PARTITURESilvia Lenzini

La fabbrica

PARTITURESilvia Lenzini
La fabbrica

Sono ancora lì fuori: quattro uomini e quattro donne seduti a gambe incrociate, le braccia abbandonate sulla terra nera. Li osserviamo dall’alto, in silenzio, tenendo le dita ben ancorate ai profili metallici dei vetri a nastro - non un granché come finestre, ma di notte incorniciano le stelle.
Ci alziamo sempre a giorno fatto, e ci arrampichiamo fin quassù: restare sospesi, osservare il mondo fuori senza che i piedi tocchino terra, amplia le nostre percezioni e confonde le possibilità.
È così che li abbiamo visti, stamattina: accucciati in attesa.
Sui loro crani ciocche di capelli lunghe fino al torace lasciano scoperte ampie piazzole di pelle diafana, come una mappa geografica su carta lucida.
Noi cinque siamo glabri in ogni parte del corpo, ci siamo rasati il giorno in cui i peli hanno iniziato a cadere. Qua abbiamo a disposizione forbici e lame di varie dimensioni. Ci sono torri colorate, anche, enormi rocchetti di fili da cucito impilati uno sull’altro: quelli di nylon li usiamo per costruire le reti con cui catturiamo gli animali. I ratti puoi cuocerli ore, conservano sempre il sapore di carne marcia - un sapore adeguato, è giusto che sia così.
È scesa la sera, decidiamo di lasciare entrare questa gente. Carlo e Walter hanno impugnato i bastoni di ferro e azionato il generatore. Con rumore di ferraglia la saracinesca inizia la sua salita.
È insopportabile la lentezza di questa saracinesca. Una decina di giorni fa, per l’eccitazione, io e la Lucia non riuscivamo più a trattenerci e ci siamo passate sotto prima che fosse completamente aperta: dalle finestre avevamo visto delle creature appollaiate sui rami secchi degli alberi, e per quanto ci sembrasse incredibile non c’era dubbio che si trattasse di sei piccole scimmie. Carlo aveva sentenziato che erano babbuini: spelacchiati, quasi glabri, esibivano sul colmo della testa alcuni ciuffi brillanti di colori, innaturali contro il cielo grigio.
Non assomigliavano ai babbuini che ricordavo dai documentari, ma Carlo aveva detto subito che dovevano essere scappati da qualche laboratorio di ricerca, che chissà cosa gli era capitato. Avevano pochi denti, piccolissimi e appuntiti. Erano abbastanza simili tra loro, si differenziavano solo per quei ciuffi iridescenti e per la taglia. Quello che sembrava il capo aveva una fascetta rossa legata a un polso: era compatibile con la teoria di Carlo - probabilmente un segno di riconoscimento per il laboratorio, a indicare chissà quale caratteristica. Uno doveva essere un cucciolo, era molto più piccolo degli altri. Tutti avevano occhi color ambra.
Due giorni dopo hanno iniziato ad avvicinarsi per afferrare brandelli di ratto, che noi tiravamo sempre più vicini. A quel punto già li indicavamo tra noi con un nome, in base al ciuffo colorato: il Rosso, che era il più grande, il Verdolino, e poi Giallo, Violetta, Azzurro e Fucsia - quattro maschi e due femmine. Il terzo giorno Ugo ha tenuto un ratto stretto tra le dita: è stato il più piccolo, Giallo, il primo ad avvicinarsi per strappargli il cibo dalle mani, ma lui lo ha trattenuto, ha voluto accarezzarlo.
Dio solo sa perché eravamo affascinati dall’idea di poterli addomesticare. Giallo ha addentato la mano di Ugo, e non la lasciava. E gli altri a urlare, tutti insieme a incitare, pure noi. Carlo è corso a prendere i bastoni di ferro per cacciarli. All’inizio non volevamo ucciderli, l’idea era di spaventarli, ma quelli avevano uno sguardo che non so definire, comunque intollerabile. Ho sentito il rumore del primo cranio che si frantumava - rumore di rami secchi. Abbiamo abbattuto i bastoni sulle loro zampe magre, che si sgretolavano con un rumore più lieve, come se camminassimo sugli scarafaggi. È stato semplice ucciderli, ma abbiamo continuato il lavoro - fatto poltiglia dei loro musi, spezzati i piccoli denti, fracassate le dita delle mani - senza smettere di urlare finché non hanno avuto più occhi per guardarci a quel modo.
Abbiamo trascinato dentro quel che restava dei loro corpi, e li abbiamo cucinati.
Il sapore era buono, appena dolce. Di certo erano molto più gustosi dei ratti.
La saracinesca finalmente si è aperta, usciamo nella luce fioca della sera.
Stavolta io e Lucia siamo state pazienti, abbiamo aspettato insieme agli altri che il sipario fosse completamente alzato: ci mostriamo in fila davanti a questa gente, come dei ex machina delle loro povere vite. Come giganti.
Gli otto si alzano in piedi. Ci squadriamo senza parlare, poi io alzo una mano:
“Anna”
Lucia, Walter, Aldo e Carlo mi imitano. Prima ci sarebbe stato anche Ugo a presentarsi, anzi sarebbe stato il primo - tra noi, era il più socievole. È morto da qualche giorno ormai, per le ferite dei morsi.
Gli estranei si dichiarano, viene fuori che sono italiani anche loro, arrivano da Messina. Qui più o meno siamo dalle parti di Taranto - ne hanno fatta di strada. Ci chiedono ospitalità per una notte o due, poi riprenderanno il cammino.
Non mi piacciono, se avessero la coda la terrebbero tra le gambe. Hanno un’espressione vile nello sguardo.
“Una sola notte - dico.
Il magazzino è grandissimo, di quelli che una volta gli impiegati giravano in bicicletta. Ci sono migliaia di rotoli di stoffa di tutti i tipi. Poi c’è una parte adibita a laboratorio, con grandi tavoli e macchine per tagliare e cucire e tutto il resto. Nel C5 ci sono le stoffe più pesanti. Le abbiamo usate a strati per costruire i materassi. Sopra ci mettiamo tessuti leggeri, a mo’ di lenzuolo; quando sono sporchi li bruciamo. È stato facile imparare a usare le macchine, Walter è il migliore in questo.
La cosa più ridicola sono i bagni differenziati per uomini e donne. Quando io o la Lucia avevamo ancora le mestruazioni, ci facevamo delle pezze con una stoffa del C5 che sembra cotone compresso. È durata poco: nel giro di pochi mesi le nostre gonadi hanno smesso di funzionare, le immagino in forma di piccole prugne secche, come quelle degli uomini.
I Siciliani ci raccontano che sono amici da sempre, abitavano nello stesso paese, vicini di casa. Che la loro regione è stata raggiunta dal vento radioattivo, e hanno dovuto abbandonare tutto e bla bla bla. Sono noiosi, ripetitivi. Mentre accendiamo il fuoco e infilziamo i ratti su un ferro, diciamo loro che possono andare a lavarsi. Sembra che i nostri inviti siano ordini: si allontanano in direzione dei bagni, trascinando le scarpe coperte di polvere nera, ogni tanto uno di loro si gira indietro a coprirsi le spalle. Ci guardano come i babbuini prima che li colpissimo, quando l’ambra dei loro occhi si era offuscata di paura, o di odio, come se si fosse riempita di fumo.
Tornano dai bagni a dorso nudo, i fianchi scheletrici coperti con tagli di stoffa del corridoio B4, tessuti di maglina, annodati alla meglio. La loro pelle è più liscia della nostra, segno di una alimentazione più variata, ma è verdastra, perfino poco credibile: a vederli nudi non sembrano umani. Noi siamo diversi, la pelle è squamosa - secondo Carlo è pellagra e già si manifestano i primi sintomi neurologici.
Abbiamo appena finito di cenare.
“Dove state andando - chiedo a una donna, mi sembra che si chiami Maria.
Si guardano tra loro, hanno occhi folli.
“E voi, invece? - mormora uno - Da quanto state qui?”
“Da un anno e mezzo, più o meno”.
“Come fate a vivere qui dentro? - continua - Non potete stare sempre chiusi qui”.
“Abbiamo le nostre regole - dice Walter -. Per esempio, tra noi usiamo il turpiloquio. Qualsiasi parola o frase possa essere espressa con una parola corretta, noi la sporchiamo. Usiamo il gergo più truce che tu possa immaginare. E bestemmiamo forte - il nostro Dio, e anche quelli degli altri. È una cosa che aiuta”.
“Siete parenti? Siete soli qui, non c’è nessun altro? - chiedono quasi tutti insieme, e c’è una domanda che rimane sospesa, la sento appiccicarsi alla mia pelle.
“Ci siamo incontrati per caso, in cammino - dice Aldo -. Abbiamo deciso di fermarci qui. Restare”.
“Molto sesso - gli parla sopra Lucia -. Facciamo sesso tra di noi, con chi vogliamo. È così… naturale. Voi invece siete sposati, siete delle coppie, vero?”
“Siamo camminanti - mormora uno di loro.
“Cosa cercate - chiedo.
I Siciliani si guardano le mani scavate dalla fame e dalle diarree, verdi di globuli rossi scomparsi.
“Il nord Europa sembra sia poco contaminato - fa uno -, pare che molti siano andati là. Dovreste spostarvi anche voi”.
“Siamo già morti - dice Carlo -, non lo vedete? E non vi vedete, in che stato siete?”
Non capiscono, e non c’è più niente da dire. Andiamo verso i letti. Noi abbiamo le nostre camere personali. All’inizio no, i materassi erano tutti vicini, io stavo sveglia e ascoltavo i respiri; poi li abbiamo allontanati, ciascuno diviso dagli altri con grandi tende che pendono dalle barre di stabilizzazione. Una ventina di metri di stoffa, per ogni tenda. È un’idea di autonomia. Ma non un’illusione, è piuttosto la voglia di infrangerlo, il principio di autonomia: le tende non sono pareti, e ogni notte si spostano e volteggiano.
Mi spoglio, e già vedo che il mio letto non è vuoto: scheletriche nudità, spettri d’amore, mi aspettano. Braccia mi accolgono, quasi trasparenti contro il chiarore della luna che ora si posa bianca sui visi di Carlo e di Lucia. Mi infilo tra loro, siamo corpi intrecciati e labbra vicine a sussurrare giuramenti privi della parola sempre. Come avrei potuto spiegare ai siciliani, al loro linguaggio schietto, basico, come spiegherei il mio - il nostro - desiderio di non vedere mai più alberi verdi, se pure da qualche parte esistono ancora, o la bellezza sconvolgente del mare? Come potrebbero capire che abbiamo sposato l’inevitabile, abbiamo fornicato per partorire il figlio dell’inevitabile, e ora lo culliamo tra le nostre braccia squamose, finalmente senza forze?
È mattino presto quando si alzano dai loro giacigli d’emergenza, si preparano a partire. Li ho ascoltati piangere tutta la notte - singhiozzi, ma anche gemiti lunghi come cantilene. Piangevano, loro, e noi qui a rincorrere le nostre dita esili, a formare figure trasparenti contro la luce della luna.
Sono felice che se ne vadano, potrei lasciarli andare così, senza una parola. E invece chiedo a Maria perché di notte soffrano tanto.
"Siamo persone orribili - piagnucola lei -, siamo mostri. Abbiamo perso i nostri figli, sei bambini in tutto, sei angeli. Ci dicevamo che erano agili e ci precedevano, che correvano più forte di noi. E abbiamo continuato a correre e a raccontarci che li avremmo trovati, più avanti, più avanti. Il nostro è il più grande, sette anni; la loro bimba la più piccina, ha solo quattro anni. Bambini belli, vivaci. Il nostro Franco ha un braccialetto rosso che gli ho intrecciato io, con delle striscioline di pelle: non se ne stacca mai, dice che con quello si capisce che è lui il capo. Voi non li avete visti, vero? Nessun bambino è passato di qua?"