiano.