Nel regno del Senza Tempo

Nel regno del Senza Tempo

[Storia di un bambino solo]

Non puoi vivere una favola

se ti manca il coraggio

 di entrare nel bosco

A. Salvaje

                                                                                      

                                                Notte d’estate, di muri infuocati                                               Stelle cadenti e cuori rubati            

Di sogni sperati, di gatti errabondi                                                                Senza rumore

negli anfratti affondi.

 

Luce solinga per entri il ciel scende                                                                       Smisurata e superba per tutti splende

Un bimbo senza vestiti              

si arrampica in cima                                                               

  ai suoi pensieri infiniti

 

Luna che fai, perché non mi accarezzi                                                                                                    Son triste non vedi, ho il cuore a pezzi.

 

Senza posa vago a cercar pace                                                                                                  Tra mille pericoli che sembran brace

Fortuna le stelle                                   

 nell’oscurità luccicanti                                                                                                                             

 Ma dove son finiti tutti quanti?

C’era una volta una vecchia fortezza sul costone di una falesia. Nella zona semideserta, una fila di piccole finestre teneva lontani i curiosi e gli intrusi. Doveva essere di certo un castello costruito in un periodo di incertezze e sconvolgimenti, dietro il quale si apriva un magnifico bosco.

Si racconta che ivi sopravvivessero strane credenze popolari che rimandavano l’odore di antiche leggende. Nel bosco frondoso realtà e fantasia si mescolavano.

                                                Tutto accadde in una notte di plenilunio di un anno non troppo lontana.

L’aria era calda. Un mormorio dolce e regolare l’attraversava, il canto dei grilli che corteggiavano le femmine.

Era una notte d’amore.                                                                                                         Per Tonjo era un’occasione troppo grande, non poteva rischiare di perderla.           

Ancora sveglio, si affacciò a una delle feritoie. Si sollevò sui talloni il più possibile, e guardò in alto. Il vetro era rotto e la fessura trasudava goccioline dal sapore di lacrime. Le forme che subito gli apparvero erano di un tale prodigio che sembravano uscite dai sogni più belli.                                                                  Eppure erano reali. Illuminavano la volta e in quel modo davano vita a uno spettacolo magico.                                         

Tonjo, come sempre, non vedeva l’ora che facesse buio per ammirare affascinato lo spazio.                                         Quella sera tuttavia c’era un che di diverso: un intenso bagliore, un qualcosa di speciale squarciava l’oscurità.

Una luce carica distingueva il bianco dal nero, il vero dal falso; si faceva strada tra pianeti giganti, congiunzioni e meteore.

Era l’antica guardiana dalle bizzarre influenze.

Il suo più grande potere era quello di far chiarezza mostrando cose invisibili agli occhi.

Tonjo ammirava la bellezza della bianca Signora, e contemplava.                                        

        

Piena e abbondante, nutriva generosa i suoi sogni. Dolce, cullava il fanciullo dallo sguardo sognante che da lei solo si sentiva accudito, da lei solo si sentiva riconosciuto.

Da qualche tempo era diventata il suo centro di gravità permanente. Compagna fedele, restava incollata al cielo e non andava mai via.                                                                                                                         Di un bianco piombo sembrava che le stelle le avessero stampato in viso dei bacioni (lo dice anche Dante).

 

D’improvviso Tonjo sentì vibrare sotto i piedi. Il palazzo tremò, prese a spostarsi e migrare trasportato dal fiume che da sempre attraversava quel luogo.                         La luce bianca guidò Tonjo sul ciglio del mondo.                      

Lungo il tragitto tra le due sponde, uomini con le piume, mostri di fumo e spicchi di pizza con tanto sugo e grandi pezzi di mozzarella filante si stagliarono davanti ai suoi occhi, fluttuanti.

Tonjo aveva un bel daffare dalla sommità della sua nave - che poi era il suo letto, un giaciglio di paglia e stracci - dove era stato catapultato.                         Tra le stelle e il mare muoveva il timone come un vero cyber (il pilota che per gli antichi Greci era a guida di una nave), con due antenne che gli sbucavano dalla testa e gli servivano per “vedere” a colori.                                         Marionetta fuori controllo, solcava il cielo più veloce di una freccia scoccata da un arco (un po’ come quell'immagine che c'è nell’Inferno, al Canto VIII della Divina Commedia). Non voleva che i fantasmi che si agitavano nel suo cuore gli impedissero di raggiungere la magnifica Luna.

Era però come starsene seduto su un cavalluccio di legno: poteva spingerlo quanto voleva e non andava da nessuna parte.

Si affannava allora a cercare un perché. Inutile: nei sogni un senso non c’è.

Le sue non erano che stravaganze colorite in una cornice confusa. Riflettevano l'appartenenza a un mondo che di certo non si faceva carico della sua condizione umana e che Tonjo cercava di rendere più vivibile per sé. Sogni alati e gioiosi gli facevano tremare il cuore almeno per un po’, e nascondevano al contempo sotterranei terrori che premevano sui polmoni dell’innocente fino a sfiorare l’asfissia.

Prima semplici incubi, soltanto incubi; poi, dagli incubi, l’ossessione.

Intanto che gli occhi di Tonjo si bagnavano di lacrime, la luce calda del mattino ricadeva languida sulla facciata della fortezza e faceva risplendere i monumentali gradini di marmo.                                           L’aria era già infuocata quando i fili d’erba, spinti dalla sete, aguzzavano le punte sugli steli appassiti. Tutt’intorno vibrava il profumo di ginestre e rosmarino.

                        

D'improvviso, nel popolato e selvatico bosco cessarono gli schiocchi di animali notturni che si erano intrecciati tutta notte tra i nascondigli di roccia e vegetazione.            

Tonjo era molto stanco e per rilassarsi e coccolarsi si toccò le dolci ciocche inanellate color biondo oro che gli baciavano la fronte. E si addormentò, finalmente.

Il sole era già alto mentre un micio senza nome vagava tra i resti di quella che un tempo era stata la sua casa. Un giorno, di punto in bianco, giorno si era sentito smarrito.

I gesti d’affetto e bontà di chi ogni tanto si prendeva cura di lui e gli dava qualcosa da mettere sotto i denti non bastavano: il micio continuava a scappare e a tornare agli odori che gli erano familiari.

Dove la vita non si era spenta del tutto le macerie ingombravano ancora il borgo, la polvere rendeva l’atmosfera soprannaturale.  

Il regno agreste e contadino dialogava col mondo del clivo. Per secoli li aveva uniti un sentiero nel bosco lussureggiante, chiuso dopo il sisma; nessuno sapeva più se un giorno sarebbe stato riaperto.

 

Dall'isolata dimora arroccata in cima alla collina Tonjo scrutava il paese: un pugno di anime e resti di casette che parevano sostenersi l’un l’altra nel cerchio di campagne, fiumi e boschi. Stradicciole capricciose le rigavano mentre guardavano giù verso il mare, una striscia di cielo nel mezzo.                                                                  Lì, Tonjo aveva vissuto i suoi primi anni giocando tra i ruderi della Magna Grecia.                         Si commuoveva quando tornava con la mente ai ricordi della sua famiglia che fisicamente non esisteva più: rassegnazione, solitudine e, insieme, una sorta di serena malinconia. Pensava che dopotutto era naturale, che nulla durasse, nulla fosse perfetto.                         Un sentimento nostalgico che lo aiutava a vivere allontanando dal cuore la morsa dei problemi.

Si era lasciato alle spalle un padre dedito al gioco: quando vinceva era contento, quando perdeva erano guai. La mamma lavorava senza sosta per cercare di vendere le sue ceramiche ma non bastava e si era vista costretta a dare i fratelli in affidamento, e lui, il più piccolo, lo aveva portato in orfanotrofio.

Qui, in questo preciso punto, si perdeva il futuro di Tonjo.

“L’albergo” era riservato agli orfani e ai minori abbandonati. Ospitava una dozzina di creature di poca età, maschi soprattutto, esseri smarriti e disorientati che non sapevano dove sarebbero andati e, talvolta, neppure da dove venivano. 

Nessuno li voleva, poveri piccini, morti di fame. Piuttosto che vederli patire, li avevano allontanati dai genitori ed erano stati destinati a sentire per sempre la nostalgia di quello che non abitavano.              Bambinetti vivaci, sporchi e foruncolosi erano, per lo più figli di una cattività familiare segnata da esasperato sadismo. Destinati a diventare potenziali “enfants terribles”, più che individui da proteggere erano soggetti ”irregolari” da isolare prima di riportarli alla normalità.

Quello che sarebbe dovuto essere un luogo di speranza per i figli di nessuno parcheggiati a due, tre, quattro anni d'età celava di fatto, con le sue regole opprimenti una realtà molto triste. Preoccupante.

Malvagità e intransigenza ispiravano la rigidissima disciplina che opprimeva l’esistenza di Tonjo e dei suoi compagni, arresi a un futuro che pareva ineluttabilmente buio.  

Tre suore radicalizzate nella moschea dell’Istituto mettevano a dura prova la quotidianità degli sventurati.

Ostaggi delle arpie incattivite dalla vita e da cattivi maestri, i bambini avevano un unico pensiero: “Voglio la mia mamma, perché mamma non mi viene a prendere?”

Le inconsuete figure dal passato oscuro che si aggiravano nel palazzo con dinamiche tanto abili quanto pericolose costringevano i bambini a fare i conti col rischio oltre che con la propria miserabile vita.

Perché cattivi non si nasce, si diventa.  

Nonostante l’estate e le giornate che non finivano mai, era come se le tenebre cedessero il passo solo per un attimo al Sole, per ripensarci poi subito dopo e riprendersi il proprio ruolo da protagonista.

La cosa più bella restava guardare il cielo. L’unica via per fuggire alla tristezza, rirere pure ‘nmiez e guaje. Quel cielo che di giorno, in direzione del mare, era sempre blu. E la sua luce blu penetrava e influenzava pure il colore del mare.

 

 

Di notte, Tonjo e gli altri otto bambini dormivano in una camerata enorme e buia che pigliava luce da un vano del solaio. Le bambine, invece, tre in tutto, occupavano un altro stanzone.

D’inverno c’era un’unica stufa, nella stanza comune, senza alcun accesso all’aria aperta. Per il pericolo che la stufa sprigionasse gas, spesso si evitava di accenderla.

Di giorno c'erano rigidi turni per mangiare, lavarsi e soprattutto per avere il permesso di parlare parlare.

Nati da poco, quegli esseri dalla sorte avversa avevano tutti una gran voglia di correre, urlare, muoversi per il mondo. Ma la loro indole intraprendente, alla continua ricerca di avventure era eversione.              

Puniti, menati con la cinta o con una stampella. Un protocollo collaudato nel tempo.

Poveri ragazzini! Quanto erano disgraziati!

Fuori, nessuno sapeva che come animali selvaggi, privi di sentimenti ed emozioni, erano chiusi in gabbia. L’alternativa era vivere in strada.

A quel mondo opaco si sarebbe potuti sfuggire solo grazie alle premure di una famiglia desiderosa di adozione. Impossibile: quel mondo opaco era ai più sconosciuto.

Tonjo, Antonino per i più piccoli, era un essere comune, non visto e non considerato. Era cresciuto nell’idea di essere un peso. Se sognava qualcosa, era fuggire e non essere mai più di peso a nessuno.

Aveva un'indole timida e riservata. Sotto le lunghe ciglia ricurve aveva due occhietti color cioccolato, con le pagliuzze d’oro che rendevano lo sguardo cangiante e comunicativo, soprattutto quando aveva paura.                  Morbidi capelli gli contornavano il viso; riccioli anarchici che decidevano dove stare in funzione del suo umore. Pelle olivastra segnata da cicatrici, tracce che le battaglie gli avevano lasciato addosso.

A dire della madre era lento in tutto. Ma la sua non era lentezza, semmai di prudenza. Aveva bisogno di tempo e di gradualità per entrare in relazione con il nuovo.

In fondo, come biasimarlo.

L’unica eccezione era Achille. Con lui si sarebbe buttato da una rupe senza paracadute.

Achille era un gatto dall’aspetto assai virile, pelliccia nera e bianca a chiazze, e qualche ciocca di pelo brunita sul muso. Orecchie mozzate, coda spezzata in due punti e, come se non bastasse, una zampa lievemente zoppa. Vittima, anche lui, di piccoli incidenti domestici, le ferite gli conferivano un aspetto temerario al punto da renderlo affascinante agli occhi delle donne che intercettava quando queste erano di ritorno dalla spesa. Riusciva così a intrufolare il tartufo dappertutto inebriandosi di prelibatezze. Quasi sempre finiva per ricevere un dono, il formaggio era il suo preferito.

Nell’orfanotrofio non godeva della stessa benevolenza. Suor Tarcisia starnutiva e gridava tutte le volte che avvertiva il felino aggirarsi nei paraggi.

“Maledetti gatti”, tuonava al primo starnuto, quando Achille era ancora a distanza di sicurezza. Odiava i gatti ma ancor più ne aveva terrore. Al minimo cenno di un secondo starnuto, lei cominciava a tremare.

Come tutti i mici, Achille amava tenere tutto sotto controllo. Chiudeva gli occhi solo per dormire o quando si sentiva completamente al sicuro. Grazie alla sua vista ipersviluppata, era in grado di percepire i pericoli anche quando calava il buio.

Il legame tra Tonjo e Achille era solido e profondo. Parlavano in silenzio, giocavano di nascosto, due corpi e un’anima sempre l’uno accanto all’altro. Soprattutto quando Tonjo doveva andare in bagno.

Da un po’ di tempo Tonjo aveva paura di sedersi lì, in quel “luogo dei grandi”.  Aveva sognato che il gabinetto lo inghiottiva e gli impediva di giocare con Achille. Era questo il motivo per cui faceva di tutto pur di non andare in bagno nonostante i gran mal di pancia.

E la situazione, a un certo punto, cominciò a farsi preoccupante.

Dopo cinque giorni l’amico a quattro zampe capì che il bambino stava male. Tormentato dal pensiero di quel pericolo, reale o immaginario che fosse, Tonjo aveva cominciato a respirare con affanno, apriva e chiudeva a più riprese la bocca.

Il felino iniziò allora a gironzolare intorno al bagno - rimpicciolito, buio, tortuoso, umido, congestionato - e intanto faceva le fusa al bambino, come per richiamarlo, come a dirgli: “Sono qua, non avere paura”. Ma la paura di Tonjo, quella di perdere qualcosa, era più forte del bisogno di andare al bagno.

Achille non demorse e, giorno dopo giorno, si recò in bagno per primo aspettando che Tonjo lo seguisse. Non passò molto perché il bambino si convincesse a condividere quel momento triste e spaventoso con chi amava davvero. Così, a poco a poco, la paura condivisa gli fece meno paura; e il terzo giorno, finalmente, l’angoscia svanì.

Tonjo ne fu così contento che uscì dall’edificio e si mise a correre con il suo amico. 

Era ormai senza fiato, ansimante, quando all’improvviso la vide.

                        Si fermò al riparo di un muro coperto d’edera, stupito di avvertire un formicolio di trepidazione nello stomaco. L’immagine gli risultò familiare perciò si sentì felice.

Si chiamava Nora. Era una ragazzina slanciata, molto molto carina, di appena tre anni più grande di lui. Una moretta cogli occhi grandi, dall’energia travolgente e dal sorriso contagioso.                          Cresciuti nello stesso borgo felice, Tonjo la ricordava persa nelle trattative al mercatino organizzato dai bambini mentre le vecchine, avvolte nello scialle anche in estate, facevano da sentinelle tra un lavoro all’uncinetto o a maglia e uno sguardo all’orizzonte annuendo alle chiacchiere delle amiche. In quel luogo entrambi avevano riposto sogni, dolori, e anche ostacoli insormontabili.                         

Adesso si ritrovavano lì, accanto a una quercia frondosa, una fila di pioppi a segnare l’incontro col cielo.

Tonjo rimase fermo mentre Nora avanzava. Quando fu a due passi da lui, la ragazzina gli sorrise e lo salutò con la mano. Poi proseguì verso la costruzione dietro la quale sparì col suo cesto di verdure.                           

Lui la osservò fino all'ultimo secondo, gli orli che arrivavano alle ginocchia si alzavano e fluttuavano nell’aria.

La sua straordinaria bellezza si contrapponeva, stridente, alla selvatica essenza del Male assoluto di suor Tarcisia.

                        Una bellezza triste, tuttavia, quella della dolce fanciulla. Troppo presto aveva dovuto imparare ad accettare l’impermanenza delle persone care e il fatto che il tempo sarebbe continuato a trascorrere senza di loro.

Tonjo si ritrovò solo in mezzo ad acri di terreno quando un inaspettato vento corse d'improvviso fin dove la sua vista spaziava. Uno stormo di uccelli si levò in volo dai solchi del campo. Laceri fogli di carta svolazzarono nell’aria tiepida e si impigliarono sugli alberi o restarono intrappolati in basso vicino alle radici come detriti sulla spiaggia. Su di essi enormi spazi vuoti, disegni e scarabocchi che segnalavano innumerevoli avversità.             

Il ragazzino aspettò un poco. Poi, col quattrozampe Achille al seguito, tornò nella sua prigione.

 

Nora era entrata nell’eremo all’età di cinque anni, subito dopo la morte della madre. Era stata affidata alle tre assistenti che l'avevano allevata per la propria utilità sviluppando le sue virtù domestiche.

Fu educata ad adeguarsi, a fare ciò che doveva, e il suo viso imparò a non mostrare avversione.

Poiché era cresciuta in una fattoria, possedeva un’intima conoscenza del mondo naturale, nei confronti del quale aveva sviluppato una empatia non comune. Lei stessa si occupava della raccolta dei prodotti nell’orto per poi cucinarli e trasformarli in prelibatezze.

Non le ci era voluto molto per intuire come prepararli alla perfezione: cucinava tutti i giorni per tutti quanti, con amore e spirito di condivisione. Una dodicenne la cui cucina e il cui carisma divennero ben presto - e letteralmente - ipnotici.

Quando cucinava, in Nora si attivava una sorta di scambio di energia col cibo stesso. La sua specialità erano le verdure di stagione: stufate, arrostite, conservate sotto sale, le condiva con una salsa speciale a base di sciroppo estratto dalla corteccia di specifici alberi. Dal gusto leggermente acidulo, l'intingolo aiutava le religiose a non distrarsi dalla preghiera e dalla meditazione.

 

Le istitutrici svolgevano l’attività di “cura” dei bambini come si fa con un lavoro a tutti gli effetti; orari fissi e tutto quanto il resto. E tuttavia non si trattava solo di lavoro: era un qualcosa di ben più misterioso; indecifrabile e impalpabile.                               

                  

Suor Tarcisia, la direttrice, era la più anziana delle consorelle. Aveva la pelle color bruno verdastro, gli occhi infuocati e i capelli argentei raccolti in una grossa crocchia fermata sulla cima del capo. Capitava che alcuni ciuffi si ribellassero e offrissero una visione alquanto bizzarra a quegli angioletti già tanto spauriti. Schiena drittissima e testa eretta, nonostante l’età, il suo incedere insinuava il sospetto che fosse una strega. Tanto brutta da mettere paura solo a guardarla, tutti ne avevano timore. Il solo sguardo bastava a far sentire i piccoli, già insignificanti e privati dell’amore, anche pietrificati. Con la sua presenza minacciosa, mai provavano la sensazione di trovarsi al sicuro.

Come tutte le altre, durante il giorno suor Tarcisia si comportava normalmente. Insieme a loro partecipava a tridui, novene e macumbe. A differenza di tutte le altre, le quali ogni tanto abbozzavano un’incrinatura fra una smorfia e l’altra, suor Tarcisia ignorava completamente i disgraziati: nient’altro che esseri sotto il suo dominio.                                              

Era al calar del sole che manifestava la sua vera essenza per diventare a poco a poco irriconoscibile. Un’ombra dal passato oscuro, tossica come l’ingordigia umana, si allungava sull’edificio. Si udivano gli zoccoli rumorosi salire le scale, vagare tra i corridoi del castello, urtare le porte con tonfo sordo.

Dopo essersi trasformata, la suora preparava magiche pozioni a base di erbe. Chiunque ingerisse anche solo poche gocce dell’intruglio dagli effetti nefasti, rischiava di finire stramazzato al suolo dopo aver corso boccheggiante tutta notte.                      

L’elisir aveva inoltre il potere di rendere chicchessia evanescente e veloce come il vento. Nel silenzio notturno, la megera irrompeva nelle camere dei piccoli ospiti sul cui petto si avventava. Mozzandogli il respiro s’intrufolava nei loro sogni. Li percuoteva con fasci di rami e pietre. Ma la sua specialità erano gli zoccoli di legno, che batteva sulle tenere piante dei piedi. Al risveglio, i malcapitati scoprivano lividi proprio nei punti precisi dove avevano sognato di essere colpiti.                                  

Gli sventurati conoscevano bene la leggenda delle streghe dei boschi frondosi: le streghe amavano le trecce proprio come quelle che la madre superiora si attorcigliava sulla nuca o con cui, a mo’ di segno distintivo, acconciava i capelli delle bambine durante le sue scorribande notturne. Per questo cominciarono a nutrire sospetti sulla sua natura malefica: era lei, la signora oscura.

Qualcuno, addirittura, aveva sentito dire che di notte dormiva nei pozzi della selva. Non perché amasse l’acqua o preferisse il fresco ma perché da lì tirava giù chi passava nelle vicinanze per poi gettarlo dritto nel gorgo dell’inferno.

Accecati dal timore, tra i bambini nessuno si rendeva conto che diventare invisibili sarebbe potuto essere un super potere.

Non restava loro che prendere esempio da uno degli animali più avvezzo ad adattarsi a situazioni precarie e rischiose: il topo. Se volevano sopravvivere, dovevano stare all’erta; sempre.

 

Nell’ambiguo luogo, diventato fulcro religioso della zona, Tonjo cercava di scrollarsi di dosso i brutti pensieri realizzando cerbottane. Era un gran tiratore e quando di nascosto poteva raggiungere il fiume dietro il castello passava le giornate sdraiato sull’argine, il sole a picco sulla testa, a trasformare le canne dalle lunghe foglie e l’apice verde glauco che arrivavano fin nell’acqua. Era ormai così esperto da costruirle con precisione balistica. I dardi erano minuscole pietre aguzze o schegge di legno. Non sarebbero certo stati letali per le piccole prede di cui Tonjo andava a caccia tutto il tempo. Alui bastava stordirle o spaventarle.

Una mattina, mentre sovrappensiero faceva colazione con verdura e radici di amaranto, scorse nel muro del refettorio una strana fessura. Non c’era fino a un attimo prima. Attese di rimaner da solo, si avvicinò cautamente e vi infilò una mano: Tonjo sparì d’improvviso; si volatilizzò nel nulla e dietro di sé lasciò solamente la cerbottana sulla quale aveva inciso il proprio nome.

 

 

Il cielo già rosseggiava. Sotto un albero di ulivo, Tonjo era assopito tra le ginestre selvatiche in fiore sulla spettacolare rupe. Su di essa, in maestosa solitudine, era arroccato il convento che dominava il Golfo:

“Ma quanto è bello il mare” esclamò stupito mentre una lucertola s’infrattava tra i cespugli.

Su un piatto spuntone di roccia il giovinetto si lasciava accarezzare dal sole e osservava il mondo all’aperto colmo di meraviglia.

Era ancora lì, non era andato poi così lontano.

Presto le arpie l’avrebbero cercato, avvertiva un terrore concreto corrergli lungo la schiena. Aveva poco tempo per tagliare la corda; in caso contrario, dopo averlo riacciuffato lo avrebbero riscaraventato in luogo triste.                                                                                                                                                                           

D’impeto fece un balzo in avanti e si aprì un varco tra le spine. Senza stare troppo a pensarci saltò giù sulla strada e si dette a scappare. Doveva allontanarsi dall’alloggio il più in fretta possibile.                                                                                               Ma proprio di lì passò un gendarme un po' rotondetto. Nell’udire un insolito frastuono si piantò a gambe larghe in mezzo alla via e attese di capire di cosa si trattasse. Alla vista del bambino, e certo che stesse fuggendo, lo bloccò risoluto per impedirgli ulteriori disgrazie. Dopo essersi sorbito un interminabile predicozzo, Tonjo fu costretto a salutare il carabiniere che se ne andò per la sua strada, non prima, però, di averlo restituito alle cure della madre superiora.  

“Tonio, mio caro, sarai affamato. Preferisci del latte o pane imburrato?”        

“Forse il pane imburrato? No, no, forse meglio il latte e il pane imburrato”.

L’istitutrice fu presa dall’isteria e cominciò a urlare. Achille saltò fuori dal suo nascondiglio e corse alla volta della suora. Tonjo ebbe appena il tempo di mettersi al sicuro dietro un enorme vaso da fiori.

“Tonio, subito fuori da lì” tuonò la voce di suor Tarcisia.                                                                                               Il ragazzino si trascinò verso di lei e vide i minacciosi artigli oscillargli davanti agli occhi. Le unghie lunghissime lo afferrarono per un orecchio e se lo portarono dietro come un borsone pesante.

“Ahi, Ahiii” gridò il povero disgraziato.

Passarono proprio in mezzo al giardino di cemento dove campeggiava, spaventevole, una statua dell’eroe conquistatore che aveva abitato il castello. Nemico della pace e signore della guerra, questi aveva il braccio teso e una postura di minaccia.

Come punizione per averle rovinato la giornata, suor Tarcisia spedì solerte il ragazzino nel buio del pollaio, dentro una grotta. Un secondo o due e poi un rumore stridente: la grata di ferro si richiuse.

                                                                                        

 

Deluso e affamato, Tonjo vedeva le pareti muoversi l’una contro l’altra.

L’odore della pioggia gli arrivò improvviso alle narici. L’essenza che trasuda dalle piante nei periodi di siccità e, a causa della pioggia, batte sulla terra arsa diffondendo il caratteristico profumo.

Al gelo e in mutande, dopo tanto, tanto tempo, Tonjo si addormentò… mentre qualcuno segretamente gli riparava i piedi dal freddo.

 

Ma torniamo alla notte di cui si narrano i fatti.

Tonjo era sempre stato un pigrone, detestava i cambiamenti, temeva delle perdite e, per dirla tutta, aveva paura di diventare adulto.

Si diceva: “Tanto non andrò mai via da questo posto”. Disteso sul suo giaciglio non faceva che rigirarsi da una parte e dall’altra. “A meno che non trovi qualcuno che mi tiri fuori di qui. Sciocchezze!” giudicò, poco entusiasta.

Ma già non ascoltava più la sua ragione che si addormentò, le tenere dita tra i capelli.

Si svegliò di colpo sul cuscino madido di sudore. Era un luglio caldissimo. Attese un poco per ridestarsi del tutto, saltò giù dalla branda e si diresse verso il piccolo stanzino adibito a bagno. Tutti gli altri ancora dormivano.

Aprì il rubinetto verde rame. C’era qualcosa di strano. Con la coda dell’occhio intravide un mezzo riflesso nello specchietto ovale. Una luce pulsante e circolare si spandeva lungo i bordi del vetro.                                                                              

Tonjo avvertì un insolito cambiamento di temperatura, i colori intorno a lui si fecero più vividi. Poi, un offuscamento. E d’improvviso provò un senso di calma, come se fosse protetto.

Sì, ma da cosa?

Non era un’impressione. La luce persistente stava lì, a fissarlo. Un vortice di energia, uno spirito che si muoveva in senso rotatorio dando vita a una spirale carica d’energia concentrata. L’immagine anomala che lo specchio rimandava riusciva a piegare la luce fino a distorcere l’immagine stessa.

Il ragazzino, imperterrito, fissava la macchia viva aprendo e chiudendo gli occhi mentre il suo cervello iniziava a roteare.

“Sto per morire. Achille, dove sei? Okay, faccio finta di nulla, magari passa”.

Il riflesso si era ormai ridotto a un buco. Il cuore di Tonjo batteva più forte:

“Lo vedo solo io?”

Il vortice si era trasformato in un’apertura che agì prontamente come un canale, un ponte verso un’altra dimensione.

Tonjo si sforzò di non guardare più lo specchio. E invece guardò ancora per una frazione di secondo, solo dopo abbassò gli occhi:

“Adesso è davvero la fine!”

Il portale misterioso, che per chissà quali circostanze si aprì quella notte e solo per pochi fulminei istanti, lo risucchiò.                                                                                               Tonjo fu sbalestrato in un regno fisico, fantastico e tridimensionale.

 

Tra le alte Mura erette a difesa del palazzo, le religiose avevano sempre e categoricamente negato l’esistenza di entità misteriose.

Ma in paese tutti temevano che nella dimora medievale albergasse qualcosa di strano. Pertanto si tenevano a distanza di sicurezza:

“Non si sa mai” dicevano.

Poco ma sicuro: non era, quello, un luogo trasparente e definito. Dal passato affioravano paura, segreti, oscuri sensi di colpi, drammi irrisolti. Come quello di Serafina, la bimba che tanti e tanti anni prima giocava all’interno del castello con una palla che rotolò giù per una scala, lei le corse dietro e sparì nel nulla.

Dietro le porte della roccaforte, dove riecheggiavano i suoni dell’estate, un altro bambino scompariva misteriosamente.

Tra i piccoli ospiti iniziava a crescere la paura: che cosa era accaduto realmente? E perché?

Semmai c’era un futuro, bisognava chiarire tante cose.

I fantasmi non si vedevano. Si vedevano però tracce fugaci della loro presenza come se in qualche modo tornassero a visitare la casa di un tempo.

Nessun dubbio da parte dei poveri orfanelli quando al mattino trovavano gli umili giocattoli di cartapesta fuori posto oppure le bambole di stracci, dagli orribili musi cuciti, tutti abilmente nascosti. Larve silenziose, anime invisibili si aggiravano al chiaro di luna tra i labirinti del convento senza più toccare terra. Qualcosa che c’era ma non c’era al contempo, per esempio il continuo scricchiolare del legno dell’antica dimora, gli inspiegabili e improvvisi lampi di luce, le lenzuola che si alzavano senza correnti d’aria nelle camere dei fanciulli.

Lo stesso Tonjo, quando di nascosto andava a correre sul ballatoio che collegava la torre ai sotterranei, qualche volta aveva l’impressione di un fruscio alle proprie spalle e soffi sulle orecchie insieme a un intenso gelo.

Ma era nelle notti di luna piena che un alone ammantato da una luce sinistra si affacciava alle finestre dell’enorme stanzone e si proiettava sul giardino sottostante come su un fondale tetro e senza alcuna traccia di vita.                       

Memoria immateriale dal respiro rarefatto, sembrava cercasse di prendere forma per insinuare angoscia o per necessità di vendetta.                                                                                     

La fragile ombra incorporea tornava a visitare la vecchia stanza dei giochi.

Intanto che i bambini, presi dal panico, dissimulavano la verità, Nora e Achille si muovevano alla ricerca disperata di Tonjo. Insieme salparono alla volta del luogo che non c’è. 

Nora era venuta a conoscenza, attraverso i racconti di gente onesta e laboriosa, che in quel mondo dove la luce non filtrava e l’oscurità celava misteri, creature che odiavano ciò che non potevano avere mutavano in fameliche streghe. Prima di librarsi in aria e trasformarsi, erano solite cospargersi di unguenti magici, autoprodotti con le erbe aggrappate alla schiena della montagna. 

Insieme alle streghe, al loro fianco, vivevano però anche gli spiriti. In genere questi si nascondevano nel cavo degli alberi, sui cigli dei burroni o tra i sassi. Invisibili all’occhio, animavano la macchia.

Il confine del bosco era in preda a un incantesimo. Chiunque oltrepassasse quel limite veniva privato delle memorie del proprio passato, sostituite da falsi ricordi.

 

Proprio sul margine stregato, una città era comparsa dal nulla. Era stato il fantasma artefice della barriera magica a far piombare anche Tonjo sotto l’influsso di una maledizione.

Intrappolato e congelato nel tempo, era destinato a vivere privato di un lieto fine.

E non mancò molto che il marmocchio iniziò a sentire la nostalgia della sua prigione.

Pensava all’aeromobile che avrebbe dovuto portare il più in alto possibile i suoi sogni. Irretito, la sua mente affaticata dalla durezza della vita non gli lasciava intravvedere alcuna possibilità di spezzare il sortilegio e riunirsi ai suoi simili, perduti nel mondo reale.

 

Nel mentre, una dodicenne cresciuta orfana e reperita dalle arpie sette anni prima, in silenzio organizzava la sua resistenza clandestina.

Al tempo in cui viveva ancora a casa sua, era particolarmente legata a un piatto a base di funghi caramellati. Era stato quello l’ultimo piatto che aveva cucinato alla madre nel letto ammalata. Dopo averlo assaggiato, la mamma era stata invasa da un profondo senso di pace e le aveva detto:

“Sono orgogliosa di te, bimba mia. Me ne vado senza preoccupazioni”.

Il giorno dopo era morta.

 

Con i funghi Nora preparò la pozione dell’oblio. Per un po' riuscì a tenere a bada le ingannatorie figure del convento.

Decisa a ritrovare il bambino, acciuffò il micio per la collottola e, nonostante l’animale si dimenasse, lo portò con sé:

- Non è il momento di essere vili, l’impresa sarà difficile ma è assolutamente necessaria.

Si tuffò nel fiume dietro l’enorme casa; a quel punto Achille, anche se incredulo, la seguì.

Prima di gettarsi in acqua l’aveva vista blandamente arrotolarsi su sé stessa, per poi rivelare un’eccezionale elasticità e sparire inghiottita nel canale.

 

In men che non si dica, l’intraprendente serpente e l’amico quadrupede riemersero e si trascinarono a riva.                                                                                        

Era lei la fata bambina, magica e mutevole, capace di trasformarsi e liberare la potenza dell’energia creativa. 

Tuttavia, dopo l’iniziale entusiasmo, Nora fu sopraffatta dai dubbi. Ricordò che un viaggio del genere era già stato compiuto da altri che mai più erano tornati indietro.

Sulla sabbia morbida che circondava il corso d’acqua avvistarono un qualcosa all’apparenza privo di vita. Con l’aiuto di Achille, Nora tentò di rianimare la strana sagoma. Adagiò le labbra in maniera bene aderente e quelle dall’altra e… stava per soffiare quando Tonjo aprì gli occhi.

Aveva un sorriso un po' ebete, quello che viene quando si ha sonno o si è innamorati. S’illuminò quando la vide. E lei pure. Stava seduta, i sandali sulla sabbia, le gambe raccolte sotto la gonna a fiori. Baciandolo aveva risvegliato la sua memoria persa nel tentativo di fuggire dall’esilio.

Restarono seduti vicini. Lei, le mani sull’orlo della gonna, lo guardò con gli occhi socchiusi. Sorrise.                                                                                      Era più grande della sua età. Era un sogno, un’energia trasformatrice.

 

Intrappolati nel bosco, Nora, Tonjo e il gatto Achille si ritrovarono “tra color che son sospesi” (come quelli dell’Inferno, Canto II VV. 52-54), in uno stato d’intervallo temporale. Un universo parallelo puntellato da rocce ciascuna diversa per forma e dimensioni che svettavano verso il cielo fino a trapassare le nuvole.

Il luogo metafisico incantava ma, benché idilliaco, raccoglieva anime in cerca di riscatto. Le stesse che, nella battaglia tra bene e male, erano state mutate in pietra.                                

La storia, in forma di leggenda, era nota ai locali. Queste tramandate conoscenze rendevano la piccola comitiva ansiosa di sfuggire al sortilegio oscuro.

Con un grande sforzo di concentrazione, Nora intuì che avrebbero potuto eludere l’incantesimo che stregava il confine avvalendosi dell’intelligenza della natura. E aveva appena iniziato a invocare l’aiuto di magici folletti quando arrivarono le tre megere.                                                                                                                                                                                     

A bordo di una barca, sospinte da un vento infernale, pareva avessero combattuto i fulmini. I piccoli occhi rossi erano sepolti sotto i lunghi capelli spettinati che piovevano sulle loro spalle. Soprattutto, avevano un’espressione molto, ma molto cattiva incollata in faccia.

Mollati gli ormeggi, viaggiarono a passi giganti sulla sponda del fiume, battendo i remi sui sassi. I remi si trasformarono in corte bacchette di castagno, estensioni delle loro braccia a concentrare l’energia in un unico punto.

Ecco che il cielo divenne nero come il carbone. Tuoni roboanti e saette rosso vivo squarciarono la volta celeste annunciando un temporale indemoniato, che rovesciò addosso ai malcapitati sferzate di rabbia.

“Adesso sì che vi aggiusto. L’ora di fare i conti è giunta” disse la strega Suor Tarcisia.

La pericolosa creatura, che prendeva sovente la forma di una lepre, si rizzò sulle zampe proprio di fronte ai due giovani. Gonfia d’ira, stava per saltargli addosso quando da un grosso cipresso si levarono altissime lingue di fuoco a squarciare le nuvole.

Il temporale cessò di colpo, la tempesta furiosa scappò.

Il fumo si espanse e si addensò nello stesso istante in cui, dal tronco dell’albero, uscirono parole di sfida. Gli spiriti che vi abitavano vennero fuori e, armati di coraggio e coltellacci ben affilati, si scagliarono contro le interlocutrici infernali per piantar loro le armi nella schiena.

Da una tana al di là di un sentiero di spini e di rovi sfilò un esercito di formiche che s’impegnò a disarmare le streghe.

La volontà nascosta di queste ultime era giustappunto quella di distruggere il potere, proprio della Natura, di comunicare in gruppo; reale magia sulla Terra; si misero perciò a unire le proprie verghe. Canticchiando una formula magica, prima ancora di domare il fuoco lo diressero sull’albero, che incenerì. Antiche pergamene e bauli dal contenuto misterioso voltegiarono allora sui due bambini e sul loro amico baffuto.                                                                                               Le membrane incartapecorite del nemico spietato e inafferrabile, animate da una entità invisibile, presero a menare il povero Achille a suon di frustate, mentre le casse rivestite di cuoio, pure loro abitate da un ente occulto, precipitarono come kamikaze sui due giovincelli che solo per un pelo scansarono l’impatto.

Quando le fiamme si spensero di colpo così com’erano divampate, Nora radunò tutto il coraggio che le riuscì di trovare e armata di cerbottana, quella stessa cerbottana abbandonata da Tonjo, lanciò dardi appuntiti che centrarono in pieno il bersaglio.

Dalle ferite colò copioso il sangue delle streghe e grida acute di dolore si udirono in tutto il bosco incantato.

Insieme, Tonjo, Nora e Achille sfuggirono alle grinfie delle suore arpie e corsero verso il portale che subito, con un fortissimo risucchio, li inghiottì.

Atterrarono nel bosco frondoso, apparentemente morti.

 

 

Il movimento delle gambe le alzava gli orli della gonna.                                                                                        

Ma la fantasia di Tonjo non andò al di là di quell’immagine.  

Era come ripiombato sotto l’influsso della maledizione.

Nora era partita al suo salvataggio attrezzata di una pozione contro l’incantesimo maligno.

Quando lo baciò finalmente col bacio del vero Amore e lo risvegliò dal coma, interruppe per sempre il maleficio.

Tonjo conobbe così la dolce Nora:

“Vorrei che questa notte non finisse mai”, pensò.

 

L’alba cedeva il passo al giorno che avvolgeva la fine dell’oscurità. Un nuovo inizio. Accompagnava il giovane Tonjo di ritorno alla vita.

 

Mentre fuori le cicale se la cantavano, Nora aveva considerato:

“Forse è l’estate o forse è pazzia. Ma so che stanotte ti porterò via” (come in Notte di mezza estate - Bennato, Britti)

Conclusioni

Quanto misterioso e abissale può diventare il legame che tiene unite due persone.

Nora e Tonjo erano state vittime di un sortilegio che loro malgrado aveva innescato la fiamma che li avrebbe spinti a tenersi stretti e a desiderare l’una la vicinanza dell’altro, a sopportare la tensione che nutriva la loro quotidianità, e a dare un senso a ciò che erano in quel luogo che li ospitò ancora per poco.

Nel loro breve tratto di vita insieme, tenendosi stretti, divennero di momento in momento più forti.                                                               

Quando la neve iniziò a cadere e i venti gelidi a soffiare, il fantasma della fanciulla si ritrovò nel castello popolato dai fantasmi di altri fanciulli e fanciulle.

Ma i fantasmi non sono demoni. Anche se dispettosi e vendicativi, non vogliono far paura. Esistono per consentire alla verità di prendere forma. Riflettono l’indicibile, l’ingordigia di chi ha il potere, cercano il riscatto (lo dicono anche Carola Susani e Veronica Galletta: Fantasmi e i luoghi che abitano).

Il vero spettro era stato l’Istituto, che aveva portato i nostri bambini oltre il limite della realtà sopportabile al punto spingergli a varcare il confine del fantastico. Una deriva nell’irrealtà di un mondo da incubo nel quale sopravvivevano i peggiori: i più adatti. I migliori sono morti tutti.