Siamo la morte

Siamo la morte

– Belle le stelle. Sembra un mare liscio, solcato da una piccola barca a vela, in cui ci possiamo specchiare.

Un uomo di mezza età sdraiato sopra un tappeto osserva il cielo da una duna.

– Come ci riesci tu, a rovinare il silenzio, non ci riesce nessuno – dice la giovane donna distesa accanto a lui –neanche i cammelli porcelli.

– Non apprezzi l’armonia della poesia, mia giovane “patatawan” – sarcastico, l'uomo inspira l’aria del deserto.

– Hai ragione “Ziestro“ – ridacchiando la donna, che sardonica imita la voce artificiale di “darth vader”, e non riesce però a nascondere il sorriso che le suscitano le sue stesse parole.

– Brava, ricordati che sono il signore dei “Sitditi” e dei “guardacelo“.

La giovane adesso ride apertamente ma subito porta alle labbra le mani; un po' di sabbia le finisce in bocca e lei sputacchia sassolini tra una risata e l’altra.

Le risate contagiano anche l'uomo: – Già, ma smettila di mangiare reperti del Protodinastico – si asciuga le lacrime e ride e tossisce allo stesso tempo.

– Proroplastico, ahahah – lo incalza lei.

Si sente un rumore di passi in lontananza: passi che si avvicinano accompagnati da una voce sottile e crescente che urla:

– Abi! Abi!

L'uomo si gira sul ventre e intravede il ragazzo correre verso di loro tentando di attirare l'attenzione. Allora si mette in piedi fulmineo e altrettanto velocemente gli va incontro.

– Shabun? Perché gridi?

Quando sono uno di fronte all’altro, l'uomo più maturo afferra per le spalle il giovane che pronuncia una raffica di incomprensibili parole in arabo.

– Shabun! Shabun! Cacchio, mi stai facendo spaventare, che è successo? Parla una lingua che posso capire!

Il ragazzo alza un dito e lo punta verso la strada appena percorsa, le parole arabe adesso sono così veloci da ridursi a suoni gutturali, una cantilena rivolta a “dèi dimenticati”. L’uomo lo scuote e questa volta alza sul serio la voce: – Mohamed! – urla il suo nome.

Solo a quel punto il ragazzo si placa e ricorda le carenze linguistiche del professore: – Abi, nulla di grave, scusa, abbiamo trovato il buco, la mushkila, trovato il buco, vieni Abi, vieni dài, yalla! yalla!

– Ialla Ialla ’stocazzo, Shabun! Prima o poi mi farete venire un infarto…

Il professore sospira e tossisce, sembra gli manchi di colpo il fiato. Il ragazzo ripercorre di corsa i propri passi blaterando nuove parole incomprensibili. Nel frattempo la giovane si è avvicinata al mentore, e gli domanda: – Tutto a posto?

– Sì, sì, è che mi ha fatto terrorizzare!

– Ma sai com’è Sa'dun…

– Un giovane che vuole uccidermi? – ironizza il professore prima di essere scosso da un altro colpo di tosse.

Si incamminano nella direzione che ha preso Sa'dun. Benché abbia intuito l'urgenza della faccenda, il professore non corre dietro al ragazzo; cammina rispettando il proprio passo e il proprio tempo, tossicchiando, finché non raggiunge il buco, insieme a Alice che porta con sé il tappeto e poco altro.

Intorno al buco vi sono molti uomini che sbirciano incuriositi all'interno; accigliato, il professore chiede a Sa'dun se è già entrato qualcuno.

– La! – il ragazzo scuote la testa.

– Alice, per favore, prepara l'attrezzatura e le telecamere; intanto io do un'occhiata qua dentro, shabun samaht saeadaha.

Il ragazzo non capisce e lo guarda perplesso, ma evita di incrociare i suoi occhi.

– Va’ ad aiutarla.

Il giovane obbedisce senza dire ribattere.

L'uomo accende la torcia e ispeziona il buco, ne analizza le pareti lisce e spoglie; la curiosità lo induce a spingersi di un passo all'interno; fa scorrere le mani sulla pietra che, a eccezione del logorio del tempo, non reca alcun segno, alcuna incisione. Si addentra a passo lento, puntando bene i piedi, puntando la torcia tutt'intorno, finché il fascio di luce inquadra il tappo di una bottiglia di coca cola vecchissima lasciato lì per terra. Si passa le mani tra i capelli e sbuffa.

Anche Alice e Sa'dun sono entrati nella tomba e arrivano alle spalle del professore, Sa'dun con una telecamera giroscopica, Alice con le luci e le borse.

– Scoperto niente?

– Sì, che le multinazionali hanno sempre la meglio.

– Non ci sono incisioni – nota Alice. – Un po’ strano, non trova?

Il professore non dice nulla e avanza tossendo nel buio profondo.

Alice ripete la domanda, rivolta adesso a Sa'dun che, dal canto suo, si limita a fare spallucce e seguire l'uomo nel tunnel.

– Shabun, stai registrando?

– Aywa, Professor – il ragazzo annuisce e il professore guarda dentro la telecamera schiarendosi la gola.

– Salve, sono il professor Arpa, archeologo e antropologo. Ci troviamo nel deserto tra Assuan e il tempio di Dakka, una zona inconsueta in cui scavare, per conto del Museo Egizio di Torino in collaborazione con il Museo de Il Cairo. Oltre a me, a esplorare questa tomba, ci sono il dottor Mohamed Sa'dun Hany e la dottoressa Alice Arpa; al momento abbiamo percorso appena cinque metri verso l'interno che non presenta iscrizioni né altri segni evidenti. La lavorazione della pietra mi fa pensare che la tomba risalga alla Seconda o alla Terza dinastia, antecedente forse alla piramide di Djoser; è un'opera davvero insolita perché, ripeto, non si notano tracce di figure o scritture relative a chi vi è stato sepolto.

L'uomo si interrompe e ispeziona con attenzione un punto sul muro, ci soffia sopra e, innervosito, dice: – Passami il pennello.

Tende una mano verso i due compagni che, impacciati, si chinano a rovistare nelle borse; alla fine a trovare l'arnese è Alice, ma lo trova nella tasca posteriore dei pantaloni.

Il professore afferra il pennello e spolvera un tratto di parete, soffia di nuovo e spolvera ancora, per poi tossire violentemente in combo con un forte starnuto.

Il suo lavoro porta alla luce, in un'iscrizione appena visibile, un nome egizio.

– Sekhmet.

– La dea leonessa – gli fa eco Alice, – l’ira di Ra.

Il professore avanza senza curarsi troppo degli altri due, che sentono crescere una strana tensione quando l'uomo si ferma di nuovo a osservare la parete.

– Shabun, fai passare Alice, svelto…

Il giovane obbedisce, Alice posa le borse, prende i pennelli e si mette a disposizione del mentore. Quest'ultimo si fa da parte a sua volta e con un cenno le indica di pulire là dove,sotto un sottile strato di polvere, si intravede una chiazza.

– L’arca dell’allenanza.

La donna, non cogliendo al volo lo scherzo, osserva quella che resta solo una macchia; poi coglie il gioco di parole, la citazione e il tentativo del professore di smorzare la tensione.

Trattiene a stento una risata: – Ne è sicuro?

Prima di rispondere, il professore si volta con fare scenico e avanza con voce cavernosa: – …abbastanza…

Anche se non ha ben chiaro cosa stia succedendo, Sa'dun inquadra la chiazza con la cinepresa; non conosce quel simbolo, perciò lo studia per un pò prima di esclamare che “è solo una macchia!". Alle parole del giovane collega, la ragazza e il professore non riescono a trattenere l'ennesimo colpo di risa che rimbalza per tutto il corridoio.

– Abi, qua tutto pulito, no mura cadute, polvere poca.

Il professore torna serio e annuisce, ma non dice niente in risposta alle osservazioni del giovane.

È Alice a ripetere ancora una volta che “l'assenza di iscrizioni è strana”, mentre avanza in coda al gruppo.

– È possibile che con il tempo si siano scrostate tutte, e che quell'unico nome, Sekhmet, sia stato inciso in epoca successiva, da… profanatori di tombe, chissà…

All'improvviso il professore si ferma, ha tutta l'aria di aver udito qualcosa.

– Abi, tutto a posto?

– Sì, figliolo, tutto a posto; mi è sembrato di sentire una donna cantare.

Mohamed ride, pensa si tratti dell'ennesimo scherzo, e lo stesso deve pensare anche Alice che, innescando il loro strambo gioco di battute, rilancia:

– Ci sarà un casscofago ben amplificato più avanti…

– Prendere bene radio qua – dice Mohamed.

– Cose dell’altro mondo! In piramide prende bene l'antenna!

Non si accorgono che il mentore non regge il loro gioco; e intanto l'uomo si addentra nel tunnel fino a scomparire alla loro vista.

Un tonfo sordo, rumori di roccia nel buio, un urlo acuto e accecanti folate di polvere. Le risa cessano immediatamente: un crollo si è palesato a un certo punto nel loro destino e loro sono rimasti, adesso, soli.

Alice e Sa'dun si spingono nel buio della tomba gridando il nome di colui che è per entrambi più di un padre, inconsapevoli che ciascuno di quei passi porta anche loro sempre più vicino alla voragine, alla trappola piazzata dal tempo che tutto logora, persino l’eternità delle pietre.

Precipitano nel buco e giacciono privi di sensi nella camera sottostante.

Il primo a svegliarsi è il professore che, intorpidito, si accorge di avere le gambe incastrate sotto un grosso masso cascato dal soffitto. Non sente propriamente dolore, ma sa che sta per morire: lo sa già da molto tempo. Tantissimo tempo. Il tumore lo ha segnato, quel tumore maledetto ai polmoni gli ha preso pure il cuore e ha tracciato una linea nella sua vita. Sapere di avere una data di scadenza non è semplice neanche per un tipo come lui che di cose ne ha viste; ha visto anche la morte tante volte, ma non si è mai preparati a guardarla in faccia… Adesso quel pugno di tempo che gli resta si è stretto di un altro bel po', e gli impedirà di portare a termine l'unica cosa, l'unica, che conti per lui: accompagnare il figlio adottivo e la nipote su un cammino che li aiuti a essere indipendenti da lui, a essere migliori di lui. Ma la morte è davvero una trebbiatrice o una livella: non sa e non le importa di chi sei e di che cosa che devi fare.

Il professore, freddo e calmo – un freddo e una calma di cui gode perché, nonostante tutto, lui la morte la stava aspettando – trova abbastanza voce per chiamare la nipote e il figlio adottivo.

Per la ragazza il risveglio è terribile, la luce della torcia rimbalza su uno specchio in bronzo e oro e da lì su altri specchi e pareti lucide illuminando tutta la stanza, trasformando il fitto buio della camera in una strana penombra. La ragazza riesce a raggiungere Sa'dun e a svegliarlo; pare che nessuno dei due abbia niente di grave e il primo istinto di entrambi è quello di avvicinarsi al professore. Li la situazione invece è grave.

Cercano di scalare la parete verso il grande foro, almeno quel tanto che basterebbe per chiedere aiuto. I loro sforzi non ottengono altro che ulteriori crolli e fratture nella pietra.

Arriva la disperazione che li prende e li distoglie - non si accorgono - da quanto accade loro intorno, da cosa ci sia lì in quella camera.

Ma il loro mentore ne è cosciente e con le ultime forze, che a dire il vero sembrano ancora tante, urla: – Basta!

I ragazzi si gelano, guardano il professore tossire e ansimare, lo guardano con gli occhi spalancati da un incontrollabile terrore. Cercate di comportarvi da persone di mestiere e non da topi. Cos'è che vi dico sempre? Che cosa bisogna fare in questi casi?

Timidamente, i ragazzi rispondono: – Colui che non sa è come colui che è cieco.

– E allora guardatevi intorno e trovate un’uscita.

L'uomo crolla su sé stesso, implode ormai privo di energia e rantola a ogni respiro.

Alice e Sa'dun si guardano intorno come è stato loro suggerito e vedono una camera piena di scritture e figure di un'epoca dimenticata.

Sa'dun, che tra i due è il più bravo nell'interpretare i geroglifici, inizia la sua lettura dei muri, determinato a non essere più cieco in quei tunnel sepolti. Le scritture coloratissime dicono:

“Qui giace Sekhmet il flagello degli uomini, bevitrice di sangue, occhio di Ra. Quando Ra venne in questo mondo dalle stelle con la sua nave, portò prosperità e conoscenza alla razza umana e così divenne faraone e padre di questa civiltà, ma tra gli umani vi erano persone malvage che non volevano Ra-Navigatore-dalle-stelle come loro sovrano, e così cospirarono per distruggerlo, ma Ra-Navigatore-dalle-stelle, conoscendo i loro cuori, disse a sua figlia Sekhmet-creata-dal-suo-Occhio, creata dalla sua conoscenza, di punire con la morte gli umani, e così lei con ira si nutrì del sangue delle sue vittime e con il suo potere infinito le arse vive. Ma non si fermò a chi aveva colpa, la sua morte arrivò anche agli innocenti. Ra-Navigatore-dalle-stelle capì che sua figlia andava fermata. Tuttavia ormai era troppo potente persino per lui, così offrì del vino alla morte che, scambiandolo per sangue, lo bevve e si addormentò. Ra-Navigatore-dalle-stelle rinchiuse qui sua figlia, insieme a un guardiano che si è sacrificato nel fiume-tempo per amore della sua gente diventando Guardiano-incapace-di-morire”.

Le mura sono cosparse di rituali atti a placare Sekhmet, la bevitrice di sangue; riti da praticare al mattino ai primi raggi di luce e alla sera prima che il sole tramonti. Un tratto di parete racconta come Ra-Navigatore-dalle-stelle lasciò la Terra per affrontare “l’esistenza-che-ingoia-sé-stessa” e non fece mai più ritorno.

Sa'dun nota qualcosa di strano: nonostante il trascorrere dei millenni, tutto nella camera è pulito e in ordine: specchi lucidi, oggetti ben sistemati e, sì, toccati dal tempo, ma intatti e puliti. E quando aprono finalmente gli occhi che erano stati serrati dal torpore della paura, i ragazzi si accorgono di un qualcosa di ancor più strano: sono parole, parole che leggere volano nel vento, parole di una canzone dimenticata in una lingua morta e non più parlata, la canzone di una donna, a malapena udibile, a malapena esistente, che con voce candida e dolce riempie il cuore di un incomprensibile terrore; e come quando il primo pezzo del domino, cadendo, innesca una reazione a catena, si accorgono della presenza, tra le ombre, di una porta piccola, spoglia e murata.

Sull'arcata c'è scritto: "Sekhmet la bevitrice di sangue, non ascoltare la morte”.

Si avvicinano alla porta murata e vi poggiano un orecchio. Tra le tante parole senza senso pronunciate dalla voce candida e perfetta, si distinguono i nomi dei due giovani e poi un “liberatemi!”.

Alice e Sa'dun, all'unisono, come pezzi di domino, schizzano e rovinano per terra portandosi dietro uno scompiglio di anfore e ninnoli ridotti in polvere dall'urto.

Alice e Sa'dun si rimettono in piedi e cercano di estrarre il loro mentore dalla roccia. Urla di dolore e sangue riempiono e sporcano la tomba.

– Basta! Basta! Lasciatemi!

I ragazzi piangono, sfiorano l'isteria. Alice abbraccia lo zio, lo stringe a sé. Sa'dun gli tiene la mano abbandonato alla disperazione.

– Il mio tempo è finito, è inutile che sprechiate la vostra vita per me, ero condannato ancor prima di scendere in questa tomba e riposare tra queste sabbie non è un'eventualità che mi dispiace. Non toccatemi più e cercate di uscire di qui e, se troverete la via, io sono pronto, se farete in fretta sarò ancora qui ad aspettarvi, vivo.

– Non esiste! grida Alice asciugandosi le lacrime. – Sa'dun, adesso gli leghiamo le cinture intorno alle gambe e fermiamo l'emorragia , e poi spostiamo questa fottuta pietra di merda!

Ma quando si mettono all'opera i ragazzi si accorgono che, nonostante la disperazione che li annichiliva si sia adesso trasformata in una incrollabile determinazione,tutto ciò che essi toccano si riduce in polvere.

E, di nuovo, nessuno dei due nota ciò che succede attorno a loro: una mano sbuca dalla penombra, si posiziona sotto il masso e, come se quest'ultimo fosse di polistirolo, lo solleva.

Quando si accorgono del movimento innaturale della grande roccia rispetto alla forza della loro spinta, Alice e Sa'dun si paralizzano per poi girarsi e guardare in volto…

Un uomo, molto basso e molto magro ma con una forza incredibile, regge adesso il masso al di sopra della propria testa. Una statua della libertà con la sua fiaccola. Il volto giovane e bello sorride con una dolcezza scoraggiante, mentre gli occhi nocciola infondono pace, stretti a dar spazio agli zigomi.

I ragazzi non capiscono, sono come tramortiti dallo stupore.

Il piccolo uomo pronuncia una sola parola e indica sé stesso: – Nassor.

Sorridendo, con nient'altro che un paio di mutande addosso, il piccolo uomo sta sopra il loro mentore a gambe spalancate per non calpestarlo.

– Nassor! Nassor! – ripete, ma sobbalza quando si rende conto che il professore, svenuto per il dolore, sta esalando gli ultimi respiri.

Con delicatezza ripone il masso per terra, poco distante, neanche fosse un vassoio vuoto, sempre prestando attenzione a dove poggia i piedi. Le sue movenze sono così buffe che, persino agli occhi di Alice e Sa'dun, tutto quello che è accaduto finora assomiglia a una candid camera fin troppo riuscita ma di cattivo gusto.

Dopo aver osservato l’uomo come per studiarlo dalla testa ai piedi, Nassor schiude le labbra e si esprime in una lingua incomprensibile. Le parole penetrano la mente di chi ascolta e, dopo essere state elaborate dal cervello, si trasformano in una piacevole scossa elettrica; è come ascoltare l’audio di un film straniero in cui, a causa della leggera differita, si sentano sia la voce originale sia quella della traduzione nella propria lingua.

– Stai per morire da molto tempo, lo sapevi? Hai un male che ti sta divorando…

Il professore, privo di sensi, non risponde.

– Dovevi dirlo a tuo figlio e tua nipote e ti dovevi curare, qui ci saresti arrivato comunque, era già scritto. Noi siamo la morte e in ragione di ciò ti dico che la vita è sempre la scelta più giusta e la felicità sempre la ricerca più degna. La morte mette sulla stessa bilancia il faraone e lo schiavo. Perciò la vita è così speciale! Quello che tu dici, io lo capisco. Per questo ci allontanerò da te, donandoti una lunga e sana vita. Ma avrà un costo.

Il piccolo uomo si morse un dito finché non ne uscì il sangue, poi lasciò cadere una goccia sulle labbra del professore. Nel medesimo Come fosse vivo, il sangue entrò nella bocca del mentore, e in quello stesso istante a Sa'dun tornò in mente una parola del suo popolo. Quella parola suona pressappoco così “ghūl”. Alice, invece, si sorprende a pensare a una parola più semplice: “vampiro”.

Nelle stanze echeggia un canto di donna, stavolta forte e distinto. Come il richiamo di una sirena, il canto rilassa le membra dei due cugini, ma al contempo, nella profondità della loro mente, insinua la paura e riesuma pensieri di sangue e orrore.

Quando i pensieri affiorano, Nassor si volta a guardare i giovani pieno di palesato disprezzo e nella sua insolita modalità di comunicazione dice seccato: – Non sono un demone mangiasangue, noi siamo la morte.

Il corpo del professore invece si irrigidisce, le gambe ridotte a poltiglia riprendono la forma originaria, la stempiatura si ricoprì di capelli, i capelli ritrovarono il colore della gioventù, le membra smunte si rinvigorirono e il volto tornò ad assumere le sembianze dei vent'anni.

E gli occhi si spalancarono di colpo.

– Che cosa mi hai fatto?

– Ci siamo allontanati da te. Abbiamo sbagliato?

Il professore si toccò i denti, constatando di essere anche lui influenzato dalla cultura di massa.

– Non sono un demone! Quante volte lo devo ripetere?

– Ma allora cos’è successo? - sussulta Alice, frastornata.

– Mi era parso di capire che l’uomo di questo tempo conoscesse la medicina. Ho usato una medicina, una conoscenza che ci ha allontanato da lui.

Alice guarda lo zio: è identico a suo padre quando era piccola, prima che lui morisse, quando con quell’aria alla Harrison Ford l’aveva presa con sé e avevano intrapreso il loro lungo saggio di avventure.

– Sembra un miracolo – dice la ragazza sbalordita, mentre Sa'dun assiste impietrito alla scena.

– Sì, agli occhi ignoranti sembra magia. Ma è conoscenza.

– Sekhmet è la dea della medicina, non solo della distruzione.

Nassor solleva una mano verso la giovane e le fa cenno di andarci piano, ma la sua espressione, adesso, è tornata gentile com'era stata all'inizio del loro incontro.

– …non pronunciare il suo nome con tanta leggerezza.

E a questo punto tutti si fanno da parte e lasciano che il professore dialoghi con “la fine”.

– Chi sei tu, Nassor?

– Io? Noi siamo la morte!

– C’è qualcun altro dentro di te? Cosa intendi con “morte”?

Nassor si guarda il ventre che sembra scolpito in un legno color caramello e dice: – Ah! Ho capito! Io sono il guardiano dell’Ira di Ra, e lei – indicando la profondità della tomba – lei è la dea, la ferita e la cura: noi siamo la morte.

Accorgendosi di non essere compreso, Nassor sorride imbarazzato ai tre e cerca di spiegarsi meglio. Riassume il mito di Sekhmet, ricorda che lui si è sacrificato per l’umanità e si è rassegnato a vivere in eterno nella solitudine, nel freddo e nella fame grazie alla medicina di Ra, quella stessa medicina che Sekhmet aveva creato: lui e la dea erano legati dalla medesima conoscenza.

– Quindi non berrai il nostro sangue?

Nassor fa una smorfia di disgusto: – L'ultima volta che mi hanno fatto visita, due gentili nobili americani mi hanno offerto una bevanda chiamata “coca cola”, molto buona! Ma se le vostre usanze oggi sono queste, io mi astengo.

Fa una pausa per riflettere. Poi: – Non voglio offendere, quindi… se devo lo faccio! Devo bere?

Scuotono tutti la testa, qualcuno si lascia sfuggire un “no!”. Nassor si sistema seduto davanti a loro e dice: – Coraggio, datemi in cambio la vostra conoscenza, chiacchieriamo, ma iniziate voi a farmi qualche domanda.

– Non sei un vampiro?

A quell'ennesima allusione all'argomento, per placare tanta fanciullesca paura dell’ignoto, Nassor risponde di “no” senza però riuscire a nascondere l'imbarazzo e infine sorride dolcemente.

Allora la ragazza, meno intimidita, ritenta: – Sei un alieno?

Nassor non capisce la domanda ma riceve l’imput mentale e risponde: – No, non sono un uomo delle stelle, ero un giovane costruttore.

Il professore prende la parola: – E più in avanti c’è la dea?

Nassor sorride, risponde di sì, che lei è tutto quello che hanno detto finora, e cioè un demone e un’aliena, capace di distruggere tutto a suo piacimento; ma aggiunge con affetto che è anche detentrice di saggezza e di grandi conoscenze mediche pari a quelle dello stesso Ra. Oltre all’ira, dentro di sé ha una pace infinita e un amore incalcolabile.

Nassor aggiunge che sotto il suo controllo e nello stato dormiente in cui si trova la dea non rappresenta un pericolo per nessuno, anzi, mostra solo il suo lato benigno.

– Quand'è che invece diventa pericolosa?

La figura millenaria sorride.

– Ora che Ra non c’è più e gli dei si sono estinti, sono io a decidere per il destino del mondo, e se il mondo dovesse andare per una via oscura, di distruzione e morte per colpa dell'umanità, vanificando il mio sacrificio e le mie sofferenze, scatenerò la mia amata e la sua furia, ed entrambi saremo “la Morte”.

Pacato e con estrema grazia, Nassor raccoglie le ginocchia in un abbraccio e sorride felice.

– Adesso tocca a me fare le domande e a voi pagare le mie cure con la verità. Cosa è successo nel mondo dopo il 1913?