Viaggio nel Megafòno
La Mabel D. è la nostra casa. Andrea è mio fratello. Io sono Manuel, anche se nessuno, qui, lo sa. Caterina, il nome con cui sono stato generato, mi ronza nelle orecchie come un tafano molesto. Per tutti, qui, io sono Caterina.
Si dice che le case siano fatte di materia inanimata. Un mattone sopra l’altro, legno, ferro, tubature. Ma può accadere che un filo d’erba si infili per sbaglio tra due pietre e venga poi inghiottito dalla malta. La sua esistenza continua a scorrere sotto le mura e si irradia, schiacciata. Niente che vada al di là della chimica: fluido, linfa tra i minerali. Potrebbe essere successo esattamente questo alla Mabel D., una doppia elica di vita si agita nel buio delle sue fondamenta. Le creature con cui sto cercando di mettermi in contatto potrebbero essere strettamente connesse a quella minuscola fibra erbacea che infonde vigore alla casa, figlia di una seconda genesi o di una genesi errata cui si è poi dovuto porre rimedio. Come me. Le loro voci si ramificano dentro i muri e scivolano attraverso gli infissi, i tubi, la canna fumaria; increspano il pavimento. E tuttavia, di loro, nulla si vede.
Ma delle mie deduzioni non mi fido. Non ho studiato abbastanza. Sono ignorante. Da piccolo, chiesi a mamma di togliermi dalla scuola: avevo paura che gli altri bambini avessero i pidocchi. Il sospetto me lo aveva insinuato il pesce giallo, quando mi aveva sussurrato in un orecchio. «Attento ai ragazzini, sono pieni di pulci».
Il pesce giallo non diceva bugie. Muoveva piano la bocca, roteava gli occhi e io percepivo le vibrazioni dei suoni che emetteva. Morì dopo tre anni; dissero che era un bel record per un pesce giallo delicato come quello. Poi venne l’Astronauta e mi disse che era stato il pesce giallo a raccontargli di me.
Dal giorno in cui il pesce mi parlò dei pidocchi, la notte sognavo bruscoli neri pieni di zampe più lunghe del corpo che dal cuscino mi saltavano sulla testa e mi rosicchiavano i capelli. Era per quello – mi convinsi – che avevo i capelli crespi sulla fronte. Mamma mi portò da un dottore; le consigliò di assumere un insegnante a domicilio. Da quel giorno, mentre Andrea usciva ogni giorno per andare a scuola, io aspettavo in salone l’arrivo di un certo professor Thorpe. Suonava il campanello perfettamente sincronizzato con il grande pendolo che batteva le otto e trenta del mattino. Lo sento ancora, il campanello.
«Cominciamo, mia cara», e si strofinava i baffi. Apriva un grosso libro e se lo posava sul palmo di una mano; leggeva a voce così bassa che per sentirlo dovevo stargli a due palmi dal naso. Sapeva di sigaro.
Andrea tornava per pranzo e la sera usciva un’altra volta con gli amici. Non abbiamo che tre anni di differenza, io e Andrea, ma tutti mi hanno sempre preso per un bambino, anche quando ho compiuto ventun anni. Lui, invece, è sempre stato un uomo.
Poco fa ho sorpreso l’Astronauta seduto sulla sedia di vimini. Il sole gli schiariva la faccia nera.
«Un’altra notte», gli ho accarezzato i capelli. L’Astronauta aveva la solita espressione triste e seria. Lui prende le cose così come vengono. Se ne sta lì, fermo, e aspetta.
«Finirà qui», gli ho sussurrato. «Finisce qui. Ci vuole coraggio».
«Meno di quanto pensi».
L’Astronauta ha ragione.
Quando ho tirato il fazzoletto fuori dalla tasca, «Posalo» mi ha ordinato l’Astronauta, «piangere non aiuta».
La situazione, in verità, non è al momento poi così grave. Se sto male è perché da tre giorni non faccio che mangiare Sticky Sticks. Comincio appena alzato e ho la bocca piena di quella roba fino a un attimo prima di coricarmi. Mi sento scoppiare, la faccia tutta tirata e le mani unte. Mi resta sulla lingua un sapore oleoso di patatine da poco, annacquate nell’olio. Totale disgusto per le Sticky Sticks e… per tutto il resto. Mi sono guardato allo specchio e improvvisamente mi sono trovato grasso. La mia pancia sporgeva all’infuori e le cosce erano più grosse del solito e anche la faccia assomigliava a un palloncino teso. Possibile che dopo tre giorni di Sticky Sticks mi fossi ridotto così? Le mie mani, tozze e carnose, semplicemente non erano le mie mani. Io ho dita tanto sottili, tanto ossute… Tutto questo guardarmi così intensamente mi ha fatto cadere in errore – o forse, mi chiedo ora, è solo che il Megafòno mi ha abituato fin troppo a tutt’altra immagine di me? Di solito, comunque, sto bene attento a non trattenermi davanti allo specchio.
Conobbi il Megafòno il giorno in cui Jan Simmons e Allen Brega vennero a farci visita Mabel. Portarono le loro bottiglie piene e il loro fumo e, insieme a Andrea, rollarono spinelli per tutta la notte. Guardavo da dietro la spalla di mio fratello, e a mano a mano le stanze della grande casa cominciavano a diventare buie.
Qualche tempo dopo, Andrea mi raccontò di averli incontrati per strada: la loro auto si era bloccata nella neve e Jan Simmons agitava in aria un accendino per farsi notare. Andrea lesse la targa della California e si fermò subito per caricarli. Allen Brega infilò una mano attraverso il finestrino e fece scivolare una bottiglia di brandy sul sedile anteriore. Tanto bastò a Andrea per portarseli a casa. Le strade erano ghiacciate e la neve era stata spalata male; ci impiegarono più del previsto per raggiungere la Mabel D. Quando aprì la porta, mio fratello teneva un braccio intorno alle spalle di Allen Brega come se si conoscessero da una vita.
«Ti presento Jan e Allen», disse Andrea, spingendomi di là dalla soglia. «Preparaci un caffè».
Andai in cucina senza aver capito chi dei due fosse Jan e chi Allen. Uno aveva la faccia tutta rossa e i capelli scuri cortissimi, orrendi, poiché in certi punti riuscivi a vedergli il rosa pallido della cute. Anche l’altro aveva la pelle scura, ma i capelli gli arrivavano fino alle spalle ed era magrissimo; sprofondava dentro un maglione di lana verde e puzzava a peste di fumo. Questo, capii più tardi, era Allen Brega.
«Di preciso mi chiamo Bregancidnicero», disse lui, quando gli servii il caffè. «Ma visto che per tutti è più facile solo Brega, io gli faccio il piacere».
«Los Angeles?». Posai il vassoio sul tavolo di vimini.
«Di preciso San Francisco. Ci sono i fiori sui balconi». Sorrise e bevve il suo caffè.
Mi accorsi che Jan Simmons fissava me e i miei capelli crespi sulla fronte. Andrea gli passò uno spinello e lui continuò a ridere. Rideva di me? Si misero a parlare delle volpi. Erano venuti nel Wisconsin per cacciare e Andrea disse che nei boschi se ne vedevano un sacco, di quegli animali.
«Ogni tanto prendo una colomba». Andrea sputò un po’ di brandy. «Così… sono buone».
«È vietato cacciare le colombe», disse Jan. Era vero: le colombe erano state usate come simbolo della pace durante la guerra. Andrea lo sapeva benissimo e io non credo proprio che sia mai andato a caccia di colombe, perché non l’ho mai visto tornare a casa con uno di quegli uccelli. Però un fucile ce l’ha sempre avuto. Non so esattamente a cosa gli serva.
«C’è un motel a un paio di chilometri». Andrea si alzò e prese il cappotto. «Vi ci porto».
«Lo abbiamo notato passando». Allen Brega mi salutò con la mano e io mi limitai ad abbassare e sollevare il mento. «Abbiamo lasciato i fucili in macchina. Se ce li fai caricare, domani ci facciamo un giro».
Andrea annuì e capii che intendevano andare a caccia nei boschi. Pensai che fosse pericoloso, per di più con due sconosciuti, ma subito mi vergognai di averlo pensato. Ero rimasto in disparte tutta la notte, come una statua illuminata soltanto dalla luce di un’altra statua, dietro le spalle di mio fratello. Vergogna.
Quando se ne furono andati, salii di sopra per cambiarmi. Mi pareva di udirli ancora bisbigliare l’uno nelle orecchie dell’altro. «Lo sento che gli dice delle cose», la voce di Andrea ad Allen. Mentre ero andato a preparare il caffè, certo che non potessi ascoltare, gli aveva raccontato del pupazzo negro che tengo accanto al mio letto. «Gli chiede se non è una bella giornata, ti rendi conto? Non è vero che è una bella giornata?». Andrea mi faceva il verso. «È inquietante… glielo brucio. Parla più con quel coso che con me».
La Mabel D. è una casa immensa, che porta il nome di nostra madre perché, nel periodo in cui Andrea l’acquistò, si era preso una cotta per lei. Per la mamma. Le stava appiccicato addosso, la seguiva ovunque, con la scusa che era malata e aveva bisogno di cure.
Andrea non è mai stato bravo a mentire.
Quella sera mi accorsi subito che lui, Allen e Jan mi avevano raccontato nient’altro che balle fingendo di non conoscersi e inscenando una ridicola pantomima. Altrettanto in fretta e già da bambino avevo capito che mio fratello passava tutto quel tempo con nostra madre perché gli piaceva guardarla. Si dice che tutti quanti si innamorino almeno una volta nella vita. Conosco lo sguardo dell’innamorato – ed era quello di mio fratello quando stava con mamma – perché io ho trovato tutto l’amore che mi serve nel Megafòno.
Di sopra, l’Astronauta mi aspettava al suo solito posto: sul comò accanto al letto. Mi guardò con i suoi occhi grandi, senza spostare la testa scura. Amo il modo in cui fa roteare le pupille, mi diverte.
«Li ho sentiti», bisbigliò. «Se ne sono andati?».
«Mi sa che tornano. Domani». Mi sfilai le calze e il vestito. Ho abituato l’Astronauta a girare gli occhi dall’altra parte, mentre mi spoglio. «Si è fatto tardi».
«Ti metti a dormire? Non racconti?».
Accesi la luce e notai che l’Astronauta aveva tutta la testa grigia per la polvere. Ci passai una mano sopra. Lo sollevai un poco e gli posai un bacio sulla fronte. Sapeva di umido.
«Si è fatto tardi», e m’infilai sotto le coperte. Ma non ebbi neanche il tempo di spegnere la luce che subito qualcuno bussò alla porta. Misi la vestaglia e andai di sotto.
Era Andrea, naturalmente, solo che con lui c’erano ancora quei due inquietanti sconosciuti.
«Tutto pieno». Andrea li invitò di nuovo a entrare. «Fa un freddo cane».
Jan e Allen avevano recuperato i fucili, li posarono contro il muro. Erano armi possenti, affascinanti e lucide. Mi chiesi se fosse poi così difficile usarle e non riuscii a trattenermi dal toccarne una. Mi chinai e accarezzai la canna gelata.
«Ehilà», scattò Jan. «Non è che ti fai male?».
«Scusa».
«Tornatene di sopra». Andrea usava la sua voce dura e mi indicava il piano superiore. Nel ritirarmi, mi accorsi che stava tirando qualcosa fuori dalla tasca dei jeans, ma non riuscii a distinguere niente di preciso. Avevo fatto un’altra brutta figura, avevo acconsentito a farmi trattare come un deficiente. Come avrei mai potuto ferirmi soltanto sfiorando la canna di un fucile? Che patetica idea avevano di me? Salii in camera mia con le gambe che non mi tenevano e gli occhi stanchi per via dell’ora e del tremendo puzzo di fumo. L’Astronauta era ancora lì e mi rivolse un’espressione triste. Non disse niente. Chiusi la porta e mi coricai
Fu allora che l’Astronauta mi rivelò tutta la verità chinandosi sopra il mio orecchio in un bisbiglio. Mio fratello e quei due sconosciuti spacciavano il puzzo di fumo, avrebbero nascosto il carico in una volpe e io… io ero un tramite, il mezzo che avrebbero usato per occultare la faccenda. La consapevolezza, amara e acre, mi catapultò, per la prima volta, nel Megafòno.
La prima impressione fu che il cielo fosse piccolo. C’era solo quello che riuscivo a vedere immediatamente intorno, come se il resto non esistesse affatto. Su, in alto, c’erano tre mongolfiere dai colori sgargianti e decine di scale si snodavano dal terreno fino a un punto imprecisato dello spazio; la vista non ci arrivava. Sapevo di dover prendere una di quelle grandi piattaforme incrociate in losanghe dritte o in spirali, ma non sapevo quale. Proprio davanti a me, ad altezza fianchi, un cartello diceva: Megafòno. Scelsi un percorso a caso. Di fatto, era indifferente. Avrei poi scoperto che tutte le scale portavano al Mackintosh, il palazzo più alto. Per il resto, la città che tutti chiamano Megafòno è come tutte le altre città del mondo e mi ricorda moltissimo Los Angeles, anche se L.A. l’ho vista solo un paio di volte in televisione.
All’inizio pensavo che anche Jan e Allen, poiché mi avevano detto che venivano dalla California, dovessero conoscere il Megafòno, ma poi mi resi conto che la gente che abita lì è diversa, più luminosa. Le strade sono larghe e fitte di palazzi e uffici, grattacieli d’innumerevoli piani, piccoli chioschi in bilico sui marciapiedi. La cosa più chiara che ricordo della mia prima visita è un cane bianco che dormiva per strada. Un cane enorme con il muso flaccido ma senza bava alla bocca. Russava accanto al carretto di un venditore ambulante di hot dog. Avevo visto la stessa scena a Clintonville.
Quella gita non durò molto, perché Andrea mi chiamò a gran voce, dicendomi che era giunta l’ora del tacchino. Ormai sapevo che “il tacchino” era solo un’altra maniera per tenermi lontano e far sembrare l’intera macchinazione più credibile. Quando scesi da basso, Jan e Allen dormivano sul divano, uno accanto all’altro. Mi domandai come fossero riusciti a sistemarsi in quel modo senza cadere.
Allen Brega aveva cominciato a bucarsi a tredici anni. Gli amici che frequentava allora erano tutti più grandi di qualche anno e la maggior parte si bucava; non era stato difficile cominciare. Quasi tutta la roba gliela procurava un inglese, Owen Du Maurier, che a quei tempi aveva diciannove anni e trafficava come un infervorato del demonio. Nei peggiori quartieri di Milwaukee era il vecchio amico di tutti. A sedici anni, Du Maurier aveva fondato un club, il Pine-Palm-Apple, un nome che soltanto un sedicenne perennemente in viaggio avrebbe potuto scegliere. Per un certo periodo, tutti a Milwaukee parvero interessarsi al club di Du Maurier, poi la maggior parte della gente lo dimenticò all’improvviso, come capita a tutti i grandi successi, e forse fu un bene perché la sua eclissi permise a quelli che restarono di continuare a spassarsela con il fumo e con gli aghi.
Finché Allen aveva frequentato il club, e cioè per dieci anni, si era rifornito al viavai di ragazze che snottavano nel locale, perciò non era andato a puttane neanche una volta. Dopo, aveva cominciato. Dopo, non sempre aveva trovato ciò che cercava, ma era stato difficile perdere l’abitudine di un incontro diverso ogni sera. Con i soldi che avrebbe guadagnato spacciando per Du Maurier avrebbe potuto permettersi di mantenere il ritmo.
Lavorava ancora per Du Maurier, ma non aveva detto né a Andrea né a Jan che l’erba l’avrebbero consegnata a lui. La prima regola di Du Maurier: il nome del destinatario te lo devi ingoiare; tu pronuncialo, e io ti grattugio la lingua sotto i denti.
Andrea doveva aver detto ad Allen di avere bisogno di soldi.
«Ce li ho proprio sull’orlo delle tasche». Allen si era battuto una mano sui jeans.
Di tutto ciò che Andrea mi aveva raccontato riguardo l’incontro fortuito con Allen Brega e Jan Simmons, soltanto una cosa era vera: quella sera Allen fece davvero scivolare una bottiglia di brandy sul sedile anteriore dell’auto.
«Sto aspettando da tre ore» disse Andrea, dopo avere infilato la testa nel finestrino. Mentiva, aveva aspettato appena una decina di minuti, ma faceva freddo. Il fiato gli si congelava a un centimetro dalle labbra e il chewing-gum gli era diventato di pietra. «Salite», disse.
«Ci andiamo adesso?», domandò Jan Simmons, sedendosi dietro.
«No. Se non torno a casa stanotte mia sorella Caterina se ne accorge».
Jan annuì e Allen li informò che la roba era già nel capanno. Poi bevve dalla sua bottiglia e offrì il liquore anche agli altri. Bisognava tenerli tranquilli. Andrea lo era già abbastanza, ma l’atteggiamento di Jan era piuttosto preoccupante. Per tutto il tempo non aveva fatto altro che stringersi il naso tra indice e pollice e dire che gli bruciava e a un certo punto ci aveva tenuto a fargli anche sapere che: «Quando mi brucia è perché sono nervoso».
«Stai calmo e non succede niente». Allen l’aveva guardato in faccia e si era accorto che era piuttosto pallido. Teneva un cappello di lana infilato nella tasca del cappotto. «Mettiti il cappello». Gli aveva tirato il cappello fuori dalla tasca e glielo aveva sistemato sulla testa. «È una passeggiata. Va meglio?».
Jan aveva annuito, ma non era stato il freddo a fargli assumere il colorito di un pupazzo di neve. Tutti l’avevano presa male, come una cosa seria, e invece non era altro che quello: una passeggiata. Quando arrivarono a casa, Andrea gli disse che era riuscito a convincere anche Stefano, il dottore, e che avevano preso appuntamento per il giorno seguente. Dovevano soltanto aspettare e l’attesa chiamava, come dice sempre Andrea, un goccio e un germoglio allo stato gassoso.
Allen e Jan non mi avevano mai incontrato ma, neanche il tempo di varcare la soglia, e già si erano fatti di me l’idea di una creatura piuttosto insulsa, muta, con la mente in balìa di oscure forme di distorsione della realtà. Naturalmente, una donna. D’altra parte, è così che mi ha sempre descritto Andrea. Quando avevo aperto la porta, non l’avevo presa tanto a male. Li avevo invitati a entrare, come ho già detto, e avevo obbedito all’ordine di preparare il caffè. Andrea non aveva fatto altro che guardarmi storto. Allen era stato costretto a dirmi che veniva dalla California, per non smentire la storiella che si era inventato Andrea, ma, in realtà, era da trentadue anni, cioè dal giorno in cui era nato, che viveva a Milwaukee. Suo nonno e, per un po’ anche suo padre, avevano vissuto in California, ma lui non l’aveva neanche mai vista. Quella bugia però avrebbe acceso il mio interesse: Andrea conosce il mio amore per la costa occidentale.
«San Francisco». Allen l’aveva vista in televisione, come me. «Ci sono i fiori sui balconi».
Per tutta la notte avevano bevuto e fumarono germogli allo stato gassoso. L’erba l’aveva procurata Allen. Ne aveva sottratto un po’ al carico prima di nasconderlo nel capanno. Nessuno se ne sarebbe accorto. Questo è quanto successe in realtà quella sera. Come devono avermi visto Andrea e i suoi compagni, come devo essere sembrato smidollato e ingenuo.
La mattina presto arrivò anche Stefano, l’amico dottore. Stefano aveva la faccia quasi blu e gli occhi a forma di goccia. Andrea lo colpì dietro le spalle e lui si risvegliò dal suo stato di semi coscienza. Fu in quel momento che Allen cominciò a pensare che, con quel branco di idioti che si tirava dietro, qualcosa, nonostante si trattasse solo di una banale passeggiata, sarebbe anche potuto andare storto. Ma non andò storto niente. Tranne per il fatto che la volpe in cui avrebbero dovuto nascondere e trasportare il carico, nonostante facesse molto freddo, era andata a male subito: era marcita in cantina, fuori dalla ghiacciaia. Nel sentire l’odore, per almeno cinque minuti Allen Brega disprezzò profondamente quel branco di idioti.
«Stanotte ho il turno», aveva detto Stefano nel capanno. «Quand’è che ci muoviamo?».
Lui non aveva bevuto, né fumato. Sembrava ancora piuttosto agitato e aveva la sua faccia da stimato dottore ancora mezza blu.
«Stai calmo». Andrea si era rollato un’altra canna. «Mi succhio quest’altra e ce ne andiamo».
Allen Brega aveva pensato che Stefano stesse male per quello che aveva visto là dentro. La volpe. Stefano non era uno forte di stomaco, nonostante portasse il camice. Andrea aveva squartato quell’animale con un coltello da macellaio e gli aveva tirato fuori le budella come se stesse semplicemente svuotando un cuscino. Allen aveva preparato un tavolo al centro del capanno proprio per quel lavoro e Andrea l’aveva ridotto a una poltiglia di frattaglie. La volpe puzzava come una pattumiera lasciata al sole per tre giorni.
Stefano si era messo una mano sullo stomaco e si era girato da quell’altra parte.
«Non azzardarti a vomitare», gli aveva intimato Jan, e si era messo ad aiutare Andrea. Una volta svuotato e ripulito l’animale, l’avevano riempito con i sacchetti di erba e poi l’avevano ricucito. Alla fine, tutti dovettero ammettere che Andrea aveva fatto un buon lavoro: la sutura quasi non si vedeva.
«Avresti dovuto farlo tu», aveva detto Andrea puntando un dito sullo stomaco di Stefano. «Dottorino del mio cazzo».
A quel punto, Allen aveva dedotto che non era per la volpe: tra Andrea e Stefano qualcosa andava storto. Una volta Andrea gli aveva raccontato che Stefano, al ritorno da uno dei suoi viaggi in Asia, gli aveva regalato un vaso cinese enorme. Dentro c’erano tutte le lettere che gli aveva scritto e che non aveva avuto il tempo di spedirgli, perché era stato troppo impegnato con il lavoro, lì in Asia. Quel vaso aveva segnato un po’ l’inizio del loro rapporto, una specie di anello di fidanzamento e altre stupidaggini di coppia.
Allen aveva risposto soltanto: «Se a te sta bene…».
Andrea non aveva detto niente. Dopo un po’ Stefano si era sposato. Con una certa Elena.
«Come fai?», aveva chiesto Allen, quando Andrea gli aveva fatto vedere l’invito per il matrimonio. «Come fai? E ci vai anche?».
Andrea aveva annuito. Non l’aveva mai visto così giù.
«Ci devo andare per forza».
«E poi che fate? È finita?».
«No, immagino di no».
«Come, per l’inferno, fai?».
«Dice che è una copertura».
La discussione era finita lì. Ma, dal giorno in cui Stefano si era sposato, lui e Andrea si erano visti sempre meno. Quella volta, nel capanno, Allen capì che le cose erano precipitate. Le poche volte in cui Allen aveva parlato con Stefano, lui gli aveva sempre detto di amare Elena. Questo, Allen non l’aveva mai rivelato a Andrea.
C’è qualcosa di quel giorno… che non riesco a vedere chiaramente; un ricordo troppo lontano o un’immagine troppo vicina che finisce con l’apparire sfocata, una distesa di puntini senza contorno, spruzzi di vernice, gocce esplose. Nel capanno è buio e c’è un angolo pieno mentre il resto è vuoto. Significa che qualcuno è nascosto lì dentro, mentre tutti gli altri sono usciti. E dunque se Allen e Stefano sono fuori, dentro sono rimasti mio fratello e Jan. Ma no, non Jan. Io vedo le mani di Allen Brega che s’infilano nei calzoni di mio fratello, che piano scivolano tra le sue gambe e poi salgono lentamente e che… vedo le sue unghie che graffiano la carne, dietro le spalle. E sento il sapore della sua bocca. Sento il sapore delle sue dita. Avverto dentro la mia bocca i movimenti della lingua di mio fratello. Sono dentro di lui, in qualche modo. E ciò che ci unisce è Allen Brega, le sue carni, i suoi passi lenti sui nostri corpi. È come il flusso elettrico, dove le correnti s’intrecciano, ma qui c’è qualcosa di sbagliato. Nel modo in cui questi due uomini stanno insieme, nella scia lasciata dalle mani, nelle tracce seminate dalle bocche. E l’odore del sangue inasprisce l’aria, la rende acre, ci gioca con gli artigli, la pugnala, la deturpa, la riempie fino al colmo e la soffoca e la sputa fuori e l’abbandona. E loro respirano.
C’è un motivo se un uomo non riesce ad amare. Un meccanismo s’ingolfa, un componente salta; come nel registratore che apre le porte di un altro mondo. Le gocce cadono una a una dal legno, scivolano a terra, si espandono, si fondono. Un serpente rosso li raggiunge mentre sono stretti e accovacciati e li macchia, entrambi, tutti e due, insieme. Cera. Piano piano si solidifica ed entra uno spiraglio e il cigolio dei cardini muove l’aria.
Adesso tutto diviene più chiaro. Un uomo non riesce ad amare. Gli esseri umani non riescono ad amare. Gli uomini e le donne scopano. E Allen Brega e mio fratello stanno scopando. C’è qualcosa di sbagliato. Dappertutto si sente lo strano odore del fumo. Stefano sta piangendo in macchina. Jan è seduto sul sedile posteriore. Allen si riveste, spinge Andrea da parte ed esce dal capanno.
«Non parlare». Andrea lo dice a bassa voce, ma si sente comunque.
«Figlio di puttana».
«Allen…».
«Sei uno stronzo».
«Ti è piaciuto, Al».
Quando raggiunsi l’ospedale del Megafòno mi trovai davanti a un grande edificio grigio e alto, slanciato verso il cielo quasi a curvarmisi sopra. Per strada non c’era nessuno, neanche il grande cane bianco con il venditore di hot dog. Entrai nell’atrio e vi trovai una cabina con un avviso appiccicato al vetro: Oggi le porte sono tutte chiuse. Dietro il vetro sedeva un piccolo uomo con un cappello blu e gli occhi grandi; il riflesso della luce mi diede l’impressione che avesse la faccia un po’ verde.
«Domani per il ritratto», mi disse, senza alzare gli occhi dalla rivista che aveva sulle gambe.
«Sono Manuel Wilkins».
«Lo so, ho controllato». Non l’avevo visto controllare niente. «Il suo appuntamento è per domani, alle venti».
Qualcuno doveva aver preso un appuntamento per me, visto che io non l’avevo fatto. Salutai il portiere e tornai in strada. Quando guardai di nuovo l’edificio mi accorsi che in alto, quasi sulla cima, grandi lettere rosse e illuminate componevano la scritta Mackintosh.
«È lì da sempre», disse l’Astronauta.
La California non si sarebbe spostata. Ma il tempo sarebbe trascorso, io sarei cambiato, di passo in passo e di ora in ora, accatastando un anno sopra l’altro, finché di tutto non sarebbe rimasto neanche il desiderio: la morte o… troppo tardi. Magari si sarebbe estinto, il sogno. E allora?
Come un respiro non esalato, un pezzo di vetro incastrato in gola. Avrebbe fatto male per sempre. Le sere arrivavano prima ogni anno, scendevano piano. Dalla finestra, il bagliore, una luce bianca, un luccichio cadente, infine il buio. E io stavo lì a guardare, con le labbra spaccate. Contro il vetro, una goccia di sangue. Vi avevo poggiato la fronte. Mi ero ferito, ancora. Mi odiavo, ancora.
Alle venti in punto ero nuovamente ai piedi del Mackintosh. Il portiere con la faccia un po’ verde mi fece segno di entrare.
«Può accomodarsi qui».
C’era una fila di sedie in pelle sistemata contro il muro. Sedetti.
«Conosce il pesce giallo?», domandai.
Il portiere sorrise e annuì. «È passato in questi giorni».
«Ha ordinato lui il mio ritratto».
«Già».
«Ma di cosa si tratta, esattamente?».
Il portiere mi guardò stupito. «Un ritratto in faccia».
Non sapevo cosa fosse un ritratto in faccia, ma evitai di chiederglielo perché la naturalezza con cui mi aveva risposto mi faceva presagire una figura terribile. Su un ripiano di vetro c’era qualche rivista. Ne presi una e lessi in copertina: Lo sapevate che…? – p.36. Andai a pagina 36 e trovai l’articolo che cercavo. Diceva: Se vuoi fare qualsiasi tipo di formaggio, eccetto il Limburger, devi avere una licenza di formaggiaio. Per il Limburger è necessaria una licenza master di formaggiaio. Questo succede nel Wisconsin. Chiusi la rivista e la rimisi a posto. Il portiere mi stava chiamando. Mi avvicinai alla cabina.
«Tenga questo». Mi infilò in mano un cartoncino plastificato. C’era scritto qualcosa in una lingua che non conoscevo. «Le servirà per accedere all’ufficio».
«L’ufficio?».
«L’ufficio del dottor Thorpe».
Annuii e misi in tasca la targhetta. Poco dopo, qualcuno mi invitò a entrare. Era una piccola donna che spiava da dietro l’unica porta aperta del piano e indossava un camice bianco.
«Entri, e faccia presto». Non fece il minimo sforzo per nascondere l’agitazione nella voce, eppure in tutto vi era un’aria di segretezza che non mi piaceva. «Il dottore la sta aspettando».
Lo studio sapeva di medicinali. Pensavo che sarei dovuto restare immobile mentre un pittore dipingeva la mia faccia smunta su di una tela, non che qualcuno mi avrebbe tirato un dente. Ma lì c’erano tutti gli attrezzi di un dentista, lettino compreso. Il dottor Thorpe era in bagno a lavarsi le mani. Intravedevo la sua schiena coperta dallo stesso camice della donna che poco prima mi aveva invitato a entrare e sbrigarmi. Si voltò e mi accorsi che non solo aveva lo stesso nome del mio vecchio professore, ma anche i lineamenti erano identici.
Non riuscii a trattenermi dall’esclamare: «Professore!».
Lui mi guardò interdetto. «No, non insegno».
«Lei insegnava inglese e storia…».
«Sciocchezze». Si strofinò le mani e allungò un braccio verso il lettino. «Si accomodi, prego. Non ho mai insegnato inglese».
Mi stesi lentamente e lui mi puntò la luce in mezzo agli occhi.
«Devo essermi confuso».
«Evidentemente».
Aveva cominciato a studiarmi il viso, tirandomi un po’ le guance, un po’ il mento, e schiacciandomi il naso. Sapeva di sigaro, ma non glielo dissi. Notai che aveva una strana espressione; allora domandai: «Qualcosa non va?».
«No. Facciamo in un minuto».
Si chinò sotto il lettino e tirò fuori una valigetta per gli attrezzi. Quando l’aprì, dentro c’erano solo tempere e pennelli. Mi sentii rilassato. Il dottore cominciò a mischiare i colori.
«Cos’è un ritratto in faccia?».
Il dottor Thorpe scosse la testa infastidito e accostò un pennello al mio viso. Cominciò a lavorare sulla mia faccia. Tutto ciò che sentii fu il freddo delle tempere e il solletico del pennello. Quand’ebbe finito, il dottore si alzò e chiuse la valigetta.
«Può andare».
«Non le devo niente?».
Rise. «Sta scherzando? Ha pagato il pesce giallo. Arrivederci».
Appena uscito mi toccai il viso, ma non notai niente di appiccicoso e viscido. Le dita erano perfettamente pulite. Solo, la pelle della faccia sembrava più tesa e fredda.
Qui con me c’è la noia. La vita mossa unicamente dal desiderio che finisca un altro giorno. Io e l’Astronauta ci siamo già salutati. Stanotte torno nel Megafòno e ritiro il mio ritratto. Il mio rappezzo, la mia seconda genesi. Quando rientrerò alla Mabel, suppongo, sarò finalmente riconoscibile.
In morte.