PARTITURESilvia Lenzini

Tengo necesidad

PARTITURESilvia Lenzini
Tengo necesidad

Incontrarsi al tavolino di un esterno bar sconosciuto - luogo neutrale, ampio - sotto un cielo sfacciatamente blu. Mi era sembrata una bella idea, un passaggio morbido per uscire dall’apparenza, dall’inganno virtuale, addirittura dalla nostra unicità di poeti. Pensavo che ci saremmo comportati come amici, meglio, che ci saremmo riconosciuti amici, liberi dallo schermo e dalla finzione. Mi incuriosiva il genere - l’uso del nickname camuffa e protegge, dunque mi chiedevo: chi mi troverò davanti, un uomo o una donna?

Saremmo stati esposti, senza la scrittura a fare da tramite, da illusorio legame. Saremmo stati vita e carnalità, espressione di corpi e non di menti. Avremmo - come posso dire - gonfiato i nostri esseri, dando loro una fisicità tangibile. Corpi, insomma.

Sei un uomo, questa è la prima scoperta. Sei alto e educato, ti sei alzato al mio arrivo.

Sei vestito con una casualità che il profumo ricercato tradisce come fittizia.

La seconda scoperta è che sei Ken, e io Barbie. Là sotto siamo lisci, omogenei, carne saldata dove fino a oggi immaginavo cose. Due corpi - sì, la corporeità l’abbiamo ottenuta - due bambole perfino belle appoggiate su queste sedie, private di ogni illusione di amicizia, di amore, di erotismo.

La cameriera si avvicina per apparecchiare, chiede se siamo due. La guardo sbalordita, mi sembra una domanda stupida eppure così pregnante. Certo, questo è un dato di fatto: siamo due a questo tavolo, siamo la somma di due corpi distinti, due menti, due cuori pompanti. Due.

Ti chiedo cosa stai leggendo, e non mi interessa. Neanche ascolto la tua risposta.

Mi chiedi cosa sto leggendo io.

Come possiamo andare avanti in questa modalità, educati e composti e conoscenti di niente. Non abbiamo una storia cui attingere conforto per un momento così, una storia comune intendo, un serbatoio di ricordi; anche un solo ricordo lontano potrebbe aiutarci, qualcosa di insignificante per gli altri come un ramoscello levigato dalle onde, sarebbe salvagente per noi. E neanche altro abbiamo, che so, una genetica che ci unisca in vincoli incomprensibili.

Perché ora mi sorridi guascone, e sfoderi una bellezza che sappiamo entrambi transitoria e dunque, alla fine, non autentica? Quante volte ne abbiamo parlato: autentico è solo ciò che resta, ci ripetevamo.

Stupiscimi ancora con le parole, lascia perdere i sorrisi; Tengo miedo, Tengo necesidad, ci siamo consumati gli occhi su quelle frasi di Benedetti, fino a trasformarle nella nostra propria urgenza, che non abbiamo mai osato dirci desiderio. E allora per favore, per favore fammi sentire di nuovo un formicolio alla nuca, torna a essere puro spirito. Fallo adesso, o me ne torno a casa.

Cos’è quest’aria limpida, così respirabile. Ho bisogno di quattro pareti intorno, di uno schermo retroilluminato, di parole che colmino l’aria e lo spazio virtuale tra me e l’altro. Ti guardo: l’altro potevi essere tu, e anzi lo eri quando ci lasciavamo andare a finzioni leali (oh, credevo che fossero finzioni!) e avremmo potuto definirci sole anime - sola anima, anzi, che la dualità era annullata, allora. Voglio l’aria pesante di fumo e densa di immagini, voglio sorprendermi per rime che costringono il torace, voglio lacrime versate su storie senza speranza. I tuoi racconti, le tue rime, quelle che mi inviavi quando eri altro.

Guardami ora. Guardami! Vedi? Le Barbie non piangono, hanno sguardi fissi e palpebre che non si piegano sotto il peso del mascara.

Queste schegge di azzurro che ci cadono addosso senza ferirci sono la terza sorpresa: è anch’esso falso - non il cielo, dico: il colore. O forse anche il cielo esiste solo negli occhi dei poeti: tutt’intorno e sopra di noi c’è solo aria, trasparente o biancastra, che qualcuno dipinge ogni mattina. Una tonalità di blu quotidianamente più intensa, perché la menzogna dà assuefazione.

Ringrazio il cielo per questo suo sussulto di verità: ora che si va scolorando mi alzo, ti porgo la mano. E per un attimo ti riconosco, quando indichi col mento i nostri bicchieri ancora mezzo pieni di vino bianco, quasi bianco in realtà, ché se lo guardi bene una lieve sfumatura verde ce l‘ha, e dici:

Poteva essere assenzio.

L’impronta rossa sul bicchiere è oscena, ma non vuol dire che non sia poetica.