L'oculista
Facevo l’oculista da trent’anni e una cosa del genere no, lo giuro, non mi era capitata mai. Trent’anni di pupille dilatate col collirio che alla fine non lo sai se a dilatarsi è solo l’occhio, o un mondo. Nell’ultimo periodo avevo lasciato l’ospedale per dedicarmi alla professione privata: la mia mano non era più ferma come quando avevo iniziato. Ma la mente, quella continuava a funzionare alla perfezione, per questo non riuscivo a capacitarmi in nessun modo di quel che accadde, di quel che accadde quella sera.
L’ultima paziente era una ragazzina. Mi colpì da subito. Il vestito di velluto nero, il cerchietto rosa carne, il mento appuntito, il viso pallido e gli occhi nerissimi, abbassati, poco si addicevano alla giovane età.
La madre portava un abito identico in velluto, solo di alcune taglie più grande, e lo stesso cerchietto rosa carne. Aveva lo stesso mento appuntito, gli stessi occhi nerissimi ma, a differenza della ragazzina, li teneva ben fissi su di me, come se scritta sulla mia faccia potesse trovare la risposta alle sue domande sulla salute della figlia.
E quei volti: il volto della madre e della figlia, avevano, ahimè, qualcosa di familiare. Ma lo scacciai, quel pensiero.
Alla ragazzina la vista si offuscava, all’improvviso. Ma se provavo a chiedere qualcosa di più la madre cominciava a divagare, e la figlia stava zitta, gli occhi bassi e neri; neri come un pezzo di carbone che attende il fuoco per attizzarsi.
Quando mi misi davanti all’oftalmoscopio per sondare il fondo oculare accadde l’incredibile. Ero lì a fare le cose che facevo da una vita, quand’ecco vidi la pupilla divenire così luminosa da sembrare incandescente. Sentivo le scintille, cocenti, sul mio viso. Poi la pupilla tornò nera, ma non era più solo una pupilla, era una galleria buia che si allargava e si stringeva, si stringeva e si allargava, e solo in fondo alla galleria scorgevo uno sbocco, illuminato. La luce bianca di quello sbocco era diventata, a un certo punto, così forte da indurmi a chiudere gli occhi. E nel momento in cui li chiusi sentii qualcosa tirare, come braccia fortissime che mi costrinsero a inoltrarmi in quella galleria, fino in fondo, fino a raggiungere la luce bianca e luminosissima che m'impediva di aprire gli occhi del tutto.
Quando li riaprii mi trovai dentro a un’atmosfera liquida e trasparente, senza più riuscire a muovere un muscolo. Ero all’interno di una grande vetrina rotonda, e lucente. Fiocchi di neve cominciarono a cadere su di me, davanti ai miei occhi, senza che io potessi in alcun modo ripulirli. Per alcuni secondi tutto divenne bianco. Quando finalmente il vetro e i miei occhi tornarono limpidi provai a camminare, ma ero bloccato; tutto ciò che potevo fare era girare gli occhi: il mio unico mezzo per esplorare l’ambiente. Anche i suoni esterni erano scomparsi; sentivo le orecchie pesanti e piene del liquido che ormai possedeva ogni parte del mio corpo.
Persino la mia mente era paralizzata. Nella vita mi ero sempre appigliato alla logica. Quando stai operando e sai che il paziente potrebbe perdere la vista se fai un solo movimento sbagliato non hai scelta. Conoscevo a memoria l’esatta geometria dei gesti da imprimere, con il bisturi o, ultimamente sempre più spesso, con il laser. E sapevo che quella geometria è una danza da eseguire senza alcuna esitazione. Non appena mi sono reso conto che le mie mani non erano più in grado di eseguirla perfettamente, quella danza, ho abbandonato le sale operatorie: mi sono appigliato alla logica. Questa volta no, nella sfera di vetro la mia logica non aveva più spazio alcuno.
Fuori dalla sfera distinguevo pareti candide e un letto di ferro. Sul letto le lenzuola, impeccabili, erano, anch’esse, bianche. E sopra quel letto era distesa, preda di un sonno profondo, la ragazzina. Nel sonno ella aveva perduto ogni pallore; le guance rosate e la pelle di una nuova, intensa luminosità. I capelli nerissimi erano raccolti in una cuffia color giallo vivo. Mi ricordò, quel giallo, il colore che esplode in primavera sui denti di leone, prima di trasformarsi in palloni di semi, bianchi e soffici. Semi che un bambino o il vento soffierà via, lasciando a tremare soltanto uno scheletro.
Tutti i colori, assenti nella stanza, si erano posati sul corpo, addormentato. Accanto alla ragazzina c’era la madre, i cui occhi avevano perso ogni ombra di ansia e d’interrogazione. Erano fissi e immobili come due bottoni neri, sul viso della figlia.
Qualcosa distolse la mia attenzione. Sentii che il liquido attorno a me si stava muovendo e vidi cadere, di nuovo, alcuni fiocchi. Le onde erano state provocate da un suono: la voce della ragazzina. E, nonostante il liquido che mi riempiva le orecchie, quella voce riuscivo a udirla.
«Mi riconosce?»
Non potevo parlare.
«Ero io quella fanciulla. Questa sfera di neve era accanto al mio letto anche quel giorno. Non me ne separavo mai nei momenti importanti. L’avevo pregata, dottore, di permettermi di tenerla anche in sala operatoria. Lei è stato gentile, ma irremovibile. Solo dopo me la misero accanto, in questa bianca stanza di terapia intensiva. Quando era troppo tardi.»
A quel punto ricordai. Chiusi gli occhi. Erano passati molti anni ma troppo pochi per me. Una reazione all’anestesia, imprevedibile.
Aprii gli occhi ed ero di nuovo nel mio studio e avevo addosso altri occhi, nerissimi: quelli della madre della ragazzina.
Feci appello a tutte le mie forze per apparire calmo: «Bisogna approfondire. Prescrivo a sua figlia una tomografia ottica. Non si spaventi per il nome altisonante, è una semplice Tac agli occhi, la facciamo solo per scrupolo. Pronti i risultati, chiamatemi che fissiamo un altro appuntamento.»
Qualche giorno e la madre mi chiamò. Fissai l’appuntamento sempre nell’ultimo orario della sera. Sapevo che, dopo, non sarei stato in grado di vedere altri pazienti.
Madre e figlia arrivarono puntuali. Lo stesso vestito di velluto nero, lo stesso cerchietto rosa carne, lo stesso mento appuntito. E gli occhi, nerissimi, s’erano fatti da una parte più infuocati, quelli della ragazzina, e dall’altra più interrogativi, quelli della madre.
Diedi un’occhiata alla cartellina della tomografia: all’interno solo fogli bianchi. Fui sul punto di dire qualcosa, invece mi morsi le labbra e feci segno alla ragazza di sedersi davanti all’oftalmoscopio.
Accadde, di nuovo, quello che doveva accadere.
Mi lasciai trasportare nel tunnel fin dentro alla sfera di cristallo, fino a che il liquido denso che la riempiva non s’impossessò ancora dei miei movimenti e di tutto il mio corpo, lasciandomi libero, una volta posatasi la neve sul fondo, soltanto di muovere gli occhi, per guardare.
Questa volta al bianco della neve si sostituì un altro bianco lucidissimo, altrettanto intenso, altrettanto accecante. Su quel bianco distinguevo lettere e numeri in bronzo: “Maria 1977- 1989”. Sentii di nuovo il liquido muovermisi attorno e vidi cadere, come l’altra volta, alcuni fiocchi: era la voce.
«È stata mia madre a volere che una sfera di cristallo con la neve, identica alla mia, fosse fissata qua sopra, al posto del vaso di fiori. Mai e poi mai avrei voluto separarmi dal mio portafortuna, lei lo sapeva.»
Non potei far altro che fissare, al di là del vetro, il bianco brillante del marmo.
«Accanto al mio c’è un altro nome.»
Cercai di ruotare gli occhi il più possibile, ma il secondo nome era fuori dal mio campo visivo. Il secondo nome, che io già conoscevo.
Chiusi gli occhi: ero di nuovo nel mio studio; davanti a me l’oftalmoscopio, e la ragazzina che sedeva composta in attesa, assieme alla madre, del mio responso.
«Ho un’ipotesi per una soluzione, ma per il momento preferisco non pronunciarmi» mentii.
Fissai un altro appuntamento e il giorno dell'appuntamento sapevo quel che dovevo fare.
Davanti all’oftalmoscopio mi lasciai scivolare dentro al tunnel che mi avrebbe portato dritto nel cuore di ciò da cui, per anni, avevo distolto lo sguardo.
Mi ritrovai all'interno della sfera. Fuori una stanza piccola, finemente arredata. Alle pareti non quadri, ma arazzi futuristi: forme geometriche alternate a bizzarri animali, sgargianti. Su tutti spiccava un gallo giallo e verde: al posto degli occhi, bottoni.
Appesa al centro della sala, l’opera d’arte più bella: la madre della ragazzina, indosso un abito di seta, giallo vivo. Era sospesa a mezz’aria, al collo una corda: il capo ripiegato come la corolla di una rosa recisa cui qualcuno ha dimenticato di rinfrescare l’acqua.
Avvertii muoversi il liquido tutt'intorno e seppi per certo che la voce mi era di nuovo accanto. Decisi di chiudere gli occhi, di far finta che le mie orecchie fossero troppo piene di liquido per sentire.
Il giorno successivo la governante trovò lo studio stranamente aperto, perfettamente in ordine. Di me nessuna traccia.
Nei primi tempi si fece qualche ricerca, poi andai semplicemente ad allungare la lista degli scomparsi; casi archiviati, inghiottiti dal vino, dal fiume, dalla notte.
Qualcuno dice di avermi riconosciuto, dietro alla vetrina di un rigattiere, nei tratti del volto di un pupazzo di neve come quelli che si trovano al centro delle sfere decorative. Come quelli che hanno la facoltà di far nevicare anche quando, fuori dalle finestre, splende il sole.