Acqua e latte
Io vedo. Io so.
Sono ben cosciente che il parere mio sul mondo ha solitamente poco rilievo, a dire il vero non ha alcuna importanza, anzi: non dovrebbe nemmeno esistere. Eppure, per quanto strana potrà sembrare la situazione che si delinea, posso affermare con certezza che io vedo. Io so.
Nel silenzio delle ore buie e nel chiasso dei giorni festivi, umile servitrice ed ultima guardiana della tua casa, so con esattezza cosa realmente accade qui, di notte, tra queste mura.
Mi lasci spesso chiusa tra le ante di un armadio, raramente in bella mostra tra cristalli e argenteria. Talvolta mi trovo a dover dissetare ospiti e servitù nel bel mezzo di una tavola malamente imbandita, non sono certo qui a far degustare liquidi prelibati dallo spirito ingannevole, ma a dissetare palati meno esigenti e menti più semplici.
La vita l’ho passata al buio di una stia, sola, a farmi incrostare dal calcare e dai residui di vino fesso e acido, buono per i parenti scomodi e per i servi minori. Quando la fortuna mi sorride, faccio compagnia a vetri mediocri e finti cristalli, con l’unico scopo di riflettere la luce livida ed insicura di questa tetra casa, nella speranza di sollazzare il tuo animo cupo che nascondi in corpo.
Mi trovo a trafficare con le leggi dell’acqua, solo acqua, ovvia e volgare acqua. La tua noncuranza è più fastidiosa della polvere che si mischia all’umido dei liquidi mal asciugati; e di questo ti serbo un certo rancore, perché nella mente di chi legge sono oggetto semplice, risulto goffa, trasparente ad ogni tentativo di descrizione. Mi rendi refrattaria alla curiosità di chi mi incontra solo di sfuggita tra le pagine tue, relegata a soddisfare la pazza sete di chi, di notte, sembra non avere un buon sonno. Forma anonima e trascurabile è la mia. Non posso e non devo essere bella. Non devo essere. Punto. Posso soltanto aspirare al necessario, di tanto in tanto. L’ovvio che rassicura, forte e robusta come vecchia infermiera.
Dunque questo sono io agli occhi tuoi? Superfluo oggetto di casa sempre nominata al femminile, grassa caraffa panciuta raccoglitrice di liquidi primari e senza valore? Sono scontata come le cure di una trista mamma, tassello marginale, rumore di fondo. Quindi perché sprecare altro inchiostro.
Eppure io vedo. Io so.
Mi sembra già di intuire quel tuo sorridere sufficiente, quanta spocchia da intellettuale, ricco uomo viaggiatore che fugge dagli improvvisi timori notturni e dall’incubo di non esser solo in casa. Modo astuto di raccontare la malattia mentale, la tua, e che ti consumerà le cervella insieme alla patologia venerea.
Di notte. Entra solo e soltanto di notte, a tua insaputa. E non sei tu. Non è la tua mente malata a parlare. Non è la tua invenzione, né la tua fantasia maledetta.
Passa per il tinello, sfiora le sedie, infastidisce le tovaglie, gioca con le posate. Di notte, solo di notte. E non sei tu.
Adesso mi dedichi attenzione, vedo… me ne compiaccio. Il sorriso ti è rimasto su, ma inganna chi vuoi con quell’aria da sornione. Gli occhi… i tuoi occhi hanno ceduto, di un poco.
Mi lasci qui ogni notte al centro di una tavola imbandita, ad ascoltare i ticchettii di un pendolo distante e lo scricchiolio sommesso dei mobili antichi. Sono cavia di un esperimento che, anche io, avrei ritenuto risibile e degno di un matto. Ma adesso io vedo. Io so.
Chi è che beve la mia acqua, di notte? Chi, il mio latte?
Non sei sonnambulo, non soffri di altri acciacchi del sonno. Non sei tu, di notte, a bere la mia acqua né il mio latte.
Non sorridi più, adesso. Bianca è la tua pelle, ancora più pallida della sifilide che ti coglie. Non sei tu, di notte, a vagare per le stanze della tua casa silenziosa.
Sei pazzo, forse? Sì lo sei, lo diventerai di certo. Ma credimi se ti dico che c’è un intruso, qui, per davvero. E da sempre. Di notte ama farmi visita, e si disseta rumorosamente. Si nasconde tra le tue lenzuola in cerca di calore umano e di energia cerebrale. Si ciba della mente degli altri, della tua mente. Si ciba della ragione ammesso tu ne abbia, del timore della modernità, dell’ovvio che permette alla tua vita di andare avanti. Ti sta divorando. Beve me, e mangia te.
Io so cosa accade qui, di notte, in questa casa.
Che fine hanno fatto la tua baldanza e la tua ironia? Cado in errore o tu, Guy, stai davvero stropicciando i tuoi fogli? Lancia in aria le tue penne preziose, allora!, macchia le pareti di inchiostro e distruggi lo scrittoio che asseconda il tuo scrivere. Prendimi, adesso! e distruggimi in mille pezzi. Dopotutto sono fatta soltanto di un leggero vetro, non ho forme invitanti, sono superflua e sacrificabile. Non è così che scrivi, forse?
Lasciami andare e fracassami per terra. Avanti. Sono inutile ai tuoi occhi, e questo mi basta per andare via dalle tue pagine.
Non puoi farlo. Non puoi non sapere. Mio povero sfortunato Guy… non esiste pazzia più feroce di quella cosciente. Vittima dell’impossibile, ma al contempo incapace di farne a meno.
Riponimi sul tavolo ora, e calma la tua ira malata. Ti stai ammalando, caro mio. Prendi fiato e concedimi da oggi in poi la giusta attenzione. Siediti e ascoltami, se vuoi sapere la verità su ciò che accade.
Io so chi entra in questa casa, di notte.
Ma non te lo dirò mai…
* (liberamente ispirato a “L’Horlà” di Guy de Maupassant)