Galleggiamento – 1
La terra in cui seminare ricopre cospicuo numero di salme,
sono corpi pallidi e marcescenti vivi fino all’istante che precede l’alba.
Avvoltolati in deliri abbracci mutano diafane trasparenze e verminose
recano al selciato polveroso muti e candidi profili, ognuno un titano
l’occhio sbarrato e sempiterno nel sepolcro aperto dice ansia,
cifra morale e giudice del sasso, ansia come dovere e tesserino.
Elmo ricopre sabbia, che la costanza non premia e rovescia anziché colmare.
Senza alcuna esigenza di trucco, sbiadito in sussulti sospirati a tempo perso,
riverso in assenza d’aneliti, pace trova e reca madido alle nozze tempestive,
scarrellano sussiegose carotidi infrante sui bagordi schizzinosi e melensi delle trame;
becero è attributo fecondo di buonsenso e stime perdute fra ingannevoli reminiscenze:
mai esistito uno spazio privo di lame, ché miliardi d’aracnidi inglobano vite tramortite
nel plagio assente e ottimista. La nudità prolissa d’un altare sfoggia merletti e aulica
infonde virtù nello sperpero cinestetico - a tratti barocco - ai più noto come amplesso.
L’ipertrofia prostatica rammenta suoni atavici e profondi, ricchi di bassi e d’alti scarni
frequentati da tribù triviali e poco nulla inclini a una qualsivoglia logica diplomatica,
secreti da pietre astanti, lacrimosi fanti chinano capesante e le piegano in algometrie benevole
sei dardi inaugurano a raggera la scomparsa fisica ed elaborata d’ogni albume prenatale
frinisce arzillo lo scampo al pericolo fragoroso, che corre la piuma rincorsa dalla mole poderosa
cinici e pervicaci alcuni cani svegli e particolarmente evoluti ringhiano al pasto anemico e venefico
memoria si ribella alle carezze voluttuose ed efebiche d’un’illusa piramide di sterco, concime danaroso.
Scarpate in faccia e nessuna rassegnazione si impadroniscono blande e succubi d’un bivacco romantico
l’erba è fiera di sé nel ricevere accorta soffici e disperate cosmesi auliche trasformate in fase di produzione
comignoli fiochi raschiano il gozzo mentre crisantemi lucidi scavano le proprie radici oltre il limite della bisettrice
recide frenetica fioco lume la tana fertile di bianchi astri mentre le spose più vergini del sottobosco limano
sbarre affusolate e dichiaratamente prone, concepite infine solide e non senza soddisfazione da uno zio distratto:
menti meno salde di plastica ultracentenaria e altrettanto corrosive mendicano spiragli fulgidi e aprichi
nell’espiare la nullità d’una convenzione. Sorgono lune demagogiche e miagolano retrive a uteri austeri.
La pelle di lei non spunta più fra le dita e le striscianti umide verbose unghie rade. Sfiorano solitari il ventre
colli d’ape tumefatti nel nuovo roboante e arido nulla, proibito effettuare scambi di fluidi neri e feste
la fraternità accantonata minuscola giace di fradici indumenti sepolta e non più chiassosa o altera, spera
adusa alla quiete narcotica e rilucente di piatto schermo, sbaraglia anche la paternità e la maternità.
Zuppi meandri e costati inversi transitano adunchi lungo l’argine screpolato della sera né primavera sa o dice
quando come e quando e come e dove ancora si vedrà sbigottire qualche umano che non sia infante sano
nessuno nulla tutto niente sapone riveste come ombra mutila, fracassa sponde grevi e citazioni stanche.
Nel silenzio s’ode il guitto rupestre barcamenarsi immerso di blu, riceve fretta a dismisura e c’è chi s’adira
spasmi festosi e febbricitanti approssimano miracoli esaustivi e compiti assolvono in naturali esequie
e c’è chi contrario alla spoglia querelle metabolica affresca e tinge e spazia lungo il perimetro della cerimonia
riti triti e consunti e ovvi come pagine bieche e rabberciate che narrino olocausti gerbidi e fragili, sostenuti
sfiancano matricidi dovuti e ceri e fiale e raffinerie - tutti sedati - violano avvisaglie repentine d’intossicazioni
dispersi in cori gozzoviglie e acerrime esalazioni d’impazienza, illibati rapaci e necrofagi assillano pori epidermici
bui, seviziati, aspersi, contrariati, diffamati, lambiti, istantaneamente, loquaci, servili, asseriti, invisi, invasi.
Fiume accorto sviscera posizioni fameliche e oltrepassa scontri indistinti, maculata piega, inaspettata, insudicia
fiero approccio alla solidità d’un’ovazione soave, ripetitiva, sfinita nel vociare martoriato di ologrammi lucrosi
genuflesso al richiamo gelido di chiavi desuete frastaglia cimieri e timbra ossesso e marchia apatici diaframmi
lotta pugilistica abbaglia la sfera sempiterna ottusa dei coltellacci privi di biasimo, non s’intravede rispetto.
L’ululato sinuoso del cobra mitiga i sibili indistinti. L’ovazione sfugge alla sirena cieca, zoppo l’aliena e al freddo
lingua cocciuta bisbetica e severa non riposa e scolora fiera; frattanto si compiacciono della stoltezza, ne mitigano
l’aspetto opaco e fertile in preda a schizzi ciclici, parecchi guaritori, alcuni sono fusi alla legna e sfiammano.
Circuiti fisiologici sottraggono al banco soffice e puntiglioso requie e servili abbocchi, catene fluide impennano
cloache abbandonate al risveglio e dimenticate; novità sepolta viva osteggia minuta e scava il cielo torbido
ghiaia s’allarma per lo scalpiccio nevrotico ma l’orecchio dell’assassinato è gonfio e così muore affogato.
Sangue declina inviti profusi e accalorati, conscio dell’intento eccelso lascia la mischia a scolorare anomica
ipocrisia; contraddizioni e compromessi sfiniscono in bagarre alla taverna degli ottoni simili a stalattiti pendule
e infettive. Altisonanti istanti baluginano istanze, invero promiscue e pragmatiche, ciniche stanze d’affetto
enfiate, sterili, macchinose e rudi soldati privi dell’attimo demeritano il soffio del vento o il fumo del camino.
Ritto sulle punte ballerino a tratti e pervenuto, il pescatore inconsapevole trafigge il flutto, sarago schiva divino.
Dovere come contrappunto sfinito d’un pervaso girovago e sfrattato, in assenza d’alternativa vende disagio,
cammina ore incomprensibili e vuote, arreso e vilipeso, in preda ai rantoli pietrificati dell’attesa, l’inadatto.
Serpeggia seria e accorta, intrisa e unta di velleitaria serietà, persona simile a null’altro intento in respiro, soffre
stagione rigida come ghiaccio e altrettanto gelida, mosca stanata da feroce ibernazione ferina. La tigre è grata
nello scannare cuccioli mantecati e larve appoggiate su davanzali di finestre chiuse e buie; simili a piombo
sepolture storiche, ma firmate anch’esse dalla tenebra, spandono il fetore tumulato senz’altro fine che l’orgoglio.
L’acrobazia del parto riduce la tensione, sbalza la monarchia di sella e cavalli freschi puntano zoccoli arresi
non sete sventra roccia o siero e pane non dilaga al minimo avviso, gaie e sorridenti femmine d’orso tempestano
cortecce d’amanti, grattano via il perdono dalla resina e fiere annusano frizzante nulla depositato in custodia
all’ufficio brevetti della città fantasma: poche case sul selciato. Ragazzi privi di colpa e incapaci di concepirla grati
specchiano i propri membri sani su chiazze untuose di vecchio saccente. In lista per un attimo d’attenzione tutti
gridano accorati dettagli miseri e sindacabili, spersi tra buche meticolose ricavate in certezza di libera fertilità.
Diverse compagnie d’assassini, tutti imparentati, attendono oscurati da larghe foglie di porre fine alla farsa.
Ombre dignitarie liriche s’assiepano districate nella grettezza impoverita di baluginii sordi e fievoli arrampicati
il tempo viene odiato nel suo florilegio pio e mite da tuoni dispersi e roboanti schiume di birre coraggiose
asservite a correnti tremanti e arrugginite fioche fragili metallurgie detonano tiranni imbambolati e schiavi
vuoti di profezie o d’altre figure, programmate e incise nel dettaglio in svaporati fluidi abissali cosmogonici.
Privi di teatralità o altro sacrale orpello, sfiniti dalle bombe e carotati, spiriti fantasmagorici baciano cuscini
lacci e spighe robuste - non essiccati - sfioriscono in dilatazioni astute e sonore, mediocri come bovi selvatici;
qualcosa di piacevole sorge a mezzogiorno in occidente, sigilla e trangugia spoglie inconsapevoli ma fradicie.
Lacrime in fiamme lanciano oltre muri diagonali, in stagioni fosche e maledette da sonagli analgesici, vasi rotti
già pronti alla decalcomania, in procinto d’essere spinti oltre atre balaustre, rintoccano salmodianti vesti.
Stracciati manifesti afflitti d’ipocondria rasentano lidi nitidi e oberati d’infami carichi indifferenti al dissesto;
frattanto germogliano ruvide e rumorose, gracili alci spinate nefaste versatili, occhiuti mitili sconfessano arbusti.
Baratri rubizzi in virtù d’ascesi complici si moltiplicano gai in ascessi multipli. Fucilati al ritmo d’una campana laica
trimestri segaligni e protervi spacciano per serie faccende; teorie di ipotetici lombrichi abitano aria innominabile.
Imperfetto descriveva a modo un sogno scapestrato e fradicio l’altolocato immemore dell’abbondono.
Poi s’intravide, postumo e acceso, disseminare scogli ingordi e mastodontici, da un orizzonte dolce e arido,
lo sturbato raglio del violino color porpora. Incrinato e spoglio girovagava sul pianale altalenante un microbo.
Insignificante fu attratto dall’estero vociare uno in grazia di bambino - sapeva già parlare - non spinse il piede
l’arnese appariva una catapulta intenta ad affannarsi per costruire scalcinate componenti architettoniche,
durante la pausa da dedicare al pranzo, ignominiosa prese a latrare un’asina accesa di grottesco ardore
ne sminuì gl’intenti il lardo dentellato cannoneggiato in lontananza dalla sponda del torrente, mitigato e scuro
il fluire della menzogna belò, per rinverdire le gote offese d’ogni componente d’una moltitudine ebete arresa.
Vicendevoli formiche assaggiano genitali vissuti, fiacche squadre perorano viti e chiodi disossati, sordi crimini
miti e soffocate spire mietono al garrulo tossire d’incolto e celibe assentire, parco di particolari effettivi
l’afflato cinico di stormo, imperturbabile, sobbolle intriso di deficienza e vittima d’avventura e la calura non cessa;
frequenti anomalie numismatiche decorano oscene glabre e comiche ottimiste, la canfora ammarata deriva
scambi e sotterfugi da ignote efelidi. Leggere sbandierano sul gesso oscure sere, esperte staffette minimaliste
affaticate sedano se stesse nel gonfio incavo d’un miasma sereno - finché luccica - non c’è atroce vanto ricolmo.
Porte schiuse come ali sfinite appaiono lontane e l’oasi meticolosa e squarciata separa nulla da null’altro e altro.
Sorgenti strillano disagio lento e fisse dilatano ulteriori prove, il marcio asseconda smilzi tentativi e fianchi sciolti
abbottonate mura ricoperte di tetti ruggiscono l’incanto asfittico d’unto freno: irripetibili e distanti mugghiano.
Chili separati da spranghe intrappolate nel cemento digrignano la gola d’una tardiva riverenza, sfumata e tesa
apprende giusto qualche fiore estivo, rugiada ti colga e nessun altro orpello rammenti e rasenti lo sfacelo!
Insonnia cucita sul giubbotto come toppa, cappa scapestrata assimilata al pregiudizio, sorelle accese d’occhi,
aperte alle bocche, viscide insieme accoppano birbanti d’ogni dove. Non si dà garanzia nel pattume, né gloria.
La vecchia si riveste di caglio e coperta d’asprezza muta gli accordi minori in vino, la morte in pane raffermo.
Viscere impudiche sciolgono pedanti selezioni d’antropofagi gentili; l’ossessione sgroppa china uno dei monti
pregni sassofoni giudicano asettici percezioni lestofanti, molti intravedono nell’espressione il pretesto del riposo
sensi spenti occhieggiano miti ruberie mimetiche, ma si finge accalorato e prono l’ultimo insegnante gracile.
Un faro immane dispiega ombratile vuoto: sapori violenti, in assenza di lingua, schiariscono materia plasmatica
l’anfiteatro tramonta sibillino a sudest di pace ed essa arrossisce pura mentre il dolore guarnisce fini scalinate.
Senza pretesa di civiltà vivi sfidano altri vivi e inezie arrancano vivaci tessuti secchi. Rischia il midollo acerbo
e rischiara patetica la fresca arsura - vivifica e smacchiata - la sistematica dimestichezza al satollo clamore.
Fuoriesce da ritmo scaltro un protagonista scalzo inodore trito, frulla baccelli animali e mendica acciacchi
scaglia di roccia truce scheggia e vortica allucinata la gabbia idrica. Farine in bilico su funi molli e stressate
coadiuvano felci e mitili in incontro sferico: eucalipti nutrono smanie d’orsacchiotti molli e rigenerati;
asserragliate su battigie salve importanti custodi di seni acchiappano rarefazioni dispotiche in bocche d’argento.
Scompare nel medesimo istante ciò ch’è brutto e inviso alle tribù e noia assurge comoda a inaspettati ghiacci
nemico pare desueto termine notturno, in virtù della dichiarazione poco netta in merito ai timbri, suoni psicotropi
ammessi in contesti lavorativi, ludici appalti dilagano in seno alle onde propagate dal singolo schizzo d’una goccia.
Pericolo s’affaccia dal balcone, chi sbircia strilla canzoni ignote improvvisate e miti a luminoso opaco di frastuono.
Pelli di serpi mutate a nutrimento di flora selvatica oltrepassano fili d’albe recisi e atoni allo specchiarsi severo
di agili gonne stracciate, nascoste, serie. Innalza originale un fusto l’infante nuovo, vilipeso, affranto. Brinda.
Molti, riuniti come per uno scherzo o una sorpresa, infrangono visioni maestose e ricercate, sottili e crespe.
Senza più tener conto s’affossano scorte su banchi limacciosi, lo sdegno corale e superstizioso dei vecchi si palesa
franco e irretito nell’algido chiaro d’un cero. Cani stravolti dalla battuta avidi lumano strisce rosse e viscose
d’altri cani; sotterra la cerimonia priva di codice e sfarzo lo scarso olfatto dello smercio, che agile infratta.
Tintinna l’iraconda coda d’un’interminabile accozzaglia d’insetti, filiformi muovono schiera aptera e priva di capo
bisbiglia monosillabi accorti la fata minuta inguaiata dal nano settimino e giacciono adunchi sul biancospino
rami facondi prolissi e centenari, tacciono la miseria e si trovano a favorire applausi e stridii convulsi annidati,
precari e savi, in fosse naturali e prive di logica. L’ultimo nome casca sinistro e sornione da nubi fuligginose;
tronfi e austeri eremiti pigolano certezze che una mano può devastare, il tocco lieve giunge infatti e sparpaglia
appunti e altisonanti cicalecci, le risa allibite degli sparuti asserviti brancolano in volo e plana roccia azzurra.
Cospicue giovinezze accalorate montano in groppa a canaglie armate, ne descrivono le gesta tarme indifferenti.
Distratto e sterile riferì occhiute mani con dita proprie, versatili e a sghimbescio, ritraevano parodistiche azioni
insipide, tiepide e molli. Lumache inaridite a fiamma lenta si fingevano farfalle per non destare stupore.
Umili come ghiande riposte in cunicoli di biglie, e altrettanto limacciosi, forsennati scalpi a passi misuravano
stecchi costruiti senza finalità altra, abisso o cratere, fetore micidiale di interiora vomitate e ingurgitate ancora.
Esaltate dalla spremitura, esalazioni contagiose e villiche vilipendono dolci, bianche, fresche notti e turgida
sorge a sgominare l’insieme diafana orchestra d’ammutoliti artigiani, carezze scapestrate invadono ansanti le tare
e lo strano dei contadini, essi si disseminano ritti e pettoruti senza frangere schemi antichi e diretti alla piazzata.
Decisero ch’erano una coppia, istanti fragili e farneticanti incoronarono allegre sviste dimagrite, dignitari giunsero
quartieri strani più della fauna oceanica, appesero copricapo e sorte augurò benevola perenne unione scintillante
corsero a salti lunghi verso il crinale storpio, piano accorsero spasimanti delusi e botti luci coriandoli incendiari,
assetati e smilzi, contraffacevano ghirlande auliche di parenti obbligati. Apparve dal fondo di profonda caverna
un vecchio simile al fusto striminzito d’un giovane limone insabbiato e fresco dichiarò quanto segue è matrimonio
vezzeggiativo sprazzo d’inesausta velleitaria frode perpetrata in cima a chiacchiere adultere d’immobile antro.
I presenti applaudirono all’unisono e si sospesero in cicli modici i ricami e le bozze euforiche a venire.
Il figlio porse gaudente un cimelio su roccia istoriata, inetti ricevettero congratulazioni e angoli sparuti d’universo
picchiarono esausti sulle sedie storte del patio. Le ginocchia di lei sorridevano alle piastrelle calde, certamente,
fischi distratti a incorniciare il sipario diafano raffazzonato e storto, omaggio delle autorità claudicanti d’un tempo
affettato in cui spazio spalmato diluisce sforzi e sguardi. Apparecchi sinfonici scrutano il volto luminoso e pallido
la bambina smercia energia cosmica e ne profonde l’essenza, gli occhiali della madre sul mobile buono, mai vista.
Annovera fra calcoli idioti il risultato d’un tentativo goffo d’imitazione viscida, n’esce iracondo e altero, fradicio
ossequi rifiuta se fine discorso imbriglia minuti puerili schiavi prezzolati e privi di specchi o altre armi bianche.
Ventagli di cartone umido, prolisse favole prive di costume, affonda tutto nel catino primigenio e semiotico.
Volumi candidati nei pressi di aziende spregevoli, arrancanti, violano corolle atone riverse su soffitti screpolati,
bevande contundenti offendono gengive logore, tonici barbiturici capeggiano palizzate malferme e il bosco grida.
Stinte facciate di spettri verdognoli digrignano fulgenti isteriche libidinose pause d’attrezzo genuflesso e affisso;
sporca sotto l’unghia pota eccessi e rade isterica ossa tremanti, crani separati da scheletri e arcate sopraccigliari
invocano minzioni pure, cristalline. La paglia non ha più motivo e suona lugubre il flauto appartenuto al pastore.
Correvano in cerchio, le mani strette, affondavano i volti nei petti, riluceva l’alba su molteplici attese tutte uguali.
Corsa a rotta di collo verso l’atterraggio con fune dall’elicottero d’assalto in Piazza dei Miracoli a sabotarne il palo
nessuna intenzione di addrizzare la normale voglia di gravare sul soffitto del pavimento psichedelico, ma rompere
distruggere ogni forma di vita e morte crivellata di bossoli grossi come ossibuchi e cancellare le tracce di sedi
e troni e nascondigli d’opere ermetiche che strepitano e ululano nelle orecchie di malcapitati maghi rasati e radi.
La fissa d’una o due donne fra miliardi, consci appena che esiste una mulatta nel corso degli eventi pronta a
partorire nella miseria freschi guerrieri del pallone o del girotondo, capaci d’amare e odiare a un tempo tutta la
sede della misera clinica S. Teresa, universitaria e cinica, universitaria e sadica, dove entri sano ed esci allucinato.
Lucida mente e sadica balzella fra frusti e tumefatti costi proibitivi e gelidi fiotti di sangue grumoso e greve.
Cerca senza trovare un panno candido o madido di fiume lercio, che sia perla e tremebonda fauce al tempo;
silenzio morde nel costato del redento. Né peccato né colpa insinua mutevole ed enfio prossimo passatempo
gigioneggia il cappio e preme forte sulla tavola lignea del selciato farraginoso, burro incalza matasse fredde.
Nulla può sembrare più distante da un fuoco di una stalattite di ghiaccio ma esistono freddi che non scorda
genuflesso ancora al nartece benedetto della donna senza remore e reticenze simoniache, il diavolo piange.
Nel ricordo d’un istante di bontà in cui amò sì forte la bellezza da imbruttirsi d’alcol e altre droghe, piaghe.
Lisergico scorre un uomo con cuffia e serpeggia in assenza di Mahler fra la richiesta d’una vergine di vecchia data
e la nuova grigia decappottabile schiarita dal sole della droga. Non ci sono speranze di girare il proprio braccio dalla
parte vuota del letto e trovarla piena né aneliti particolari a oltrepassare l’abitudine di racimolare giusto
Il denaro sufficiente a baciare una donna che venda il proprio corpo interessante e accogliente. Una puttana che
non si sfrutta, una donna vera, ribadisco, piena del sole limpido dell’assenza di scherno o derisione. Una che si fa
scegliere senza alcuna intenzione di concedersi là dove non sceglie, non so come si chiama e lei non sa il mio
nome, ma ci amiamo per gli istanti sottopagati in cui il suo corpo pulito e il mio altrettanto contemplano fiori.
[…continua]