Giannizzera di buona famiglia

Giannizzera di buona famiglia

V. dormiva nuda tutto l'anno, seppellita da un sarcofago di coperte pur di non sentirsi imprigionata dalla biancheria intima. M'immergevo nell'antro rovente per riassemblare i nei sulla sua schiena in costellazioni sempre diverse. Dormire non mi piaceva quanto guardare dormire lei. I capelli ramati sparsi oltre il bordo del cuscino, un'irripetibile tonalità di ruggine che armonizzava con le nebulose di lentiggini che si condensavano e si dissolvevano su una tela bianchissima. Il diafano pallore che da sempre associavo all'aristocrazia dei salotti, il guscio d'uovo che dalle mie parti era l'anticamera della malattia e che avevo imparato a indossare con naturalezza. Almeno, mi piaceva crederlo. In città stavo bene, non che potessi dirmi felice – gioia e soddisfazione non sono soltanto una questione di latitudine –, ma neppure mi limitavo a sopravvivere. Si poteva dire che non avessi un solo minuto di vita vera sulle spalle, prima di consegnarmi a un esilio quasi del tutto volontario, e che aveva tutto il sapore della libertà. No, forse non proprio una completa libertà – chi mai poteva dirsi davvero senza catene? –, ma senza dubbio il suo assaggio più completo. Amavo ballare, le mie articolazioni erano custodi di tutte le mie ambizioni, come stessi camminando su due biglietti per un transatlantico Lloyd sul quale non salii mai.

Per qualche anno, a dispetto dei miei sogni, detonati in tanti cocci di vetro che crepitavano sotto le mie suole, a Ginevra ero stata felice. Ben disposta verso le leggi del cosmo da prima che incontrassi V. Per ogni nota comune del nostro animo, altre sei ci spingevano all'antitesi, e forse era questa il fondamento della nostra sinergia. Entrambe con la tendenza a tenere per noi le comunanze e marcare le opposizioni. Cresciuta da uno zio che ora viveva a Helsinki con un nome diverso, di tre anni più vecchia di me, incommensurabilmente più fortunata. Erano morti entrambi prima della guerra, un focolaio di vaiolo era divampato nei ricchi palazzi del Ringstrasse che cintava la città vecchia di Vienna. Appena prima che il nonno partisse con l'entourage di Massimiliano I nel disastro dell'Impero messicano, per ritornare in patria al seguito delle spoglie reali e coi conti prosciugati. Quando i suoi genitori morirono, il fratello diseredato di suo padre tornò da Helsinki per occuparsi della nipote. La tutela dei beni della piccola gli permise di riprendere la gestione di quasi tutti gli immobili della famiglia, e organizzare le aste che li avrebbero convertiti in liquidi. A differenza di me, V. non ha mai avuto i palmi squarciati dalle stigmate del grand viveur. Ciò che le rendeva sopportabile e lieve lo sforzo d'esistere non poteva essere comprato.

Non con i soldi.

Il mondo, quello che conoscevo e che m'aveva sempre rincorsa col palmo infocato dagli schiaffi, s'era educatamente attestato a debita distanza dalla mia porta di casa. Da tutte le porte di tutte le case che scelsi o dovetti cambiare. E, per qualche tempo, presi un posto comodo in una vita che sembrava finalmente disposta a tener conto dei miei desideri. Per quanto riguardava l'opinione, ero disposta ad aspettare ancora. E lo sono ancora, benché sia troppo vecchia per coltivare una ragionevole speranza che possa essere ascoltata. Ma avevo anche scoperto, d'improvviso, una mattina qualunque all'ufficio telegrafico delle Poste centrali, di non esserlo abbastanza per rinunciare alle coccole delle illusioni. Un passato dissepolto attendeva il momento buono per pestarmi sui batacchi, o forse era semplicemente il caso. Le mentite spoglie che assumeva il destino quando voleva pugnalare alla schiena uno scettico, come lo ero io. Come lo sono ancora.

***

Avevo tenuto il telegramma fuori dai cancelli della mia viva coscienza per tutto il giorno. Il contenuto era stato ampiamente profetizzato da cinque mesi senza mensile e dalle ammonizioni del mio agente di commercio, dagli avvertimenti della banca e dalle ingiunzioni di pagamento inoltrate al mio avvocato dai miei distributori di brandy e rum. Posso quasi percepire la loro soddisfazione nel gustarsi il crepuscolo della mia attività, i soldi sono sempre stati l'unica cosa capace di rendere tollerabili i negozi con una donna. Una donna che commerciava in veleno per soli uomini, come se non bastasse. Ingollai tre dita del mio adorato brandy di Navarra Charles les Mauvais e scesi in strada. Il profumo delle sfornate ancora non inquinava la notte, il cielo notturno stingeva nei riflessi cremisi della brina e del ghiaccio che vestivano il selciato.

Ero sempre riuscita a cavarmela, a raggiungere la liana più distante senza mai sfracellarmi al suolo. Non con una forza d'impatto sufficiente a spezzarmi la schiena. I conti in cui zia Tecla mise la scarsa eredità che mia madre era riuscita a salvare dal suo matrimonio, le gioie e gli appartamenti di Venezia della nonna, la vendita di due cavalli da salto e altre provvidenze. Ma il ventaglio delle possibilità s'era chiuso di scatto, come maneggiato da una signora stizzita. La mia più grande abilità, l'unica universalmente riconosciuta a Ottavia Della Torre, la giannizzera che meglio sarebbe stato se fosse morta insieme al resto della cucciolata, era sempre stata l'elaborazione di piani di fuga. Un talento modellato dall'esistenza molto prima che dalla volontà. Non sedevo mai con la schiena rivolta alla porta e mi sottraevo a qualunque circostanza che non prevedesse almeno due possibilità di soluzione, anche a costo di calarmi da una finestra al quinto, o attraversare chilometri di campi gelati, impantanata nell'umidità lattiginosa che ovattava il buio impenetrabile di una notte senza luci. Quando scappai da casa, mi calai dal sottotetto lungo una canalina di rame. Avevo in tasca solo quello che ero riuscita a grattare dai cassetti, abbastanza per raggiungere Venezia e chiamare la nonna.

La notte non era mai più stata tanto buia, il nero mai più così nero, da quando avevo lasciato la tenuta di Malabranca.

Figlia dei signori di Malabranca e di tutto ciò che sorgeva sulle non più così fertili campagne del suo feudo, come s'ostinava a chiamarlo il vecchio e come pretendeva lo chiamassero i suoi fedeli. Nessuno, che io sappia, osò mai fargli notare che una fedeltà prezzolata non poteva definirsi fedeltà e, anche fosse successo, non sarebbe riuscito a recepirlo. Padrone d'una marca sterile con decine di latifondi affidati a coloni vassallati che avevano pagato col sangue diciture meno degradanti. Villani, paesani, braccianti.

Schiavi.

Padroni al dieci percento scarso delle loro vite, ospiti nella terra che le loro carni avrebbero fertilizzato e che consentiva la sopravvivenza solo alle specie che dalla vita non potevano pretendere nulla. Prigionieri di un circolo impietoso, dentro al quale la loro carne, il loro sudore, la loro fatica, sarebbero sempre stati il nutrimento e la forza di qualcun altro, dal quale non potevano prendere un boccone in più di quanto fosse indispensabile a sopravvivere fino al pasto successivo. Da piccola, rimpiangevo davvero non essere nata fuori dalla cinta, oltre il vialetto di ghiaia che solcava in diagonale il breve declivio che si perdeva nel piattume dei campi. Ma sbagliavo, mentivo senza saperlo. Nessuno avrebbe mai voluto nascere al loro posto. Nemmeno io, nemmeno mia madre, le mie sorelle, che delle loro vite e di quello che erano c'erano morte. Per quanto poveri, soli, afflitti dalle malattie, i Della Torre sarebbero sempre stati i gran signori del paese, padroni della marca anche un secolo e mezzo dopo aver svenduto il titolo di marchesi. In eterno, per tutti coloro che erano e sarebbero nati a Malabranca. E non quel genere di nobiltà che tiene banco nei salotti, commissiona dipinti e pometti.

I tasselli della mia vita uscirono dall'entropia e per la prima volta si disposero in un ordine che persino io potevo capire, come se le poche parole del telegramma fossero riuscite a condensarmi completamente.

Il sangue e il paese tuo ti reclamano. Stop.

***

Raffaele non meditava molto sulle parole. Non ne servivano altre: morto il vecchio, chiusi i rubinetti. Adoravo gli affreschi scorticati sul soffitto che pregavo ogni volta che dovevo spiegare qualcosa a me stessa, e non era che il primo dei divorzi che m'aspettavano.

Era come avessi vissuto tutta la vita solo per trovarmi dov'ero. Non abbastanza lontana dalla campagna che inscatolava quattro lati d'orizzonte e trasformava le persone in prigionieri di una tela di Millet. Non la mia terra, come direbbero molti, solo il primo suolo marchiato dalle mie impronte.

Camminai fino alla serra di Madame Matilde. Avevo tentato di darmi alla botanica, ma tutte le piante esotiche del mondo non potevano sorreggere un'esistenza fatta di fughe, e debiti. La fitologia fu per qualche tempo la mia unica passione, insieme all'odore della pelle viva e di un corpo caldo, il brandy, il ghiaccio, le sigarette, ma fu senz'altro la meno longeva. Così era stato anche per il balletto, sebbene in un modo molto diverso. Gli unici membri della mia famiglia capaci di distinguere il ballo dalla prostituzione erano morti. Prima di Natale, difficile ricordare quale quando si studia in casa, lui trovò un volume sulle piante esotiche che mia madre mi aveva regalato in segreto, e lo bruciò in cortile. Solo un folle o un idiota poteva coltivare qualcosa che non finiva in tavola o, peggio ancora, un abominio velenoso di chissà quale sperduto angolo di tropici che avrebbe intossicato per sempre il terreno in cui era stato piantato.

Il vecchio non si stupì che la sua eccentrica suocera, senza più figlie da traviare – o sepolte – si dedicasse alla perdizione di una nipote. Per quella figlia non c'era mai stata alcuna ragionevole speranza di salvezza, ne era sempre stato certo, da molto prima che cominciassero a spuntare valide ragioni per pensarlo.

Dopo il primo spettacolo, scoprii che il d'Azeglio non riammetteva sgualdrine o ballerine reo confesse. Non fossi scappata, nessuno avrebbe mai più saputo niente di me, come nessuno aveva più saputo niente di Serafina. Nostro padre la fece internare quando aveva quindici anni. Era la prima. Poco dopo nacque Emilia. Il vecchio non prese affatto bene il secondo fallimento. Attese due anni per ritentare. Avevo forse cinque anni quando Emilia prese il morbillo. Non ricordo il suo volto, ma non ho dimenticato una sola nota di quel pianto. Sottile, sommesso, il rantolo dell'asfissia. Pestava la mamma di continuo. Pestava tutti di continuo. Mamma aveva la febbre quando la trascinò per i capelli verso la stalla; le legò le caviglie all'abbeveratoio di Marozia, la sua cavalla preferita, il regalo per il primo parto, e che si rammaricava di non aver abbattuto. Il dottore che visitò il cadavere, dopo un breve abboccamento col padrone, concluse si trattasse di morbillo. In paese erano morti in parecchi. Un paio di mesi dopo seppellimmo Emilia nel cimitero adiacente la nostra decrepita cappella.

Serafina aveva nervi di cristallo e muscoli di pappa d'avena; quell'inverno fu uno dei più rigidi, i temporali d'agosto e le gelate premature di fine settembre mandarono a monte i raccolti e distrussero le vigne. Vennero a prenderla una notte, così che nessuno dei paesani vedesse o sentisse nulla. Non che ne restassero molti, anche tra di loro iniziava a diffondersi l'idea che tanto valesse essere ultimi in un luogo meno ostile alla vita.

La portarono in sanatorio, poi in un convento di carmelitane; forse guardò male qualcuno, e la internarono di nuovo. Morì da qualche parte di meningoencefalite setticemica a seguito di una leucotomia fatta da una mano non esattamente ferma, da un vecchio docente che s'era preso tutta la calma di spiegare la procedura, o da un allievo che necessitava di molta pratica. Cose che capitavano. Nemmeno le procedure più semplici eliminavano la variabile dell'errore. Lo venni a sapere solo anni dopo.

Il vecchio s'era risposato. Convolò a nozze colla nipote ventitreenne di un barone decaduto che aveva dato via il titolo così se l'erano comprato. I figli avevano perso gran parte dei lotti, ma erano riusciti a far sparire le macchine agricole un attimo prima dei pignoramenti e a reinventarsi un'attività di compravendita e noleggio. Avevano bisogno di terra, e il vecchio non vedeva l'ora di sostituire delle braccia lamentose con macchine agricole mute ed efficienti.

Lui aveva smesso di presenziare alla nascita della sua progenie, benché non mancasse mai a quelli delle sue cavalle. Avrebbe continuato all'infinito, se non ci fosse riuscito avrebbe rubato un maschietto a una puerpera, avrebbe lusingato qualche bracciante con la prospettiva di una bocca in meno da sfamare e qualche chilo di farina in più; se c'era una cosa che non mancava ai contadini erano i figli. Più poveri erano più prole generavano, per un sacramento o una componente genetica che non riuscivo a cogliere. Non che gli altri comandamenti si mostrassero a me nella stessa divina limpidezza che abbagliava tutti quanti. Se era vero che un figlio aggiungeva uno stomaco al tavolo, era anche vero che avrebbe presto fornito un paio di braccia in più per riempire la dispensa. Lo spirito con cui si consegnavano così tanti creature a un'insanabile miseria sfuggiva del tutto alla mia comprensione. Molte cose sfuggivano alla mai comprensione. In casa avevamo un grammofono, non proprio in casa, ma in una zona interdetta ai suoi abitanti: lo studio in cui il vecchio si chiudeva per fare i conti o qualunque altra cosa facesse. Prima era nel salotto, ma lo spostò dopo che sentì le note di uno strumento mai sentito che uscivano da una finestra lasciata incautamente aperta. Mamma lo ascoltava a basso volume, con le finestre ben chiuse, e solo quando il vecchio Torquemada era abbastanza lontano. Quella mattina doveva sentirsi diversa. Era riuscita a ordinare un settantotto giri del Motezuma di Vivaldi, non era riuscita a opporre la solita resistenza alla melodia, travolta dal primo ascolto. Mi piace pensare fosse così, non posso saperlo. La porcellana dal disco si disintegrò contro i mattoni della parete e il grammofono finì sotto chiave, nello studio, dove stava la radio che lui solo si riservava il diritto di accendere, di solito sotto Natale, quando anche il giorno si rabbuiava e intorpidiva come la più indigeribile delle notti e niente sembrava più capace di vivere.

Mi mancava la musica. Come potesse mancarmi qualcosa che non conoscevo non posso saperlo ma mi mancava da morire. E il movimento. Come poteva mancare a un naufrago costretto su uno scoglio appena sopra il livello del mare.

Era notte quando scappai. Quando divenni bandita. Bandita per sopravvivenza, e marchio. Prima a Venezia, poi a Milano, in collegio. Nonna non voleva obbligarmi a studiare, mi disse che così sarei stata più vicina ai miei sogni, e che, per raggiungerli, avrei solo dovuto scappare. Era bene che m'abituassi, a scappare. Non poteva avere più ragione. Ebbe la dolcezza e la premura di non dirmi tutta la verità, alcune era meglio apprenderle da sola.

Ero a Venezia quando nacque Raffaele. Mi venne offerta la parte di Giselle, ma venni silurata dopo un linciaggio a tre colonne. Non tornai più a casa. Avevo solo qualche ruolo di ballerina di fila e un paio di sostituzioni della Fata Lilla nel secondo atto de La bella addormentata.

“Insensibile alla poesia e aliena alla femminilità, in perfetto accordo armonico con l'austera e inelegante figura di una donna avversa a se stessa e agli uomini”, questo l'epitaffio scolpito nel lumine scoglio al di sotto del mio nome. Non salii mai più su un palcoscenico. Mi occupai per qualche tempo di trovare costumi di scena e abiti antichi, presi a rimbalzare da un impiego a un altro, spendendo sempre più di quanto guadagnassi. Nonna morì e morì un sacco di altra gente, e io mi trovai a Ginevra, nel letto da cui ero appena uscita.

***

Trascinavo accidiosamente le suole nel velo di brina che vestiva il selciato, due strisce discontinue segnavano il mio tragitto, invece che due ordinate file d'impronte sfalsate. Il passo dell'ubriaco, del corpo trascinato, ma non erano né il brandy né l'insonnia ad appesantirmi le ossa. E neppure il lutto, l'angoscia, la disperazione, influivano in qualche modo sulla gravità. Nemmeno la quieta felicità nata dal sollievo che, ne ero sempre stata sicura avrei provato leggendo il telegramma. Un telegramma immaginato in decine e decine di versioni diverse. Quel particolare così infantile delle mie mutevoli profezie fu l'unico a rivelarsi esatto: la morte sarebbe venuta a visitarmi in groppa a un telegramma. Perlomeno in questo, la mia personale sibilla ci aveva visto chiaro.

Sapevo che l'avrei trovata sveglia. Potendo scegliere, Corinne de Deuchesne – l'origine del nome era un mistero che alimentava con bocconi di dettagli biografici in eterna contraddizione con quelli precedenti, di certo, con quel nome non c'era nata — dormiva nel pomeriggio per svegliarsi intorno a mezzanotte. La conobbi nella cantina di un vigneron di Ambonnay, dove entrambe eravamo andate per bere, discorrere, annusare, giudicare, esaltare, celebrare, dubitare, assaggiare, comprare e nuovamente bere tutto lo champagne possibile. A Ginevra, circa un annetto dopo, mi vendette un appartamento liberty affacciato sulla Promenade du Lac per due soldi, per sollevarmi da un pensiero, come disse lei stessa. Ne aveva parecchi, non solo a Ginevra, e nessun marito. Poteva permettersi di tributarne uno per simpatia. Credevo davvero di conoscerla, ma la verità è che non avevo idea di chi fosse né da dove provenisse.

Partorita parecchi decenni prima di me su un pianeta del tutto diverso, che dava l'idea di non aver mai abbandonato: si comportava e parlava come qualcuno che aveva in tasca un bigliettino contenente un metafisico certificato di totale impunità. Non credo avesse abbastanza soldi per ottenere un simile pezzo di carta, certo però che ne avesse molti. Abbastanza per regalarmi una zolla edificabile della sua indipendenza cosicché io potessi piantarvi i semi della mia. Amavamo tutte e due le piante, sebbene lei potesse discorrere di paleobotanica, fitogeografia e algologia con Alexander von Humboldt e il conte di Bouganville mentre tracannava venefici distillati di contrabbando con Billy the Kid.

Era quello che le signore sposate e imbellettate della sua età ed estrazione si rallegravano di non essere diventate, la donna che indicavano alle figlie come l'emblema del fallimento sociale, una cellula impazzita del perfetto organismo altrimenti infallibile. La sua stenta, ruvida figura si rifrangeva nella mia cornea come una proiezione della donna che, con l'aiuto bilanciato di determinazione e fortuna, avrei potuto raggiungere. Una ricca, elegante, determinata, corrosiva, dirompente sopravvissuta. Una donna, fiera, orgogliosa, decaduta, sopravvissuta a tutti i gradi d'inquisizione, a tutte i tipi di sentenza. Una donna che nessun pettegolezzo poteva annichilire. Una donna che aveva fatto di quei cromosomi un titolo, un'onorificenza bellica. Una donna che nessuno, a dispetto del vigore e della costanza dei suoi sforzi, era riuscito a scorticare della sua identità. Una donna che aveva pagato tutti i prezzi, senza finire a implorare passanti disgusti su un marciapiede ghiacciato. Una donna che poteva dire d'aver vissuto e, nonostante le cicatrici, d'aver vinto. Non l'incontro, non la partita, quelli non li vinceva nessuno. Non v'erano notizie di persone che fossero uscite vive dalla vita.

Ma qualche ripresa, quelle sì, cazzo!

Per il resto, era un'anziana altolocata e tremendamente sola. Col tempo imparai a decrittare i sottintesi sgocciolati dai volti come acqua dai panni stesi. Condannate alla stessa solitudine, ree della stessa colpa, espianti la stessa pena. Come riflettersi in un insopportabile specchio premonitore.

Le chiesi di mostrarmi la serra tropicale, acconsentì con un ringhio. Il vecchio disprezzava tutto ciò che non conosceva, tutto ciò ch'era straniero, i frutti di qualunque suolo non fosse concimato dalla sua merda e irrigato dal sangue dei suoi avi.

«Un regalo?»

«Direi due. Devo tornare a casa, mi piacerebbe portare con me un segno della civiltà. Non credo ne abbiano mai visti. Un addio e un buongiorno. Anzi, due addii. Ma due addii molto diversi.» Risposi mentre carezzavo un petalo liscissimo di passiflora che sbucava dai rampicanti avvinghiati attorno alla griglia di legno. Avevo tolto lo scialle e aperto la pelliccia per il caldo, l'umidità era mantenuta lasciando evaporare lentamente l'acqua nei recipienti posizionati sulle due stufe di maiolica. Un igrometro a condensazione contenuto in un supporto di legno intagliato era posizionato sul pavimento, al di sotto di due termometri a mercurio inchiodati alla parete per il confronto delle temperature. Un altro igrometro, a capello, era posizionato sulla parete opposta. I termometri catturavano sempre la mia attenzione.

«Credo di capirla» soggiunse stirando beffardamente gli angoli della bocca.

«È morta una persona. L'altra è per qualcuno a cui voglio bene, e che devo salutare. Però, ora che ci penso, forse voglio anche dei semi. Qualche anno fa, ho speso un sacco di soldi per acquistare una verbale a caratteri mobili contenente un minuzioso verbale di un processo a una strega arsa sul rogo, in un villaggio della Pomerania. Altrettanto, quasi, spesi per la traduzione. Conteneva molte pagine a tre colonne, miniate, corredate da incisioni. La ragazza, poco più che tredicenne ma in piena fertilità, venne trovata in un bosco, molti mesi dopo la sua scomparsa dal villaggio, ora del tutto cancellato. Un insediamento di poche anime contadine. Cattivi raccolti e infernali gelate a primavera inoltrata spinsero gli abitanti del villaggio a bruciare vive due vedove impiegate nei campi, dopo averle marchiate a fuoco come streghe. Quell'anno, grandinò tutta l'estate e a settembre non ci fu alcun raccolto. Così, tra preghiere e anatemi, il consiglio degli anziani, tra ottobre e febbraio, finì col bruciare vive tutte le femmine del villaggio. Donne, vecchie, persino le poche incinte, neonate e bambine, tutte gettate in un fuoco ormai perpetuo. Persino le vacche che non davano più latte. I pochi abitanti delle campagne e dei boschi vicini allertarono le autorità del Ducato, le quali allertarono i mandatari della corona di Svezia. Quando nel villaggio giunsero i primi ispettori, i pochi uomini rimasti, in preda a una demoniaca frenesia sessuale, simile a quella che acceca le volpi nei pollai, vennero colti mentre si scopavano le scrofe. Seguirono indagini e processi, lo zelo degli inquisitori riuscì a scovare ed epurare dal male decine di streghe. In molti casi erano le famiglie ad allertare il parroco. Per esperienza ho appreso che creare una strega è piuttosto semplice, occorre solo costanza, e una certa determinazione: basta addestrare una bambina alla preghiera, e ripeterle, giorno e notte, ogni qualvolta volge lo sguardo al soffitto o al pavimento, di non essere altro che una sudicia strega. Una ignobile meretrice, che ha saputo guadagnarsi il supplizio eterno dei peccatori incontinenti, frantumata come un neonato sulle rocce e scaraventata nell'infocata tempesta infernale del secondo cerchio. Solo per essersi chiesta ad alta voce perché ogni mese pancia le facesse pale e le sanguinassero le cosce...» ricordo che avrei potuto continuare ma mi fermai. «Stavo pensando a qualcosa di antico. Magari una mandragora, del giusquiamo nero. Stramonio. Qualcosa che sappia parlare a dei sordi.»

Scivolai in un declivio di pensieri, appena fuori dal ciglio della realtà. Lei disse qualcosa che non colsi. Immagino mi abbia chiesto cosa volessi che dicessero per conto mio, perché ricordo bene cosa risposi: «Vorrei che pregassero tutti più forte.»

«I fiori sono creature delicate, tanto più fragili quanto sono lontane dalla loro terra natale. Non credo possa sopravvivere al viaggio.»

«Allora, alla fine, esiste almeno una cosa che posso dire d'aver in comune coi fiori: nessuno dei due sopravviverà al viaggio.»