Ti ascolto

Ti ascolto

«… e questo è il mio problema, non saprei cosa rispondergli.»

Poi è rimasta in silenzio, a fissare il vuoto.

«D’altra parte, io non sono una persona ambiente, vivo normalmente la mia vita e… come dire… vivi e l’ascia vive… non riesco a spiegarmi, lo so che il problema è proprio questo.»

Dalla finestra le urla del vicino di sotto, sono in quattro, il padre, la madre, il figlio e il nonno, il cane e sono cinque. Andavo concentrandomi sui particolari truci dell’esistenza per una possibile scappatoia allo scoppio di una risata. Vada per la persona ambiente, «ma cosa significa quando dici vivi e lascia…»

«Sì, è un modo di dire, vivi e di conseguenza l’ascia vive.»

«Ma quale ascia,scusa?»

«Boh, è un modo di dire… quando vivi tranquillamente la tua vita senza giudicare nessuno, allora non devi temere di essere accettata o meno, e quindi deponi l'ascia e non sei in guerra con nessuno.»

Il concetto non faceva una piega e se lo scopo era la sua serenità, beh… lunga vita all’ascia!

«Il resto?»

«Ma… un gl’e l’avevo dato l’ultima volta che ci siam visti dal vivo?»

«Cosa?»

«Il resto! Mi mancava dieci euro epperò gliel’ho portate, un si ricorda?»

«Ah, è vero!» e ho tralasciato il suo cogliere fischi per fiaschi. Tutta la sua esistenza, d’altronde, è stata un lungo, inconsapevole, fraintendimento.

È importante ascoltare il desiderio dell'altro, mi piego alla massima professionale.

«Ma a casa come va?»

«Ora un po' meglio, stare soli ci ha aiutati a capire chi siamo. In tutti questi anni non ci avevo fatto caso… però altri argomenti… ahimè… sono tofu… un se ne parlava prima e un se ne parla ora.»

«Intendi gli argomenti un po' imbarazzanti, diciamo taboo…»

«Sì, proprio quelli, eh scusi… intendevo dire tofù… sì… non cè modo di risolverli. Restano sospesi e non ci si fa di capirne il motivo.»

Ho appena terminato la videochiamata con un sorriso largo e rassicurante, mentre dalla finestra spalancata un fitto rosario di luce cantilenante di vento e silenzio scivolava addosso ai fogli, allungando ombre sui muri. Me lo posso permettere, di tenere la finestra aperta. Tanto è abissale il silenzio anche nell’ora di punta. Chiusa la schermata di Skype, mi sono alzato per dirigermi al frigorifero. Non ho voglia di pranzare in questi giorni di clausura forzata. Di solito, dopo una mattinata di colloqui e consulenze — scusate, non mi sono presentato: mi chiamo Marco, in realtà non è il mio vero nome, ma devo celare la mia identità dietro questo pseudonimo perché ne andrebbe della mia reputazione e presto capirete il perché — insomma, dopo una giornata di ascolto e studio e via dicendo — sono uno psicoanalista ma da alcuni anni conduco laboratori di scrittura creativa presso scuole e strutture residenziali — ci vorrebbe un buon pranzo, certo, ma… oh… mi squilla il telefono, un attimo e torno da voi.

«Ciao… sì… insomma… beh, dovrei essere io quello che incoraggia la gente… cosa? Oddio, no, nulla… stavo preparando il pranzo… no… no… il romanzo… non è cosa… non ho la concentrazione adatta… sì… d’accordo ma… ma… che significa che io sono uno psicoanalista… è come dire che un dentista per il solo fatto di esserlo non dovrebbe mai soffrire il mal… senti, Clelia, per cosa mi hai chiamato? Non sono nervoso sei tu che… oddio davvero… io dovrei essere uno… ascolta, Clelia, non è momento… ti chiamo dopo… sì… non ho nessun motivo di essere arrabbiato con te… scusami… mi chiamano su Skype, è un mio paziente… sì… ci sentiamo dopo…»

È Clelia, la mia ex fidanzata. Cioè, a dire il vero, secondo lei stiamo ancora insieme. Mi chiama per farmi incazzare, per nessun altro motivo, oppure per assicurarsi che non ci sia lui. Ehm… sì, insomma, la nostra relazione è finita quando ha scoperto che stavo con un altro… e quell’altro se ne è andato quando ha scoperto che Clelia non era mia cugina ma la mia ragazza… anche lui, per la cronaca, ecco, appunto… messaggio, continua a volermi sentire tutti i giorni o quasi. Non lo so cosa state pensando, ma io in questi giorni ho come l’impressione che la mia vita stia andando, anzi, sia andata a rotoli. Ecco, prima i miei vuoti li colmavo così, o con Clelia o con Andrea. Adesso mi rendo conto di quanto effettivamente abbia sopravvalutato la loro presenza, e forse sarebbe stato peggio a stare insieme tutto il giorno in casa fingendo un affetto reciproco. Sia come sia, siamo sempre soli.

Via, mi preparo un pranzo veloce. Non ve ne andate. Faccio subito. Il tempo di far bollire l’acqua.

Ecco, il mio piatto preferito, spaghetti allo scoglio. Insomma, vi racconto il motivo per cui ho dovuto usare il nome finto perché non ne andasse della mia onorabilità. Ha ragione Clelia: come è possibile che proprio a me possa capitare un fatto del genere? d’impazzire.

Allora, vi dico la verità, ma non giudicatemi e non lasciatemi proprio ora, a metà racconto, perché pensate che vi stia prendendo in giro, lo so che non ci crederete mai. E che potreste scambiare queste frasi per un'inutile captatio benevolentiae, o come si dice… vi giuro che è tutto vero e vi prego di non fare come Clelia e Andrea che mi hanno lasciato da solo perché convinti che fossi ammattito.

D’accordo, se proprio devo dirvi la verità, non sono uno psicoanalista. In questo momento sono ricoverato in una struttura residenziale, ma vi giuro, non sono folle, e soprattutto non sono una persona cattiva.

Ma partiamo dall’inizio. Io sono uno scrittore, questa è la verità. Beh, certo, direte, oggi tutti scrivono, tutti pubblicano, ma nessuno, tranne in due o tre casi, vende o è abbastanza noto da potersi permettere di vivere di sola scrittura, io sono tra questi, è vero, scrivo tantissimo, pubblico poco, e non vendo quasi nulla. La scrittura mi ha salvato, certo, ma sono qui proprio per colpa della scrittura… anzi… di un personaggio

Ma andiamo con ordine: stavo scrivendo un romanzo in cui raccontavo la storia di un padre di famiglia che a un certo punto scopre di essersi ammalato e sta per morire e per di più pensa di non essere amato da sua moglie, dai suoi figli, e in generale da alcun essere umano fino a allora incontrato e conosciuto, ma questo lo pensa lui, perché mica è vero, anzi! È una vera e propria tragedia, la sua scomparsa da casa. Ma, per fortuna, e per sua disgrazia ovviamente, in capo a due giorni viene ritrovato sano e salvo e riportato a casa. E qui il colpo di scena. Vi spiego: tutte le volte che arrivavo al punto in cui ritorna a casa e riprende la nuova vita, proprio nel punto in cui si chiude il capitolo, zac. Il giorno dopo ritrovavo tutto il finale del capitolo cambiato. Ho anche installato la videocamera alle mie spalle dove si vedeva chiaro e nitido quello che andavo scrivendo. Sulle prime ho pensato fosse uno scherzo, magari Clelia o Andrea, o vattelapesca chi — mi ero convinto persino… il mio manutentore di pc — fosse entrato da remoto, per sbaglio o apposta, nel mio pc e avesse riscritto il capitolo. Va da sé che ho sbroccato con tutti, con gli operatori della struttura, con il mio compagno di camera, con Clelia, Andrea e infine con il manutentore. Tutti hanno negato additando la mia folle visionarietà come la causa di tutto. E al culmine della mia crisi — cioè, mettetevi nei miei panni: non poter procedere con la stesura del proprio romanzo perché qualcuno te lo impedisce e quel qualcuno non sei tu — insomma, al culmine della rabbia ho scagliato il pc contro il muro, però non si è rotto, miracolo! Comunque non è nemmeno per questo motivo che mi hanno, diciamo pure, rinchiuso… e però sono sicuro di aver capito più cose di me in quel periodo di reclusione forzata che in tutta la mia vita precedente… no, e la causa non è stata la mia reazione furiosa all’ennesima scoperta che il capitolo era cambiato, no: la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il personaggio del mio romanzo. Sì. Lui.

Mi ha spiegato tutto. Non gli piaceva quel capitolo perché l'idea di non poter più uscire di casa per via della sua malattia lo faceva star peggio e lo so che state sorridendo e pensate che sono un povero pazzo, e sia! ma questo non è tutto. Il personaggio è voluto uscire dal romanzo. Era qui con me. E non è la prima volta che un personaggio esce dalla pagina scritta per intrufolarsi nella vita reale, diciamo, dello scrittore che lo ha ideato.

«Vorrei vedere te» ha balbettato sul punto di piangere per l’esasperazione, «costretto a non uscire di casa per il rischio di morire e intanto vivere come morti.»

«Ma non è per sempre.»

«Tu lo sai come si sta in un romanzo, dentro le regole e la storia che altri ti hanno imposto?»

«No… però, per colpa tua ora sono dentro anche io. Dopodomani mi dimettono. Ma se sapessero che in questo momento sto parlando con te…»

Così, per intere giornate finché non mi ha convinto a seguirlo. E lì è iniziato il delirio. Cioè… mi lamentavo di essere stato, per così dire, rinchiuso, ma non avevo mai sperimentato questa cosa di stare a delle regole davvero disumane. Iniziavo a capire il suo punto di vista: era tremendo non poter fare questo e quest’altro, non potermi muovere liberamente e dire che quel mondo così assurdo lo avevo costruito io stesso, con le mie dita e una tastiera.

«Vieni» mi ha detto, tenendomi per mano. «Ti faccio vedere cosa significa non poter uscire di casa.» E difatti passate due ore non ne potevo più. Era un incubo, e quell’incubo lo avevo messo su io.

E come era diversa la scrittura che ci attraversava ora, vista da dentro: un capitolo — i pensieri che il protagonista rivolge alla sua adolescenza libera e spensierata il giorno in cui gli viene diagnosticata la malattia – iniziava così: “frenetici come particelle di un moto browniano, o girini convulsi di vita, e leggeri allo stesso tempo e immobili, a lungo trascinati dal vento lieto della giovinezza, soffioni che ci si divertiva a strappare e soffiare via dalla terra quando non era ancora in devastante reclinante vecchiaia priva di saggezza, vorticosi e armonici come le eliche del fiore di tiglio quando scivola lungo il tragitto del suo percorso esistenziale verso una nuova esplosione di vita, percorrevate la via maestra lungo il parco immenso dell’adolescenza. E ora? Che ne è stato delle foglie collezionate tra le pagine dei giorni, a testimoniare la frequenza ossessiva dei nostri amori, delle amicizie amplificate dalla calma deriva dei giochi, quando si stabiliva una regola nuova pur di non concludere il giro, e si costruivano ambienti lontani dal mondo degli adulti, nascosti in camerette profumate di coccolino e artificiali coacervi di odori, e già pregustavamo la chimica, l’eldorado dell’elettronica che sanciva la definitiva separazione delle menti dai corpi – scelsi la carta dei fogli e l’inchiostro indelebile delle alchimie letterarie; e che ne è stato?

Ma le domande non hanno necessità alcuna e le soluzioni, le risposte, i ninnoli che non sono là dove ci aspettiamo che siano non cadono nel vuoto ma lo generano ed è questo buco nella trama delle certezze che pretende la risoluzione di un interrogativo. Allora, diceva la nonna, nel suo dialetto salentino, fazza Diu, e ci si lasci addebitare l’infinito scatto a una risposta vuota che definisce una domanda inutile. Così, ora, la mia lieta occupazione, la predisposizione al momento del mondo, è solo: il nome delle piante e dei fiori: il cardo, il trifoglio, il geranio, la salvia, il lentisco o il rosmarino, la loro storia officinale, il maleficio e il bianco angelico della rosa, degli alberi: l’odore del cipresso, la menta scivolata tra le mani. Solo questo. Leggere il mondo attraverso gli occhi del regno vegetale, sentire il vento, trasportarmi altrove nei campi, come un segreto germogliare di fragranza primaverile in certe intense giornate di sole, come quelle che torneranno a fiorire dopo questa malata prigionia.”

Alla fine del capitolo il personaggio si è messo a piangere, singhiozzando con la testa tra le mani e seduto su una pietra lungo l’argine di un fiume. Ero scosso dalla malinconica partitura in cui avevo immerso quel mondo, e un momento dopo, nel capitolo successivo, ancora i ricordi, ma un’aria meno nostalgica e più pacata: “… illusi di vedercelo rotolare ai piedi e ingannati dalle pubblicità alla televisione, intrattenuti da coacervi di morte, sesso e false notizie morbosamente influenti come il mito di Babbo Natale, plagiati dalle fantasmagorie sceniche dei talk-show guarniti di intrallazzi eroto-comici, imbambolati dagli snack cancerogeni e dai cibi chimico-industriali, diseducati da genitori sempre più narcisi e meccanicamente preadolescenti, il futuro smettemmo di rincorrerlo come cani addestrati con la propria palla di gomma. Lo capimmo per via sensoriale, per via dell’intenso profumo che invaghisce gli insetti e le strade nella stagione dell’ormai improvviso affiorare allergico dei pollini eolici dei tigli a primavera. Il tiglio: indiscusso emblema della calma veloce e dell’ansia ormonale che coglie la parte di noi rettiliana impressa ancora sotto la superficie del corpo quando il linguaggio non lo abita ancora. Io e me stesso abbiamo ricucito gli strappi, futuribili e passati, al modo dei giapponesi che ricompongono i frammenti degli oggetti di ceramica con collante di oro o argento liquido o lacca, il kintsugi o kintsukuroi, riparare con l’oro. Ripararsi con loro. Gli altri, gli estranei. Che non siamo noi. L’odore del tiglio non è affatto un sinestetico, un anestetico nostalgico che colma fratture e addolcisce le nostalgie, per nulla: l’odore del tiglio, etimologia germanica che rievoca l’alleviare, sottrae al presente il suo procrastinarsi nella ripetizione tradizionale, nel cusì vole lu Padre Eternu, al fatalismo proprio di chi non ha ancora inventato un suo proprio passato. E solleva, l’odore del tiglio, dalla responsabilità che non abbiamo di essere nati, dai luoghi e dal nome che mai scegliendo, abbiamo vissuto traumatizzati dai codici mandati a cortese memoria per adeguarsi al sociale che non abbiamo ancora deciso. E implementa, il soporifero meriggio dolciastro del tiglio, indorato dal tramonto alla sera, lungo il fiume a bordo dei nostri richiami cosmici, uno sguardo rivolto non a domani, non al momento questuante senso del presente, e nemmeno al passato imposto della familiarità triste, un ritrovo e la ricerca di coscienze parallele, da abitare, per scelta propria. È questo: la ricerca e la vicissitudine del prossimo mio, come sé stesso, che resti sé stesso. Senza traduzione e in lingua sconosciuta persino a sé stessa. In questa indole di fragranza primaverile e orgiastica con ogni prossimo che non è me stesso: nell’altro sconosciuto voglio e posso confondermi, riscattarmi, salvarmi. Nel dissimile incontro quel me stesso che non dissimula. Odoro di tiglio.”

E poi siamo arrivati al punto che non piaceva al mio personaggio: “… era in certe sere d’estate, quando il cielo sul paese era un prato di calendule bianche, e da lontano giungevano le urla dagli spalti del campo di calcio, e il metallico fischio dell'arbitro cui seguiva il rimprovero di certi tifosi e lo giubilo della parte avversaria, e sempre da lontano, ma dalla parte opposta, dal folto boschetto e la campagna remota distante meno di un chilometro, si insinuavano, soprattutto la notte, nel silenzio che un forestiero non aduso a un paese di nemmeno 5000 anime non potrebbe comprendere e nemmeno immaginare, voci misteriose e del tutto naturali che il buio trasformava in streghe o riti iniziatici, era in quel tempo in cui le lunghe ore di solitaria perlustrazione interiore e cosmica non erano crocifisse a alcun monitor e alcuna luce artificiale oltraggiava i sogni e l’onirica quiete che trasportava verso l’alta profondità del mondo, in quelle sere e notti passate a soppesare la propria distanza dalle persone mentre ci si immergeva nella misteriosa presenza umana, compresi qualcosa che tuttora ignoro. Non ho rimosso, non si tratta di traumi di cui non ho voglia e coraggio di scrivere, è l’ambiguo senso di innocuo, e allo stesso tempo temibile, di familiare e di totalmente estraneo: seduto io al centro esatto di una quadrifonia che comprendeva, esaltandola, l’intermittenza della scala dei suoni collegati alle cose quotidiane della vita umana e animale: al torneo di calcio, che di lì a poco sarebbe scemato nel nulla come i potenti fari che facevano giorno e del settembre che sarebbe diventato il freddo malinconico inverno; al ritmo matematico dei versi e delle voci tenebrose delle creature del bosco e della campagna, che di lì a poco sarebbero diventate testimoni della stagione in cui tutto resta imprigionato nell’ambra di sessuali desideri estivi incompiuti ed erotici; al ronzio di fondo, rumore bianco di salsedine e onde e musica da discoteca nelle orecchie ancora percosse da chissà quale intruglio alcoolico, proveniente da misteriose lontananze e dal quale emergeva, stocasticamente, il brum-brumio di un motorino e di una vespa dalla strada provinciale perpendicolare alla mia via, gli schiamazzi di ragazzi col casco infilato nel braccio, l’effetto doppler di un’automobile, da cui fuoriusciva l’ultimo brano di Corona e si dileguava nell’aria come fumo di sigaretta e hashish dai finestrini abbassati, e dal paese ci si perdeva nel tunnel scuro verso il paese vicino o viceversa; e poi, alle mie spalle, al silenzio assoluto della mia casa, dove tutti dormivano e la marea simbolica di mio padre giungeva ondivaga di respiri pesanti e quantici, comu ruffula lu papà, come russava, e come erano spontanei i discorsi a tavola per celia sul suo turbinare laringoiatrico che avrebbe abbattuto muri e divelto capannoni di amianto che custodivano gli attrezzi del suo mestiere, come russa papà, per periodi di tempo alternati a stasi di apnea da cui emergeva come per magia dopo alcuni lunghi secondi, durante i quali temevo di averlo perso per sempre, fino all’ultima leggera brezza di respiro, da cui non emerse più, seppure la sua presenza, da quel momento in poi, per un paradosso sacro e umanissimo, divenne più strabiliante, più severa, e rassicurante di prima. 

Seduto a ascoltare con la testa all’indietro sprofondando nell’infinito tutto che sovrastava questo misero meraviglioso mondo. E mi pigliava una nostalgia di cose mai accadute, di azioni che non volevo accadessero, un rimpianto per non aver osato uscire di casa, nemmeno quella sera, costringendomi alla mia auscultazione interiore, di apodittica paranoia e ingenerosa disistima, per punirmi della mia diversità. E non v’era alcun modo di uscirne se non nell’attesa di ricever le parole adatte per dirlo, col tempo, per scagionarmi dal delitto di credermi diverso. E così non era: la malinconia è una guerra in sordina perché si ritorni al grembo semplice di cose che si davano per scontate finché, perdute per sempre, restano incise a forma di tatuaggio che in caratteri comprensibili dice: vivi! E questo momento, sento, è un grido di scusa rivolto a chi non ho avuto il tempo di amare e comprendere, e non c’è più ora. Non cè più alcun momento. Forse.”

Non poteva finire così, avevo compreso appieno la riluttanza del mio personaggio a proseguire oltre, in bocca al suo funesto destino.

Quando sarei tornato nel mondo della realtà avrei cambiato tutto della mia vita, o forse ero già cambiato. Le settimane successive a quella clausura fisica e mentale, quando han ritenuto di potermi lasciare andare, ho concluso il romanzo, il mio personaggio aveva compreso le ragioni di quelle regole e mi ha lasciato fare, e però non l’ho fatto morire, no, l’ho condotto sulla via della guarigione, e egli ha compreso la metafora del vaso giapponese, del riparare i frammenti di un vaso rotto con la lacca d’oro. E anche io ero pronto a ripararmi, a riprendere in mano i frammenti della mia anima distrutta da quella clausura, per fare di me un nuovo individuo, più consapevole, più vivo.

Quella mattina in cielo c’era una luce diversa, per le strade un odore di umanità come mai avevo percepito prima. Almeno per me, perché non mi mancò di vedere persone ancora invischiate nelle maschere della loro ottusità. Ma erano in poche: la maggior parte di noi, come altrettanti personaggi di un tremendo romanzo scritto da chissà chi, aveva recepito il messaggio e si affrettò, con calma, a concludere quel capitolo bianco che non aveva mai avuto il coraggio di portare a termine, e a riprendere la vita, la gioia, l’esperienza di un nuovo rinvigorente contatto.

Quanto a me, voi che leggete, so bene che non crederete a una sola maledetta parola di questa storia, e che è probabile non vi sarà mai successo di vivere in prigionia braccati da un nemico invisibile; ma se mai accadrà, ricordate, davvero, che nulla è per caso, e che però alle notti più cupe sono sempre, sempre, seguiti i mattini più radiosi, i risvegli più esaltanti.

E poi un’altra cosa: non è vero che sono stato recluso e che un personaggio è uscito dal mio romanzo per portarmi con sé nel mondo che io stesso avrei creato, no, è tutta una grande bugia. Io non esisto e la verità… l’unica verità, per fortuna, è un’altra: ha il calore di una rinascita, di un emozionante rinnovamento alla fine di una lunga, inverosimile, paura; ha il colore di occhi che hanno intravisto in altri occhi il presagio della resilienza, la caparbietà di una nuvola che si adatta, il perenne scorrere di un’acqua profonda che risorge, pulsata da un battito primordiale, dal fremito del cuore su labbra che finalmente dicono: «Ti ascolto.»