Più che normale
Alla fine fu Stefano a raccontarmi quello che era successo poco prima che lui e Elena venissero a pranzo da noi. Mentre parlava – a quel punto io e lui eravamo rimasti soli sul retro; Andrew, mio fratello, aveva provveduto a sparecchiare; Elena se n’era tornata a casa da sola – calcolai che dovessero essere passate più o meno dieci ore. Dieci ore da quando Elena lo aveva colpito con il pendolo in salone. Con un pendolo. Dopo dieci ore, Stefano aveva la spalla destra completamente viola. Passò un dito sopra il livido e una scarica gli divampò nel braccio.
«Pezzo di stronzo», aveva gridato Elena, con i capelli ancora tutti bagnati. «Ma che vita del…». Si era bloccata e gli aveva tirato addosso un paio di mutandine azzurre. Orribili. «Maledetto cazzo».
Mentre guardava Elena pestare e prendere a calci le mutandine, Stefano aveva pensato che doveva essere stata la puttana messicana di tre notti prima: lei; lei doveva avergliele infilate nella tasca della giacca; lui non se ne era accorto e se ne era andato in giro per tre giorni con… Gli venne da ridere.
«Elena, tanto lo sai».
In effetti lo sapeva, e lui sapeva che lei lo sapeva. Non che ne avessero mai parlato fuori da accenni avvelenati e sottintesi, di quella comodità. Lei andava con i suoi e lui con le sue… amiche, prostitute, quello che fossero.
«Ma non ti sembrava abbastanza evidente, direi». Elena si era voltata con la faccia deformata. «Quindi ti fai trovare con… Ah, merda. Vaffanculo».
Era stato allora – un precisissimo istante ben scandito da un inverosimile urlo di frustrazione –che la mancanza di parole l’aveva portata ai fatti. Elena aveva afferrato la prima cosa che le era capitata sotto le dita contratte e gliel’aveva buttata contro. Stefano le concedeva ancora il beneficio del dubbio: forse, nella foga di compiere un gesto maestoso, non si era neppure accorta di avere afferrato quel mostro di pendolo. L’aveva tirato via dal muro e gliel’aveva scaraventato addosso. Avrebbe potuto scommettere di averla sentita ringhiare. L’orologio gli aveva sfiorato un orecchio, gli era rimbalzato sulla spalla ed era andato a sfracellarsi – i legni da una parte, il disco di vetro da un’altra, le rotelle un po’ per i fatti loro – tra il tavolino della colazione e il televisore. Il loro angolo d’incanto.
«Cristo!», aveva gridato Elena. «Gesù… Steve. Ti stavo ammazzando».
Gli era corsa incontro e gli aveva sfiorato la spalla. Dolore lancinante. Stefano aveva gridato e per poco non si era messo a piangere. Aveva dovuto stringere i denti per non gridare ancora a squarciagola o – perché no – mangiarsi viva quella stronza che solo per la magnanimità del caso non gli aveva amputato un braccio. Adesso se ne stava lì, appesa su sé stessa come un fantoccio, mortificata e… patetica.
«Sto benissimo», era riuscito a sibilare. «Finalmente hai rotto quel fottutissimo orologio. Preparami uno scotch».
Elena non aveva detto niente. L’aveva sentita tirare su col naso.
Ripensando a quella ridicola messinscena, Stefano avrebbe poi provato un impulso di odio e raccapriccio e nausea per la propria esistenza. Si sarebbe tirato addosso le lenzuola fin sotto la spalla su cui giaceva coricato e, chiuso nel bozzolo come un verme, avrebbe cercato di dormire. Andrew, al suo fianco, già russava. Che cosa avrebbe pensato Elena, sua moglie, se avesse visto quel quadretto tanto romantico di lui che dormiva al fianco di Andrew? Probabilmente, si dice Stefano dentro al bozzolo, la stessa cosa che ha pensato lui quando Elena gli ha confessato, sgranandogli a un palmo dal naso i suoi orrendi occhioni sognanti: «L’altra sera, a cena, ho scoperto che… Kate mi piace». Brutta stronza.
Il sentimento è ricambiato, anche se il tempo mi avrebbe rivelato la vera natura dell’interesse di Elena nei miei confronti. E, comunque sia, quello che provo io per lei si mantiene tuttora stabile, nonostante io abbia ormai, al posto della spina dorsale, un cordolo contorto di rabbia e tristezza, che certe notti mi scaraventa nell’angoscia. Elena ha un brutto carattere, non è una di quelle accoglienti donne che sanno controllare le reazioni e incassare i colpi per vendicarsi con maggiore oculatezza – e maggior profitto – in un momento successivo. Spesso mi sono domandata come abbia potuto quella coppia sopravvivere anche solo per due giorni di fila sotto il fuoco di mitraglia di Elena.
La loro unione – l’amore di Elena per Stefano e l’amore di Stefano per Elena – resistette qualche anno e si polverizzò in pochi mesi. Nessuno se ne meravigliò, io meno di tutti. Il fatto è che, come ho detto, Elena non tratteneva nulla, espelleva di tutto al minimo prurito, al primo accenno di fastidio. Questo fu, in sostanza, ciò che accadde il giorno in cui colpì Stefano con quell’orologio: un’esplosione. Ma credo che un colpo l’abbia incassato: la questione dello “scambio”. Credo che lei, in fin dei conti, sapesse; credo che – nonostante il tentativo, accuratamente studiato da suo marito e da mio fratello, di tenerla all’oscuro di loro – lei avesse intuito. E sono certa che, se il giorno dei preparativi Stefano avesse osservato il suo viso, i suoi occhi con maggiore attenzione – come poi feci io – perlomeno l’ombra, anche solo l’ombra del dubbio lo avrebbe illuminato: sua moglie sapeva.
Ma Stefano, quella mattina, era troppo impegnato con le sue scarpe, la sua giacca, i suoi capelli e quant’altro di suo avesse addosso. Elena svuotò il posacenere e si accese un’altra sigaretta. Riflesso nello specchio, Stefano cercava al culmine della disperazione di fare il nodo a una cravatta semplicemente ridicola.
«Toglietela», gli gridò dal salone. «Sei un pagliaccio così».
Stefano sbuffò; decise poi di fingere di non aver sentito.
«Perché così presto, Steve? Non è un po’ troppo presto?».
Ho già detto che avrebbero dovuto pranzare qui da noi, a casa mia e di mio fratello, ma si stavano preparando alle cinque del mattino.
«Non lo so», rispose Stefano, continuando a intricare e districare la cravatta. Era diventato quasi blu. «Andrew mi ha chiesto di arrivare un po’ prima. Ti vuoi vestire?».
«Un po’ prima? Un po’. Non mi pare che questo sia un po’… Lascia stare». Elena si alzò dalla poltrona e spense la sigaretta. «Ah, no, ecco…», si rimise a sedere. «Non ti preoccupare, tesoro. Scommetto che quando sarò pronta, anche se comincio a vestirmi tra venti minuti, tu starai ancora giocando con quella cazzo di cravatta». Si rialzò dopo aver fumato un’altra sigaretta. Andò in bagno e si lasciò scivolare la vestaglia alle caviglie. Aveva una cera orribile. «Aspettiamo che viene mamma».
«Ma Cristo!».
«Che vuoi? Me l’hai fatta chiamare alle cinque del mattino. Dovresti ringraziarla anche se venisse fra un’ora». Poi, a bassa voce: «Pezzo di bastardo». Si strappò due ciglia rovinate.
Qualcuno avrebbe dovuto badare a Luke mentre erano via, Elena non si era mai sentita di lasciarlo solo e, nonostante Stefano lo sapesse, le metteva fretta, anticipava i tempi, lo faceva apposta. Rimuginando su quel che sapeva o non sapeva Stefano, Elena finse di non sapere perché suo marito volesse presentarsi con tanto anticipo a casa mia e di Andrew.
Elena allungò la testa fuori dal bagno per richiamare il cane. «Luke, tesoro, vieni qua».
Luke stava dormendo in cucina. Se ne accorse perché, quando la raggiunse, aveva gli occhi socchiusi e cisposi e l’espressione intontita. Le cinque del mattino, in quella casa dalle dinamiche immobili, erano un orario assurdo anche per un terranova. Un terranova di undici anni. Elena accarezzò la testa del cane e lui le si accucciò accanto, spruzzandole il dorso della mano con uno starnuto.
«Bravo, tesorone. Te-so-rone-one-one».
«Sì», gracchiò Stefano, riuscendo finalmente a sistemare la cravatta.
Nell’udire la sua voce, Luke scattò in piedi e andò da lui scodinzolando. Stefano provò a respingerlo allungando una gamba, ma Luke non si fece intimorire, gli saltò addosso e lo fece sbattere contro lo specchio.
«Merda», mormorò Stefano, con la voce di un vecchio di novant’anni.
Elena lo odiò. Si affacciò a spiare e si accorse che Luke aveva imbrattato di bava la mano di Stefano. Una lunga goccia elastica gli penzolava dal palmo.
«Ritirati questo stronzo». Con la mano pulita, Stefano afferrò il muso del cane e cercò di ricacciargli in bocca la bava che aveva sull’altra mano. Elena catalogò quella cazzata come il disperato tentativo da parte di suo marito di non far colare la goccia elastica sul pavimento. Richiamò Luke, concentrandosi per far pervenire a Stefano una vagonata di disprezzo.
«Non possiamo aspettare tua madre». Stefano strappò dal rotolo un lungo pezzo di carta e si pulì la mano. «Lasciamo le chiavi sul davanzale».
«Sei matto».
«Elena… Ti supplico, Elena, ti supplico… Stai ricominciando…».
«Quella che ho appena visto è una scena da vero demente».
Stefano si limitò a una stretta di spalle. «Il tuo cane ingoia quintali di bava al giorno. Un filo in più non cambia niente. Vedi di vestirti…».
«Sono già vestita». Elena uscì dal bagno e gettò un asciugamano nel cesto. «Ma aspettiamo mia madre».
Stefano si lasciò cadere sul divano, slacciò la sua cravatta da pagliaccio e la scaraventò sul tavolo.
«Bravo. Togliti quella merda».