Acqua
Si comincerà col dire che il porcello l’acqua non l’aveva mai vista. Era solo acqua sul grugno, grugno nell’acqua, acqua lontana al di là di due barre ferrose o dritta giù nel gargarozzo attraverso un beccuccio, acqua che il corpo di porcello e quella sua sola parte, il morbido grugno avviato al callo, aveva toccato. C’era stato il piscio. C’era stato il latte.
Acqua?
L’uomo tende verso il porcello un pinzone di proporzioni gigantesche. Nonostante ne stringa le estremità con ambo le mani, la sagoma allungata d’umano appare lontanissima.
Il porcello ha già visto un oggetto simile, solo una volta; per questo ne riconosce la forma, ma quei tempi – tempi non molto lontani – il coso era assai più piccolo: dieci, venti, trenta volte rimpicciolito. E, allora, l’uomo glielo teneva addosso standogli però vicinissimo. Con quella specie di forbici palmate gli aveva pinzato un orecchio e se ne era andato a pinzare tutti gli altri.
Gli altri disposti in fila stretta nei gabbiotti, spalla a spalla, fermi fermi, da bravi. Per qualcuno, allora, c’era stata una carezza; qualcun altro si era meritato una pacca appiccicata di mota e fieno sul groppone. In risposta, un grufolante grugnito di approvazione o stupore, ché tutto era subito finito ed era stato persino interessante il contatto.
L’uomo aveva dato loro da mangiare, una gettata di bucce d’anguria fini fini e patate fini fini; un tiro a mano tesa e dita spalancate che aveva tracciato un arco nell’aria odorosa e aveva scaraventato le cibarie preciso sotto il vozzone di ciascuno, ché era stato come una ricompensa: ciascuno a modo suo se l’era guadagnato, pure chi – alla bruciante pinzatura – aveva alzato il labbro a scoprire i denti storti e brutti e gialli e accavallati e fetenti di fame troppo sazia.
Adesso l’uomo gli avvicina il pinzone proprio sotto le orecchie, alle tempie, e il pinzone si apre come una bocca e l’uomo è ancora lontano lontano e lo guarda, ma con il buco nero degli occhi spostato tutto all’insù. I buchi neri degli occhi, quelli dell’uomo e i suoi, non si incrociano. Allora no, forse non lo guarda. Stringe i gomiti come si fa quando si maneggia una pressa e al porcello pare, per un infinitesimo infinito istante, di vedergli flettere le gambe e piegare giusto un poco le ginocchia dentro i pantaloni stinti di grigio acciaio.
Di quei pantaloni il porcello conosce l’odore sanguigno e terroso. Odore di puro. Odore di casa. Odore da strofinarci il grugno e le tempie, tessuto ruvido che offre una raspa per una grattata, una levata di cespo dagli occhi secchi.
I pantaloni si flettono e si afflosciano lontano lontano. Il pinzone è vicino vicino.
Quando l’uomo lo ha condotto nella vasca, il porcello è scivolato nell’acqua ma per la prima volta vedeva l’acqua. Ci è finito dentro con tutta la testa, ha grufolato e sputato, si è storto una zampa già gonfia sopra l’unghia dura. Il porcello si è accorto che la stanza con la vasca piena d’acqua vera è un luogo stranamente disabitato e pieno di tubi che salgono da terra e si snodano e corrono per tuto il soffitto. Senza fargli fare alcuna fatica si è fatto portare dall’uomo dentro la vasca, con enfasi, l’entusiasmo che lo ha fatto inciampare.
La fitta della frattura come una sciabolata pulsa ancora, ma gioia e curiosità stingono il rosso del dolore. Il porcello lo dimentica. C’è l’acqua, troppo bella per lasciare spazio ad alcunché, alcun colore-altro; di colore alcuno, limpida; talmente strana nel suo nessun colore ché accoglie, riflesso, un altro sé.
Quanto è distante, adesso, l’uomo. Le ganasce tuttavia sono vicine vicine. Fauci sfiorano le tempie ed è il dolore elettrico di un istante non più infinito e – ultimi – il pensiero immerso nella beltà dell’acqua e un grazie come un sorriso sotto il grugno. All’uomo che l’acqua, finalmente, gliel’ha data.
Si finirà col non dire.