Un uomo
8 Giugno
Il mio è grande dolore.
Non mi è sfuggito l’articolo indeterminativo, l’ho omesso volutamente, perché un grande dolore presagisce una misura, unità avente il suo perimetro concettuale definito, a suo modo osservabile. Grande dolore, invece, non ha limiti. Non contempla la possibilità di controllo, non ha grandezza perché è tutto e dappertutto, e in quanto tale sfuma, è impossibile esternarlo, perché dolore è tutto.
Ogni volta che provo a cacciare fuori dolore divento banale, inutili forzature che mi affaticano. Mi sento appannato, livido, l’attesa tra l’urto al mignolo e l’esplosione intensa, precisa e riconoscibile nella sua furia sensoriale, ma che non avviene mai. Dolore sordo è il mio, mi rende lento e cauto fin quasi all’immobilismo, l’espressione neutra persa in un limbo silenzioso.
Per questo ho deciso di scrivere. Di scrivermi, raccontare a me stesso cose importanti, cose inutili. Cose, insomma.
Ciao, sono me stesso. Non sforzarti nemmeno di risultarti interessante, non lo sei. Non più di altri. È forse questo un tentativo di cacciar fuori dolore? Devo aver letto da qualche parte che scriversi addosso può essere terapeutico. Forse sono soltanto annoiato, o è semplice istinto di conservazione. Ad ogni modo, eccomi, mi presento, faccio la mia conoscenza, bla bla. Che schifo.
Può bastare per oggi.
11 giugno
Ehi tu, dico a te. Cioè a me. Ben tornato. È il mio secondo tentativo ufficiale, il secondo giorno di auto-terapia scrivente. Questi tre giorni li ho passati tra conati di vomito al solo pensiero di tornare a scrivere di me. Poi, evidentemente, passa. Ed eccomi di nuovo. Proviamoci ancora, io e te, soli. Come sempre.
Ti ricordi di lei, Eleonora? Certo che mi ricordo di lei… ma non voglio parlarne. Voglio solo dire che il tempo trascorso con lei non lo definirei eccezionale; eccezionale era Eleonora stessa, nella sua banale semplicità. Tutto con lei era facile e leggero. Eccezionale; rispetto a ciò che sono io, adesso, qui. Con penna e foglio. Non è vero. Sto scrivendo al computer su di un volgarissimo documento Word. Nemmeno un po’ di poesia mi concedo.
No, non riuscirai a convincermi a parlarne. Sono passati sei mesi… eppure io non provo niente. C’è un muro davanti anzi dentro, qui, nella testa nel cuore scegli tu, e raffredda tutto. Cerco di rivivere gli ultimi attimi con lei nell'inutile speranza che un’eruzione di dolore possa sputare via questa lava fredda, una poltiglia gelida che crea un senso di colpa incessante, nonostante io non abbia colpa alcuna.
Dopo la morte di Eleonora, le persone hanno cominciato a evitarmi. Lo sapevi? È accaduto al comparire del mio esser neutro a me stesso. La soluzione vincente, per chi incrocia la mia via, pare essere la paura, l’estrema difesa dall’ignoto, da chi come me sembra non provare più nulla. Vanno creandosi nuovi equilibri di bassa empatia e insensibilità manifesta che si regolano da soli e si spalleggiano a vicenda, senza chiedere il permesso a me. E così fugge via, la gente. E io rimango qui da solo, a scrivermi. E in un certo senso gliene sono grato.
Fatto. Salvo e chiudo il file. Alla prossima.
12 giugno
Questa volta ho sentito la mancanza di me. Giusto un po’. Ammettiamolo. Forse sta funzionando. Ma c’è un altro motivo per cui torno qui; siediti, prendi un bel respiro e datti attenzione.
Nella mia vita c’è un uomo. Boom.
Aspetta a tirare conclusioni affrettate. È un signore di mezza età, alto, robusto, capelli in ordine, vestito elegante, tratti gentili e al contempo austeri. Non lo conosco, mai visto prima, perché dovrei. Uomo pacato e riservato, sicuramente persona di poca chiacchiera. In verità non parla. Ma una cosa la fa, e senza fermarsi mai: osserva me.
Lo incontro al caffè all’angolo. Seduto a poca distanza da me, comincia a fissarmi, così. Il busto un poco reclinato in avanti come a guardare una macchia sulla guancia. Mi tocco la guancia, guardo la mano. Nulla. Mi volto verso il barista tutto preso tra caffè e cornetti, poi di nuovo verso quell’uomo ancora perso nel mio viso. Con un gesto timido chiedo se va tutto bene. Non mi risponde. Continua a fissarmi. Intorno agli occhi, sul mento, poi dritto. Dentro. Mi alzo, vado via. Poco manca che dimentico di pagare.
Per strada mi volto indietro più volte con passo veloce, sguardo nevrotico a cercare la sua figura tra la gente che mi guarda con sospetto, rallento fino a raggiungere l’andatura tipica del mio sordo dolore. Dell’uomo non c’è più traccia.
Null’altro da aggiungere.
A presto.
Ah, dimenticavo: mi piace questo esperimento.
14 giugno
Non amo camminare. Soltanto l’idea di passeggiare per un sentiero di montagna mi angoscia, mi fa ansimare prima ancora di muovere il primo passo. Sono pigro, appassionato di abitudini sedentarie come, appunto, scrivere di me stesso. Oggi mi ha preso un po’ così, sono malinconico; almeno credo: non riesco più a dare un nome alle emozioni che provo, ammesso si tratti di emozioni. Siamo messi male, vecchio mio.
Mi ricordo di lei, Eleonora, e il suo proverbiale amore per la natura. L’unica cosa che non avevamo in comune. Io penso che la natura col suo verde invadente debba farsi gli affari suoi e starmi lontano, la mia mente è allergica agli alberi e simili. Quale indescrivibile fastidio si prova nel sudare tra la boscaglia. Odio sudare, il mio odore non mi piace, il caldo primaverile mi infastidisce. La montagna non mi vuole e io non voglio lei.
Eppure, per qualche motivo che adesso non ricordo, un giorno ho ceduto alle sue suppliche. Amava la visione di insieme sulla cima, lei; i discorsi con gli alberi che annuivano in silenzio e che, soprattutto, non la contraddicevano mai. Per questo, forse, le persone amano così tanto i boschi: non fanno ragionamenti contrari al tuo, sono sempre d’accordo con te. Comodo. Ad ogni modo.
Mi prendeva in giro. Diceva parole offensive con l’amore in faccia, e io lì a far capricci. Avanti, raggiungimi… diceva Eleonora facendo rallentare il gruppo. Nemmeno un chilometro di sterrato, ed ero già afflitto da fastidi insopportabili. E sudavo, sempre.
Avanti, fallo per me… si chinò alla mia altezza, e all’improvviso fece una cosa che mi stordì: mi colpì con una carezza. Non sapevo se morderla o amarla. Scelsi la seconda opzione. Perciò continuai a camminare per un po’, neanche un chilometro, e mi fermai. L’aria pulita, gli odori, quell’impertinente cinguettio. Cosa hanno da gioire quegli esseri nascosti tra le fronde, mi domando.
Tornammo indietro, senza aggiungere nulla al nostro silenzioso rimuginare. Non mi chiese più di condividere la sua passione con me.
Mi manchi, Eleonora. Mi manchi, davvero?... Sto cercando di capire cosa significa, sto cercando di provare qualcosa. Buio. Nulla. Il vuoto. Dove sei, Eleonora? Perché non mi fai soffrire?
Soffro per la mancanza di sofferenza. Sottolineo con forza la frase, ti avverto
Con questa mi saluto.
16 giugno
Oggi è stata una giornata pesante, al lavoro. Non so nemmeno come faccio a stare ancora in piedi per fare questa cosa strana. Ma forse lo so. Eccome.
Insomma: già pregusto la fine dell’ora di lavoro, quando lo scatto della porta annuncia un nuovo cliente. Mi deprime l’idea di dover socializzare con uno sconosciuto a pochi minuti dalla libertà serale, soprattutto dopo una giornata così.
Ma è lui, quell’uomo. Mi blocco come pietra. L’uomo si siede in fondo al corridoio, mani sulle ginocchia, busto leggermente inclinato in avanti a curiosare il mio viso, ancora.
Non riesco a muovermi. Nemmeno un muscolo che voglia collaborare. Cerco di evitare il suo sguardo, ma la sua ombra si allunga verso di me. Si è messo in piedi, più vicino, ha scarpe lucide. Mi fissa, sempre, di più. Il collega di fianco a me scrive al computer a ritmo pian piano più lento e infine si ferma. Tutto bene?... mi chiede.
Capisco. A vedere l’uomo sono soltanto io.
Smetto di scrivere prima, stasera. Sono troppo stanco. E sono ancora scosso.
17 giugno
Ci reputiamo persone mediamente intelligenti io e te, me e me stesso. Comprendo cosa mi sta accadendo. La mente va incrinandosi. La perdita di Eleonora non trova in me sfoghi catartici, piuttosto preferisce scavare un lungo cunicolo nel cervello come parassita che gratta lento e silenzioso.
Lo so bene che per questi fenomeni esistono gli esperti della mente, non c’è bisogno che me lo ripeta. Quelli bravi, che magari scacciano brutte immagini di uomini eleganti, e che non smettono di fissare la tua faccia. Ottimo.
Incomincio ad avere paura, davvero. La gente lo intuisce dalla mia faccia pallida, tesa. Mi terrorizza il pensiero che la nostra mente, la mia mente possa partorire simili allucinazioni.
Riuscirò mai a distinguere il vero dal falso? Le allucinazioni mi faranno del male, o sarò io a fare del male ad altri? Si tratta davvero di allucinazioni? Mi sto ammalando di schizofrenia, o forse sono già nel pieno di una fase cronica. Tu che ne pensi? Cosa penso, io?
Non so quale sarà la tua risposta, immagino tu sia la parte di me più saggia e pedante. Bene. Penso ci si possa fidare di te, provo davvero stima per il lavoro che fai e non ho alcuna intenzione di mancarti di rispetto, ma adesso piantala: ascolta quello che ho da dire, e smettila di propinarmi il tuo sermone.
È una via nuova, questa. So che non sei d’accordo ma si tratta di un percorso inaspettato, improvviso, ho la tentazione febbrile di affrontare il delirio in solitudine, tentazione insopprimibile che scientemente sto assecondando. Cerca di capirmi. La paura genera alterazioni tossiche, l’amigdala suggerisce reazioni archetipiche, violente, improvvise. Magnifico. La malattia è mia, parte di me e di te. Sono geloso di lei, mi desta dalla neutralità, non voglio condividerla con nessuno, tranne che con te. Anzi, nemmeno con te.
Scherzo ovviamente.
Da me non si scappa. Purtroppo.
18 giugno
Strano fenomeno quando casa, il luogo più protettivo per eccellenza, incomincia lentamente a perdere il suo consueto ruolo.
Intravedo lui, l’uomo, la sua ombra si aggira per le mie stanze, cauto e attento a ogni mio spostamento. Sta lì ad ammirare i quadri, i titoli incorniciati, la strada illuminata dai lampioni, e lo fa senza mai distogliere lo sguardo da me. Mentre guarda altrove, non smette mai di fissarmi. Il suo viso non gode di forme consuete. Si rimpicciolisce, si gonfia, le teste diventano due, nove, nessuna. Gli occhi si avvicinano, diventano liquidi, assumono forme affascinanti e inquietanti. E mi fissano.
Chi sei… gracchio con voce che non riconosco mia. Nessuna risposta. Con grande sforzo faccio un passo in avanti, un altro, un altro ancora. L’uomo è lì, le mani lungo i fianchi a fissarmi tra la finestra e il letto, avvolto da una penombra complice. Non fa niente, non dice nulla. Mi.guarda. All'improvviso spalanca la bocca.
Penso di essere svenuto, perché non ho salvato il file. Non ho perso nulla, tutte le parole sono qui.
Cosa mi succede?
19 giugno
Non so che ore sono, deve mancare poco all’alba. Il mondo sta dormendo proprio come vorrei dormire io, ma io sono sul letto con i vestiti ancora addosso e il portatile che violento con dita tremanti. Ho la bocca impastata di un recente spavento e gli occhi non mettono a fuoco.
Dal vetro ruvido della porta intravedo la sagoma dell’uomo. Eccolo lì: le mani sui fianchi, la testa reclinata come a controllarmi severamente. È immobile, non respira. Pare voler sincerarsi del fatto che io stia davvero dormendo. Cerco di spostare lo sguardo verso il fondo della camera, ma il terrore non me lo permette.
Ho l’abitudine di sistemare gli abiti sulla sedia, un disordine che mi consente di trattare male i vestiti, per qualche motivo li punisco. Tuttavia c’è qualcosa che non quadra: gli abiti, come ho detto, li ho ancora addosso.
Quelle forme scomposte sulla sedia, incominciano a muoversi lentamente. Lo scricchiolio del legno, lo stropiccio di scarpe nuove e l’ombra dell’uomo verso di me, si avvicinano inesorabilmente. Di nuovo lui, adesso in piedi, nel buio della stanza. Con lenta decisione si avvicina al mio viso per spiare meglio, per spiarmi all’interno del cervello. Vedo la linea scura della testa e delle spalle che copre quasi tutta la mia visuale, il peso delle sue braccia sul mio letto crea un avvallamento notevole, una forma invisibile e pesantissima. La sua faccia è adesso a pochi centimetri dalla mia, si inclina di un po’ come a voler guardare meglio, eppure non sento né odori né respiri.
Mi sollevo di scatto, l’uomo si acquatta all’angolo della stanza a una velocità inconsueta. Rimane lì immobile per tutta la notte, come un vecchio geco in attesa di una nuova preda.
E mi fissa. Ancora.
P.s.: ho corretto quasi tutto ciò che ho scritto, non riuscivo a controllare la grammatica dei miei pensieri. Aiutami. Ti prego aiutami. È ora che questo esperimento faccia la sua parte. O forse è meglio smettere. Dammi un consiglio. Ho paura.
19 giugno
È mattina, non vado al lavoro. Mi do malato perché sono malato. Tremo di un freddo appiccicoso, mi sembra di avere addosso una coperta umida che mi avvolge in pieno inverno. Più cerco calore, più ne perdo.
E l’uomo è ancora in casa.
Lo sento, lo avverto nelle ossa, nella testa, nei nervi devastati. Cammina, cammina sempre, lui. I suoi passi lenti sono irritanti, ha la testa liquida e ondulante rivolta all’indietro, e mi fissa. Dentro. Sempre.
Maledetto uomo che sei venuto da chissà quale luogo ostile e lontano. Non ho gli strumenti per parlarti, non capisco il tuo linguaggio, posso solo subirti nel corpo che va indebolendosi di minuto in minuto.
Trovo la forza per andare via di casa, chiudo la porta ad infinite mandate con la segreta convinzione di metterlo in trappola, ma pur non vedendolo, so che l’uomo è davanti a me. Cammina con la solita ostentata sicurezza mentre i suoi passi prendono la via per il bosco. Devo seguirlo, anche se non voglio.
Il mio incedere muta in una scomposta zoppia, sento la sua presenza tra gli arbusti, intravedo la sua ombra tra i rovi, cammina sulla cima degli alberi. E mi fissa. Dentro. Sempre.
Sale il sentiero, lui. Non conosce stanchezza, non ansima, non cede alla fatica. Occhi vispi che non si chiudono mai, sempre incollati sui miei, mentre il sole di mezzogiorno impone calura. Le mie gambe si incrociano, si accavallano per la stanchezza, esemplare vergognoso di essere umano che non può competere con la sua stessa mente.
Criticami pure, so che lo stai facendo. Aiutami. Dammi una mano. Devo darmi una mano.
Sono stanco.
19 giugno
L’uomo sale e sale e sale, e raggiunge la cima. L’uomo si ferma, finalmente, e lo fa sfiorando un faggio sventrato da un fulmine, chissà. È lì a indicare il punto più alto della collina. L’uomo attende il mio arrivo, per la prima volta guarda altrove quasi a voler odorare l’aria. Il suo sguardo sembra diverso.
Mi colpisce, l’uomo. Anche lui mi ferisce con una carezza, poi prende la discesa verso il crinale opposto senza voltarsi, e sparisce tra le fronde.
L’ultimo rimasuglio di volontà lo uso per abbracciare quel faggio sventrato, e che adesso saluta le prime ore della sera.
19 giugno
Perdonami, Eleonora. Perdonami... sussurro piangendo, nella notte fonda.
Io piango, adesso.
Io piango, finalmente.
21 giugno
Grazie.
Mi sono debitore.