PARTITUREA.

Storia di una mignotta

PARTITUREA.
Storia di una mignotta

«Te la posso fa’ ‘na domanda?»

«Ma certo amor, dimmi pure»

«Ma com’è che te… sì… insomma…»

Ecco, questa è una scena che si ripeteva davvero un’infinità di volte. Ce n’erano alcuni che avevano voglia di chiacchierare, prima di fare il resto, e a me faceva anche piacere, scambiare due parole come fossimo persone qualsiasi, amici intimi che si abbandonano alle confidenze nel vento fresco della sera.

Poi però, chiacchierando di tutto e di niente, arrivava sempre il momento di quella domanda, si vedeva che ce l’avevano dentro a ribollire da qualche parte, se la rigiravano in testa fino a non poterne proprio più e allora, tra una forchettata e l’altra, la tiravano fuori, tenendo gli occhi sempre un po’ bassi.

«…com’è che sei finita a fa’ ‘sto lavoro?»

E non è che mi desse fastidio sentirmelo chiedere, ancora una volta, ma è che non sapevo mai come rispondere. Ché quello mica è un lavoro che ti scegli, non c’è una scuola in cui te lo insegnano, è più una cosa che ti succede. Ti ritrovi a farlo e neanche sai più com’è successo. Cosa avrei dovuto raccontare? Di quando ero ragazzina e il parroco mi scelse per fare la parte della Beata Vergine alla festa del paese? Di quegli applausi che mi fecero, gridandomi che ero “proprit biela”?

Bella, a ben pensarci, è proprio una parola strana, ma non saprei dire il perché. Così, quando me lo chiedevano, io facevo un grande sorriso, tiravo una grossa boccata di sigaretta e rispondevo sempre nello stesso modo.

«…è una lunga storia.»

«Ché poi non sei manco de Roma te, da dov’è che vieni?»

Eccone un’altra, di domanda frequente, chiacchierando se ne accorgevano subito che non ero di quelle parti e a molti di loro piaceva, mi dicevano che il mio accento del nord mi dava un’aria da signora, da donna per bene e quindi ancora più eccitante, per fare certe cose.

Così volevano sapere, mi chiedevano di dove ero e come ci ero finita, lì, a fare quel lavoro. La verità è che io, a Roma, ci ero arrivata per tutt’altro motivo, una cosa che fa ridere a ripensarci adesso ma ero giovane, e come tutte le ragazze giovani avevo un sogno, volevo fare l’attrice.

Lo so, scappare da casa a vent’anni con appena cinquantamila lire in tasca e una valigia piena di vestiti è proprio da pazzi, ma all’epoca chi ci pensava? Sembrava tutto così semplice, al paese continuavano a dirmi che ero bella, troppo bella per restare lì, che una come me l’avrebbero presa subito!

Loro ridevano ma io iniziai a crederci sul serio, misi su quei pochi spiccioli a salii sul treno, piena di tante illusioni. Ne avevo visti così tanti di film, conoscevo i nomi di tutte le attrici e di tutti i registi, avevo passato gli anni ad allenare il portamento e tanto mi bastava, non credevo servisse poi chissà che altro.

Ma anche questa era una cosa che non raccontavo mai, mi bastava il mio accento del nord, senza specificare il nome del mio paese, che per loro sarebbe stato impossibile da pronunciare.

«…è buona la pasta?»

«Ammazza… la fai mejo de mi madre!»

Ora sì che sorridevo ancora più forte, perché chi veniva da me aveva un trattamento speciale, prima di fare il resto preparavo sempre qualcosa da mangiare e, tanto per dire, io facevo un’amatriciana che li faceva impazzire gli uomini.

Sì, avevo tanti altri modi per farli uscire fuori di testa ma i complimenti alla mia cucina, quelli sì che mi facevano davvero piacere. Un piatto di pasta, ecco, forse a ben pensarci è proprio da lì che è partito tutto.

Quando arrivai a Roma iniziai subito a darmi da fare, feci un sacco di provini ma venne fuori che il mio strano accento non andava bene per i registi di Cinecittà. Ora magari non si sente ma all’epoca avevo certe vocali aperte da vera polentona, dicevo “mòndo” o “pòllo”, in un modo per cui ridevano tutti, si sganasciavano ma poi dicevano sempre la stessa cosa: «Sei proprio caruccia tu, ma parli proprio male.»

Qualcuno mi consigliò che avrei potuto provare con delle foto, che per stare zitta davanti all’obbiettivo sembravo davvero perfetta. Non era quello che sognavo ovviamente ma i soldi iniziavano a essere pochi e la pancia sempre più vuota. Così accettai, qualche posa da trecento lire a scatto, giusto per pagare l’affitto e aspettare l’occasione giusta per il cinema.

Un giorno un fotografo mi propose di fare qualche scatto diverso dicendomi che mi avrebbe dato molti più soldi e io, che volevo pagarmi un corso di dizione, accettai.

Fu imbarazzante, stare nuda di fronte a quegli uomini sconosciuti, non avevo mai fatto niente del genere, mi chiedevano in continuazione di sorridere e di immaginare tutti gli uomini che mi avrebbero desiderata. Riuscii a distrarmi solo facendo i calcoli a mente su quante lezioni sarei riuscita a pagarci con quelle foto.

Sta di fatto che un giorno mi chiamarono dicendo che un produttore aveva visto quegli scatti e voleva assolutamente conoscermi. A me sembrò di toccare il cielo con un dito, misi il mio vestito più bello e andai all’appuntamento continuando a ripetermi una cosa sola: parla il meno possibile, così quell’uomo importante non lo sente il tuo strano accento.

E così feci, quando fui nel suo ufficio rimasi zitta per tutto il tempo mentre lui continuava a guardarmi, ripetendomi che ero davvero bella, anzi no, disse che ero assolutamente perfetta ma non sapevo per cosa, forse per un film? Magari uno sceneggiato?

Quella sera stessa il produttore volle portarmi a cena fuori, con la fame che avevo non ci misi poi tanto ad accettare, mi sentivo tranquilla, avevo visto che portava la fede al dito e questo mi fece scacciare via qualsiasi strano presentimento. Non ricordo di aver mai mangiato così bene in vita mia, mentre lui continuava a sorridere e mi guardava io divorai un piatto di fettuccine al ragù e una porzione di pollo con le lenticchie, bevendo anche qualche bicchiere di vino.

La pancia vuota è un richiamo a cui è davvero impossibile resistere, così non ricordo neanche più di come ci ritrovammo nella sua macchina, parcheggiata fra gli alberi di Villa Borghese, col vino negli occhi e una sua mano sulla coscia.

Non ero ubriaca, al nord bevevamo cose molto più forti di quella roba che hanno a Roma ma ero sicuramente euforica. Dopo mesi di stenti mi stavo godendo una serata da vera signora, in quella macchina elegante, con quell’uomo distinto che continuava a farmi i complimenti e a muovere la mano.

Così non dissi niente, lasciai che la infilasse sotto la gonna e lasciai che facesse anche tutto il resto.

Molto semplicemente ne avevo voglia.

Ci fu quella sera e ce ne furono tante altre, in altri parcheggi o nelle camere di qualche albergo, lui prese a lasciarmi delle mance e a me tornò in mente che potevo usarle per il corso di dizione.

Ma la verità è che non ci andai mai.

Dopo il produttore ne conobbi tanti altri, suoi amici e poi amici degli amici, molti dei quali con la fede al dito, mi portavano a cena fuori o volevano essere accompagnati a una festa per poi concludere la serata nello stesso identico modo. Divenne una sorta di vizio, un’abitudine, un modo solo apparentemente facile per fare i soldi. Nei periodi di magra, quando nessuno mi cercava, presi ad andare per i viali, con uomini meno facoltosi, giovani e vecchi, che spesso, prima di fare il resto, avevano una gran voglia di chiacchierare, di sentirmi insistere col mio accento, per eccitarsi, proprio come quella sera.

«Ma non c’hai paura a vive’ qui… tutta sola?»

Spensi la sigaretta nel piatto ancora mezzo pieno, novembre era appena iniziato eppure faceva caldo, l’aria fresca entrava dalla finestra aperta.

Come ci ero poi finita io lì, in quella piccola baracca in mezzo al niente di Ostia? La comprai coi soldi delle “mance”, era molto meglio che starsene per strada, avevo una piccola cucina con cui potevo preparare da mangiare per i miei ospiti, la mattina prendevo il sole e il tempo che passava sembrava un vento dolce da cui farsi accarezzare.

Il cinema divenne un sogno sempre più lontano, passarono gli anni e io divenni ogni giorno meno giovane e meno spensierata.

Quel posto mi sembrò così tranquillo, mi ci portò un cliente una sera e mentre si muoveva fra le mie gambe dalla macchina si sentiva il rumore del mare.

Ci tornai altre volte con altri uomini diversi, misi da parte qualche soldo e trovai la baracca, la sistemai per benino, con la carta da parati a fiori, un bel letto comodo e una grossa stufa per affrontare i periodi più freddi.

A pochi metri da me viveva una famiglia che mi prese in simpatia, la signora Firminia aveva un piccolo orto e ogni tanto mi regalava qualcosa di buono. Era una brava donna e non mi diceva mai che ero “bella”, mi diceva sempre che ero “forte”. Suo figlio più grande era già stato da me un paio di volte, una mattina venne a bussare alla mia porta anche suo marito ma gli feci capire che non era aria, che una cosa del genere alla signora non l’avrei mai fatta. Fare un lavoro come quello non vuol dire per forza non avere principi.

Avevo paura a vivere lì? Certo che ne avevo, soprattutto la notte, per questo dormivo sempre con un coltellaccio sotto al cuscino.

Era ormai tardi, mentre il giovanotto beveva il suo ultimo bicchiere di vino io divenni di colpo stanca di tutte quelle domande. C’era altro che dovevamo fare, dovevo guadagnarmi i miei soldi. Quando ne avevo abbastanza per le spese ogni tanto me ne andavo al cinema, di mattina, a vedere altri registi e altre attrici, continuando a dirmi che nessuna di loro era come quelle dei miei tempi.

Così mi alzai in piedi e andai vicino al mio ospite, gli misi una mano fra i capelli e iniziai ad accarezzarli. Lui aveva gli occhi grandi, fissi sul mio petto appena nascosto dalla vestaglia, il suo respiro si fece più forte, disse solo «Madonna mia...» mentre me lo stringevo addosso.

C’era una cosa che gli uomini mi dicevano sempre, una cosa come: «C’hai proprio le zinne maggiche» e quando ridendo ne chiedevo il perché mi rispondevano: «Perché farebbero resuscita’ pure i morti!»

Chissà, forse i morti quando risorgono tornano bambini, perché poi prendevano tutti a ciucciarmele, come volessero essere allattati. Mi succhiava i capezzoli il giovanotto con le labbra ancora sporche di Amatriciana, io gli coccolavo la testa. Facevano tanto gli spacconi in mezzo alla strada ma tanti di loro venivano da me in cerca d’affetto, volevano una mamma che sapesse cucinare, un’amica con cui chiacchierare e una donna brava a scopare, anche senza essere mai stata un’attrice riuscivo a interpretare tre personaggi nello stesso tempo.

Ci fu qualcosa poi, un rumore, come di gomme che strusciano sull’asfalto, guardai fuori dalla finestra e vidi una macchina che aveva appena parcheggiato nel piazzale, poco distante dalla mia baracca.

Ci venivano in tanti lì, era un posto tranquillo, col silenzio si riusciva a sentire il rumore del mare e non esiste musica più bella per fare all’amore.

Il giovanotto si ridestò: «Che è?»

«Niente – dissi io – è solo gente che vole starsene in pace.»

L’auto ferma, la luce accesa nell’abitacolo, due figure che parlavano fra loro, con calma, forse per mettersi d’accordo sul prezzo.

«Aò… ma che so’ du’ maschi?»

Scoppiai a ridere massaggiandogli il collo «E che ti interese a te? No fan nuja di male!».

«Me fanno schifo a me “quelli là”. Ma come fa’ a non piaceje la fregna?»

Risi ancora più forte, mi staccai da lui per stendermi sul letto, allargai le cosce e sentii i suoi occhi caderci dentro.

«A te invece ti plase, eh?»

Il suo sguardo allupato bastò come risposta, presi ad accarezzarmi i peli fra le gambe, avevo bisogno di inumidirmi e di togliergli dagli occhi quel fastidio insensato.

Mi raggiunse subito, allungai le mani per slacciargli i pantaloni, gli tirai giù le mutande, col palmo della mano mi lisciai la lingua e poi presi ad accarezzarglielo «Che bel pisellone che c’hai, amor.»

Un solo passo, un unico respiro e mi fu già dentro, le mani sulle zinne maggiche

«Madonna mia…» ringhiò ancora e poi, con le labbra aperte, prese a muoversi, e ad ansimare.

Sentii un’altra macchina che entrava nel piazzale, c’era evidentemente tanta voglia d’amore nell’autunno di Ostia.

Con gli occhi guardavo il mio giovanotto, non sarebbe durato ancora molto, aveva la faccia da bravo ragazzo e pensai che avrei potuto concedergli qualcosa in più, magari un bis con la bocca e un bicchiere di amaro. Farli stare bene era importante, era il modo migliore per farli tornare.

Altri suoni fuori dalla finestra, di sportelli aperti e sbattuti con forza, voci improvvisamente rabbiose con tono di minaccia e, in mezzo a loro, un’altra voce, molto più piccola, che mi fece per un attimo trasalire.

Il cuore prese a battermi di un impulso diverso, l’uomo dentro di me annunciava il suo godimento ma io non lo sentivo, attendevo qualcosa, un rumore più forte, di mani che battono sulla faccia e gemiti di dolore che arrivarono subito dopo.

«Speta un attimo» gli dissi, in attesa di altri colpi.

«Che è?» protestò lui che non si era accorto di niente.

Un dito sulle labbra a chiedere silenzio, poi i rumori lì fuori si fecero più intensi e più frequenti, un tonfo più duro che non apparteneva di certo alle mani, poi un grido, di chi quel botto lo ha appena ricevuto addosso.

Mi staccai dal giovanotto e guardai dalla finestra, una delle due macchine stava abbandonando il piazzale. Al centro, accanto all’altra ancora accesa, c’erano tre figure che inveivano e picchiavano un uomo già steso a terra.

Tra le parole che gli sputavano contro ne riconobbi una che non promette mai niente di buono.

«Frocio!»

Anche il mio ospite a quel punto si accorse che qualcosa stava accadendo lì fuori, «Famose i cazzi nostri» disse, io lo guardai e in quel momento mi sembrò ancora più bambino, aveva paura, ovviamente, la stessa paura che dovrebbe avere chiunque si avventura di notte in un posto come quello.

Là fuori i tre sembravano figli di una rabbia cieca, si sfogavano contro quel corpo ormai inerme, uno di loro aveva una tavola di legno fra le mani e la usava per percuoterlo, proprio fra le gambe. Sembrarono placarsi solo quando una voce alle loro spalle provò a richiamare la loro attenzione, la voce di una donna che evidentemente non era di quelle parti.

Non so neanche dove lo trovai il coraggio per uscire, mi tenevo la vestaglia con le mani e avanzavo verso di loro, provando a distrarli con l’unica cosa che avevo a disposizione.

«Perché non lasao stare quel poveraccio e venite dentro? C’è posto per tutti se volete.»

Un sorriso disteso a forza, il cuore ormai impazzito, quasi nuda a sfidare la trinità del diavolo in persona. Mi guardarono riprendendo fiato, uno di loro si avvicinò, evidentemente sensibile a quel tipo di proposta.

Gli lasciai allungare la mano insanguinata, mi feci accarezzare i capelli, aveva occhi gonfi d’odio, che se solo lo avesse rovesciato sul mio corpo avrei fatto una fine molto peggiore di quel povero disgraziato.

«Lascia perde’ quaa zoccola!»

Gli disse uno dei suoi compari, lui si voltò a guardarlo e quello fu il mio momento. Dalla vestaglia tirai fuori il coltellaccio e glielo rigai sul collo, lasciandone uscire un velo denso di sangue. Sembrò fermarsi il tempo, in un gesto che aveva sorpreso tutti, compresa me, che lo guardai accasciarsi a terra. Quello con la tavola fu il primo a reagire, la alzò per colpirmi e io, sciolta dalla paura, gli lanciai il coltello contro, lo vidi roteare nel buio fino a centrarlo in mezzo agli occhi. Per il terzo non avevo più niente e in un attimo mi fu addosso. Mi spinse a terra, le mani attorno al collo, a stringerlo forte mentre provavo a dimenarmi, ormai nuda e impotente, neanche il candore del mio corpo riusciva a placarlo.

«’sta mignotta!» disse ringhiando, stringendomi via l’aria dalla gola e la luce dagli occhi.

Mi sentii mancare, guardavo la sua faccia, non sembrava neanche più un uomo, il cielo scuro dietro di lui, un pezzetto di luna, sempre più piccola e lontana.

D’un tratto pensai al mio paese, agli esercizi di portamento con il libro in testa, alla festa della Beata Vergine, al cinema parrocchiale…

i volti di mio padre e mia madre…

i loro sorrisi…

poi la prima volta che vidi Roma, dal treno…

quanto era bella Roma…

quanto era grande…

Roma…

…sentii di colpo un rumore lontano, un tonfo secco, come di campana sorda, che sembrava l’ultimo della mia vita. Le mani sul collo allentarono la presa, l’uomo spalancò la bocca in una smorfia di dolore, poi cadde a terra, proprio accanto a me. Dietro di lui la donna più bella e più forte del mondo, la signora Firminia, sembrava una santa, col pigiama addosso e la zappa fra le mani, la stessa con cui faceva l’orto ogni mattina e che ora aveva usato per spaccare le corna del diavolo. Mi soccorse, mentre provavo a riprendere fiato, tra colpi di tosse e scariche di panico, mi aiutò a sedermi carezzandomi la testa.

«È tutto finito bimba mia, è tutto finito, adesso.»

Poco più in là, il mio giovanotto in mutande se ne stava piegato su quel poveretto disteso a terra, sembrava cercare qualcosa, forse un briciolo di vita. Provai ad alzarmi sulle ginocchia, avanzando fino a lì, con ancora la gola spezzata e le lacrime agli occhi.

«È vivo?» chiesi con quel poco di voce rimasta.

Lui non rispondeva, continuava a osservarlo, incuriosito, come se fosse un animale dissanguato sul ciglio della strada. Mi feci avanti, fino a guardarlo, quel volto ricoperto di sangue, gli occhi chiusi, la bocca aperta.

Irriconoscibile, eppure non era la prima volta che lo vedevo.

«Me pare uno famoso, questo qui» disse il giovanotto.

Uno famoso, certo, uno che tutti conoscevano, l’enigma del suo volto divenne sempre più chiaro, sapevo chi era, lo avevo addirittura visto, una volta, da lontano, mentre aspettavo in fila a Cinecittà, quello era uno che la gente chiamava “maestro”, era un poeta, un artista, un regista importante, uno cresciuto proprio dalle mie parti e a casa mia quando lo vedevamo alla televisione tutti ascoltavano in silenzio, quello sguardo severo, la voce delicata, sembrava uno che non riusciva a sorridere mai, come si portasse dentro il peso di una storia impossibile da raccontare.

Lo presi fra le braccia, sembrava leggerissimo, maestro gli dissi, maestro, tutti lo chiamavano sempre così, maestro, la prego!

Lo strinsi contro il mio petto, sperando fosse vero quello che mi dicevano gli uomini, che le mie zinne maggiche fossero in grado di far resuscitare i morti.

Maestro, piangevo, in un piazzale, di notte, in mezzo al niente di Ostia.

La faccia in mezzo al seno…

quella faccia in grado di fare paura…

i suoi occhi severi…

i miei singhiozzi…

la sua voce delicata…

un respiro profondo…

di chi si prepara ad urlare…

poi…

un sussulto…

il piccolo corpo che si muove, rigurgitando sangue, un colpo di tosse e poi un altro…

Maestro…

la bocca che si spalanca a pretendere altra aria…

i suoi occhi che si aprono…

i suoi occhi ancora pieni di vita…

che mi guardano…

e in quel solo momento…

mi sorridono.

“Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l'erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.”

Pier Paolo Pasolini

Bologna, 5 marzo 1922

Roma, 2 novembre 1975