Dentro "Galleggiamento"
Difficile se non impossibile definire quest’opera partorita dalla mente geniale di Luca Perrone, acuita in questa circostanza da abuso di alcol, tabacco e altri stimolanti. Poesia senza poesia, senza, cioè, le gabbie metriche, la veste formale e gli strumenti che in genere si riconoscono alla poesia; dichiarazione d’amore senza remore; confessione spregiudicata; rappresentazione visionaria del mondo e delle sue macerie Galleggiamento è tutto questo e anche di più, molto di più. Il titolo fa riferimento alla vasca di deprivazione sensoriale, inventata alla fine degli anni Cinquanta dal dott. John Lilly per alcuni esperimenti sul funzionamento del cervello. Ci si rese conto che in assenza di stimoli e di sollecitazioni esterne il cervello sprofondava in uno stato onirico in cui si manifestavano spesso delle allucinazioni. E ipnotica, visionaria, allucinatoria è tutta la prima parte di questo poema o affresco macabro, popolato da cadaveri, insetti e animali ripugnanti che sembrano usciti da un film del terrore e dappertutto rovine che rimandano a un ciclo perenne di distruzione e di rinascita, di amore e morte. In questo scenario sepolcrale vengono in mente alcuni versi di Ugo Foscolo (anche se non è citato esplicitamente): … e una forza operosa li affatica // di moto un moto; e l’uomo e le sue tombe // e le estreme sembianze e le reliquie // della terra e del cielo traveste il tempo. Gli uomini si aggirano come zombie e inciampano nelle macerie e nella loro stessa supponenza, increduli e inconsapevoli, finché non vengono schiacciati da questo sistema marcio e malato che ci ha privato dell’amore, del desiderio e della speranza, che non solo ci ha avvelenato il presente ma ci ha rubato anche il futuro, lasciandoci soltanto il passato dove far pascolare senza briglie i cavalli della nostalgia. In Galleggiamento si ravvisano echi e suggerimenti di Allen Ginsberg (L’urlo), per la voglia di gridare la sua rabbia contro il mondo, di Antonin Artaud per la sua capacità di (dis)turbare la sensibilità del lettore, provocando un’acuta sensazione di disagio interiore e l’immancabile Pasolini per la sua disperata vitalità, per lo scandalo del contraddirsi e per la fiducia incondizionata nell’amore, capace di sconvolgere l’asettica norma borghese (cfr. Teorema) e di resistere all’efferata crudeltà del mondo, penso alla tenerezza della scena conclusiva di Salò, le 120 giornate di Sodoma, in cui due giovani repubblichini ballano abbracciati e riescono in questo modo a esorcizzare le nefandezze perpetrate dai gerarchi fascisti. E tutto ciò viene scandito dalla musica di fondo dei Joy division e dei Doors, mentre alla coprofagia presente nel film di Pasolini si sostituisce qui l’antropofagia propria di un sistema in cui i padroni divorano gli schiavi, i forti i deboli, gli uccellacci gli uccellini volendo citare un altro caposaldo della filmografia pasoliniana.
Valga come esempio esplicativo la seguente strofa dove Luca Perrone è presente con la sua visionarietà, con le sue macabre rappresentazioni, con il suo furore deflagrante e soprattutto con quel suo linguaggio libero, analogico, metaforico, dove ogni parola sembra apparentemente slegata o, come ha detto perfettamente Ilaria Palomba nella splendida prefazione, rizomatica per la capacità di esprimere con le sue ramificazioni, connessioni ed estensioni, nello stesso tempo, concetti complessi e immagini folgoranti.
Ventagli di cartone umido, prolisse favole prive di costume, affonda tutto nel catino primigenio e semiotico. Volumi candidati nei pressi di aziende spregevoli, arrancanti, violano corolle atone riverse su soffitti screpolati, bevande contundenti offendono gengive logore, tonici barbiturici capeggiano palizzate malferme e il bosco grida. Stinte facciate di spettri verdognoli digrignano fulgenti isteriche libidinose pause d’attrezzo genuflesso e affisso; sporca sotto l’unghia pota eccessi e rade isterica ossa tremanti, crani separati da scheletri e arcate sopraccigliari invocano minzioni pure, cristalline. La paglia non ha più motivo e suona lugubre il flauto appartenuto al pastore. Correvano in cerchio, le mani strette, affondavano i volti nei petti, riluceva l’alba su molteplici attese tutte uguali.
Non meraviglia, quindi, l’esperienza di floating (l’immersione nella vasca) per scrollarsi di dosso tutte quelle sgradevoli sensazioni e raggiungere l’isolamento, ma a ben guardare si tratta pur sempre di una resa ineluttabile e al contempo inaccettabile. Ineluttabile perché ogni rivolta è miseramente fallita, Eolo ha rinchiuso nel suo otre il vento del cambiamento e l’Angelo della Storia di cui parla W. Benjamin, privato delle ali non guarda più avanti e si limita a contemplare il panorama di macerie a cui è ridotto il mondo ma è altrettanto vero che l’uomo, degno di questo nome, (mi viene in mente L'Homme révolté di Camus) non può accettare serenamente la sconfitta e se non vede sbocchi dinanzi a sé cerca nell’amore, come l’autore di Galleggiamento, una compensazione anche se la donna, oggetto del suo desiderio e che è tra l’altro la sua Musa ispiratrice, è lontana e irraggiungibile. Poco importa perché Perrone non è tanto innamorato di una donna quanto dell’amore e senza amore non riesce a scrivere, a vivere, a… essere.
Il poemetto, mi si perdoni se mi ostino a chiamarlo così, ha una sua struttura particolare: sono 52 strofe di 7 versi ciascuna per un totale di 364 versi da leggere uno al giorno per un anno intero quasi come un mantra per ricordare la schiavitù alla quale siamo condannati. Vale la pena rilevare che la scelta del numero 7 non è casuale ma è legata al suo valore simbolico di perfezione, non a caso Platone lo definì anima mundi e per gli antichi Egizi simboleggiava la pienezza della vita.
La seconda parte ha un carattere decisamente più autobiografico e anche lo stile si fa più prosastico, non a caso l’autore, nell’ultima strofa, rimpiange la mancanza di metafore, allitterazioni e allegorie, tutto l’armamentario di cui in genere si servono i poeti. Luca Perrone ora parla in prima persona e scorrazza liberamente lungo i sentieri della memoria non senza un pizzico di nostalgia e gli sovvengono (Leopardi docet) i viaggi, le avventure del corpo e della mente, le scorribande della fantasia sentimentale, l’amicizia, le canzoni cantate nell’ubriacatura.
Il poeta James Douglas Morrison, uno dei più grandi del secolo scorso, pare fosse sempre ubriaco di whisky ma lasciò detto che la purezza delle sue liriche venisse dall’hangover mattutino. Ha fottuto solo me fino a questo istante, perché egli cantò When I walk up this morning I got my self a beer. Il mio amico Dario e io con un solo sguardo, al risveglio in Granada, optammo per una colazione psichedelica a base di whisky, che si concluse col profitto netto di venti centesimi racimolati in virtù della più nota Battisti-Mogol di sempre. Granada sotto effetto di whisky dalla mattina alla sera fu un’esperienza servile per gli angeli, un ricordo nitido dello sfuocato panorama dell’Albayzìn, gemelle scambiate per donne non sorelle e abbracciate godendo.
Più espliciti e frequenti si fanno i riferimenti al suo vissuto: liti, delusioni, amarezze e qualche momento di tenerezza quando parla del suo nipotino, Giacomo. A tal proposito, Luca Perrone, confermando ancora una volta la sua formazione classica e l’amore per la tragedia greca non diversamente da Nietzsche e da Pasolini, riprende, rovesciandolo, il concetto di nemesi storica:
se non sono le colpe dei padri a ricadere sui figli è sicuramente l’innocenza dei figli a proteggere come manti i padri.
E con questa immagine non molto diversa dalla scena conclusiva di Salò… da me citata prima mi piace concludere queste brevi riflessioni su una delle opere più belle e sconvolgenti di questi ultimi anni.