Racconto di dicembre
La cena era stata perfetta. Il padrone di casa, uomo estremamente meticoloso ed enormemente ricco, aveva da giorni preparato quell’evento che ormai da qualche anno si ripeteva con scadenza trimestrale, all’incirca al cambiamento di stagione. Si trattava di una cena tra amici, ex compagni di scuola, ex alunni di uno dei più importanti istituti di tutto il Paese, in cui i rampolli della grande borghesia, dell’industria, della politica e della residua nobiltà con ancora qualche rilevanza economica si preparavano ad assumere ruoli e modi della futura classe dirigente. E in effetti quegli otto uomini che ogni tre mesi si ritrovavano, ormai ultracinquantenni, a casa dell’uno o dell’altro per una serata conviviale a base di ottimi cibi, i vini eccezionali e ricordi lontani, erano importanti esponenti, in vari settori, delle élites sociali ed economiche della nazione. Tranne uno, che rivestiva in società un ruolo non di primo piano - si occupava di commerci d’arte - ma poteva sedere in quell’alto consesso in ragione di un’antica, non dimenticata leadership, dell’indiscusso carisma che ai tempi della scuola aveva esercitato sui suoi compagni e i cui effetti non erano ancora del tutto cessati.
La cena era stata perfetta. Si trasferirono dunque nella grande biblioteca, confortevole, ovattata.
Era una gelida, bellissima notte di metà dicembre, il cielo scintillava di pietre preziose incastonate nella volta limpida, di ghiaccio purissimo.
La grande casa era piacevolmente tiepida. Gli otto gentiluomini, maturi, attempati, erano un pochino eccitati dagli ottimi e abbondanti vini che erano stati loro serviti.
Venne il maggiordomo, con il porto. Alcuni si erano accomodati sulle grandi bergères, altri sui divani di consunto cuoio capitonné, chi in piedi davanti all’imponente libreria di mogano massiccio osservava distratto le stupende rilegature dei molti volumi, chi armeggiava impegnato con tabacco, pipe, sigari e il variegato armamentario che solitamente accompagna quei piacevoli rituali.
D’improvviso il vecchio mercante d’arte si voltò verso il padrone di casa che già stava sorbendo, centellinandolo, il suo porto.
“Giorgio” esordì “perché non dici al tuo fido Ettore di farci portare da quella leggiadra Ebe di poco fa - che con tanta grazia ci ha servito un’ottima crema di asparagi - la bottiglia dell’indimenticabile Château Lafìte, del ’21, se non ricordo male, che stasera hai avuto la munificenza di farci conoscere e libare?”.
“Credo non ne sia rimasto…” rispose l’amico in tono contrito, “ma se vuoi…” Il mercante non gli fece terminare la frase, che lasciava intuire la possibilità di ulteriori, raffinate libagioni.
“No… non è questo. Per bere va benissimo questo magnifico porto… è per un gioco invece…” e sorrise malizioso.
“Un gioco?” ripeté l’altro, perplesso.
“Sì, un gioco, un classico…” rispose quello, criptico.
Poi aggiunse: “Amici miei, qui si rischia, anche stasera, in questa notte davvero splendida, di ricominciare con i soliti, tristi discorsi dei giorni passati, della scuola, dei bei tempi, di chi non c’è più… no, anche stasera no! Ci stiamo uccidendo con le nostre mani. Il rimbambimento arriverà, sicuro, ma non anticipiamolo!”.
Alcuni sorrisero, altri lo guardarono incuriositi.
Ettore, il maggiordomo, era rimasto lì, impettito, immobile e silenzioso come una statua e, in attesa di ulteriori ordini, con estrema discrezione, pareva neppure udisse quei discorsi.
“Allora, Ettore…” riprese direttamente e confidenzialmente il vecchio mercante, con la lieve ma solida autorità che ancora conservava nei modi “… su, ci faccia dunque portare quella meravigliosa bottiglia che, anche da vuota, continuerà ad allietare questa stupenda serata!”
Ettore alzò appena le sopracciglia quindi diresse rapidissimo lo sguardo verso gli occhi del padrone e, lettovi un muto assenso, si allontanò, sollecito e silenzioso.
Poco dopo bussava discretamente alla porta, ed entrava, quella giovane domestica di cui erano state magnificate in precedenza le evidenti doti. Reggeva un vassoio d’argento sul quale era poggiata, avvolta in una tovaglietta d’organza, la famosa bottiglia.
“Grazie al nostro munifico anfitrione…” riprese dunque il mercante, prendendo dal vassoio la bottiglia e sorridendo con malizia alla graziosissima cameriera “…abbiamo vissuto stasera un’esperienza davvero esaltante. Degustare un gran vino d’annata vuol dire entrare in comunicazione con gli dei… spirito divino, diceva mio padre, con un facile gioco di parole, una elementare sciarada, lui che di vini se ne intendeva davvero. Li collezionava in una cantina che per me era come la caverna di Alì Babà. Poi… una mia compagna…” fece una breve pausa “, … una mia meravigliosa compagna, di tanti anni fa, di un tempo incredibilmente felice…” si interruppe un’altra volta, per un attimo impercettibilmente più lungo, “… e che adesso non c’è più…” aprì di nuovo la bocca, come per prendere aria, e la voce riattaccò solo dopo alcuni secondi, un po’ più acuta “… amava raccontarmi storie bellissime, fantastiche….”. Il tono stentava a tornare normale. “…Ebbene, lei mi raccontava che ogni bottiglia di vino, di buon vino, contiene una storia, le vite, le umane vicende, i sogni, i dolori, la felicità e la tristezza, i progetti, le vittorie, le sconfitte, tutto ciò che è stato di ciascuno di coloro che hanno contribuito a che quella tale bottiglia esistesse: chi ha coltivato la terra, potato la vite, vendemmiato, chi ha lavorato affinché divenisse nettare prelibato, chi ha sognato mentre lavorava, chi ha imbottigliato quel sogno perché negli anni si conservasse lo spirito divino, ciò che di meraviglioso - nel bene e nel male - c’è nella vita degli uomini. Una storia che un giorno, stappando proprio quella stessa bottiglia, e godendone, riprenderà a esistere, tornerà vera, a librarsi nell’aria, a essere raccontata… Scusatemi, amici miei, sono stato prolisso… e forse anche un po’ patetico, ma era un omaggio… un omaggio dovuto a chi mi ha rivelato questa piccola, semplice verità…”. Un’altra pausa, stavolta a effetto. “… Lasciatemi perciò proseguire, siamo quasi arrivati… Ora dunque ricordo che siamo stati tutti valenti e appassionati cacciatori e, dato che i cacciatori, quelli veri, sono anche poeti, abbiamo amato la letteratura: e chi in particolare se non quel folle indagatore dell’animo umano che fu Maupassant? E cosa di lui soprattutto, se non Le contes de la becasse? Ricordate la vicenda? Una testa di beccaccia imbalsamata veniva fatta girare come una trottola attraverso un complicato meccanismo, costruito con un tappo e non ricordo cos’altro, in cima al collo di una bottiglia, su un tavolo intorno al quale sedeva un gruppo di amici. Chi, al termine della rotazione, veniva indicato dal lungo becco, bene, quello avrebbe avuto in premio un boccone da re, le teste delle beccacce prese a caccia, rosolate nel lardo mi pare. Avrebbe però, a fronte di quell’eccezionale privilegio, dovuto pagare un pegno: raccontare una storia… Bene, facciamo anche noi così, con la nostra stupenda bottiglia, come facevamo da bambini, e al posto della penitenza, chi tra noi sarà indicato dal collo della bottiglia al termine della giostra che la mano gli avrà imposto avrà il privilegio di raccontare a questo ragguardevole titolato uditorio qualcosa di interessante, se ne sarà capace! Stasera siamo qui, fra tre mesi sarà a casa di Vittorio, fra altri tre a casa mia e poi, via via, tutti gli altri, fino a che il ciclo sarà completato e noi avremo messo insieme un bel numero di storie e, soprattutto, avremo trascorso in modo piacevole il nostro tempo, con la migliore compagna, l’unica piacevolissima compagna ancora possibile - se siamo riusciti a conservarla - alla nostra età non più verdissima: la fantasia...”.
Nessuno aveva replicato a quella curiosa proposta ma tutti, sorridendo, si erano accomodati intorno al tavolo sul quale il mercante, che aveva in mano le redini del gioco, aveva posto la bella bottiglia coricata.
La fece girare con un leggero scatto della mano, esperta come quella di un croupier. Dopo molti secondi la bottiglia cominciò a rallentare il suo vertiginoso girotondo fino a quando il collo si fermò casualmente proprio a indicare il mercante che fino a quel momento aveva diretto le danze.
“Mi sta bene!” esclamò guardando i suoi amici uno ad uno. “Io ho provocato questo disastro ed è giusto che ne paghi le conseguenze per primo. Mi dispiace per voi e per le vostre orecchie…” parve riflettere un momento, “… però… a proposito di bottiglie… se siete disposti ad ascoltarmi… forse una storia che potrà incuriosirvi ci sarebbe…”.
Tornarono ad accomodarsi tutti sui chesterfield di cuoio scuro e un po’ logoro e incitarono l’amico a incominciare.
Lui era rimasto seduto al tavolo, con la bottiglia che ancora lo additava, minacciosa. La guardava fisso come si osserva l’atto della propria condanna, come si scruta il destino quando ti indica con la sua mano scarna. Poi cominciò.
“Da sempre questa storia si è tramandata in famiglia e probabilmente non è più molto fedele all’originale. Si sarà magari arricchita di coloriture ancor più fantastiche, per quanto l’originale non ne difettasse affatto. La riporto così come dalla tradizione orale familiare mi è stata consegnata - se dimentico qualche particolare chiedo scusa a voi e soprattutto a loro - in anni in cui questo tipo di racconti colpiva l’eccitata, sbrigliata immaginazione di noi giovanissimi ascoltatori, ingigantendosi e agghindandosi di ghirigori d’orrore che allora ci tormentavano e ci deliziavano allo stesso tempo e che, oggi, hanno anch’essi la patina opaca del tempo e il gusto amaro e dolce della malinconia… Non c’era dicembre in cui, come un rituale, come una ricorrenza, la nonna paterna non la raccontasse di nuovo, quella storia, in una di quelle sere gelide e tempestose che noi trascorrevamo al calduccio intorno al fuoco, mangiucchiando e baloccandoci nella grande cucina, con tutta la servitù che ascoltava a bocca aperta, come noi bambini. Eravamo seduti, con mamma, papà, la tata, una vecchia zia rimasta zitella e la nonna, su delle basse panche di legno massiccio poste direttamente dentro l’immensa bocca del gigantesco camino. Abitualmente era di sabato, il natale già si sentiva nell’aria e in famiglia c’era più voglia di stare insieme, nel tepore familiare.
Mentre la nonna raccontava, papà, con la sua aria maliziosa e gli occhi birichini da giovane birbante quale era rimasto, faceva, non visto, un gesto eloquente col dito indice che ruotava puntato sulla tempia, come a dire che alla nonna, sua madre, ormai le rotelle non girassero più perfettamente. Noi, a quel gesto, sapevamo di non dover ridere, anche se un sorriso leggero si disegnava sulle nostre labbra e imporporava le guance già arrossate dal calore del fuoco che la nonna riattizzava con metodo a intervalli regolari. Questo piccolo stratagemma di papà serviva comunque a stemperare quella paura indicibile, mai confessata che pure, ogni volta che ascoltavamo quella storia straordinaria e straconosciuta, non poteva non catturarci come una rete d’orrore, per l’ennesima volta. Ecco dunque la storia.
I nonni della nonna, i miei trisavoli del ramo paterno, abitavano in campagna, a circa trenta chilometri dal centro della città. Ma quella distanza, oggi invero modesta, a quei tempi faceva sì che la loro residenza venisse considerata “a casa del diavolo“ e fosse perciò poco frequentata da parenti e amici. Era stata una scelta del mio avo, quella di andare a vivere in campagna, lui uomo forte, concreto, positivista, di stazza straordinaria, gran mangiatore, gran parlatore, appassionatissimo cacciatore e noto e rispettato magistrato al Foro cittadino. La moglie, la mia trisavola, era invece una creatura delicata, eterea, sognatrice, medianica, fragile. Dedita alla musica e alla poesia, con un temperamento febbrile e visionario, un po’ esaltato. Da giovane era stata bellissima e aveva cantato all’Opera. Dal matrimonio erano nati tre figli. Due soli erano sopravvissuti. Quando i superstiti, ormai adulti, avevano scelto le loro strade nella vita e al mio trisavolo erano maturati gli anni per la pensione, lui aveva preteso, a tutti i costi, contro la pur pressante volontà della moglie, di andare ad abitare laggiù, in quella peraltro magnifica tenuta, ormai libero dagli impegni professionali e sufficientemente ricco da potersi godere, senza pensieri, quel che gli restava da vivere, e dove soprattutto poter quotidianamente professare, è la parola adatta, l’attività venatoria - l’unica vera, grande, incontenibile passione della sua vita - che un fisico straordinariamente integro, nonostante l’età non più verde, gli permetteva di esercitare ancora con la potenza e la continuità d’un ventenne.
Nel frattempo, mentre lui consacrava le albe ai riti cruenti di Artemide, la consorte invece si struggeva in quella agreste solitudine alla quale non riusciva proprio ad abituarsi. Non che fosse mai stata un soggetto particolarmente socievole, estroverso, di compagnia, per carità, il suo carattere era di natura schivo e raccolto in sé e aveva sempre fatto in modo di evitare la confusione, i ricevimenti, i balli e tutti gli eventi mondani cui il marito, affabile, festaiolo, buontempone, veniva di continuo invitato. Ma per un animo talmente emotivo, che si era costantemente nutrito di poesia e di musica, il poter frequentare ormai solo di rado, e via via sempre meno, l’opera, i teatri, le mostre d’arte, le biblioteche e certe compagnie in cui personaggi a lei simili parevano anche loro cibarsi di parole e di note piuttosto che di pane e di vino, quel tipo di vita, rustica, anzi selvatica per meglio dire, era risultato, per quella diafana creatura, davvero insostenibile. D’altra parte la distanza dalla città che, come abbiamo detto, oggi ci farebbe sorridere, era a quei tempi un ostacolo quasi insormontabile per una vita sociale dedita all’arte, soprattutto per il fatto che il mio esuberante trisavolo, disprezzando, con la sua robusta fisicità, quel mondo vacuo e bamboleggiante, come lo definiva con malcelato disprezzo, si rifiutava di accompagnarla in quei cenacoli, presso quei templi del pensiero, visto soprattutto il fatto che il giorno dopo si sarebbe dovuto alzare molto prima dell’alba per recarsi a caccia.
E mentre il mio avo dunque prosperava, godeva e anzi pareva addirittura ringiovanire, affamato e soddisfatto nello stesso tempo dal poter esercitare ogni giorno, come aveva sognato per tutta la vita, l’arte venatoria, la mia dolce trisavola invecchiava precocemente, si incupiva chiudendosi in un tetro, serrato mutismo mentre gli occhi le si illuminavano di una luce inquietante. Era enormemente dimagrita, si era rimpicciolita, raggrinzita, non mangiava quasi nulla. Scriveva, suonava e cuciva tutto il giorno, tutti i giorni, in modo innaturale, esagitato, come se non le bastasse il tempo. Si metteva al pianoforte e interpretava brani famosi con una foga esagerata, con una esasperata, allucinata carica. Gli occhi erano sempre più vivi però, in quel volto cadaverico, febbricitanti di una strana luce, parevano scorgere altre vite, altri mondi.
Passò altro tempo. Lei non parlava quasi più, rispondeva a monosillabi o con lunghi sproloqui incomprensibili spesso mischiando parole straniere delle molte lingue che conosceva. A volte, senza apparente motivo, lanciava urla lancinanti che parevano di dolore, un dolore diverso, non fisico. Aveva un comportamento sempre più bizzarro e forastico. Trascorreva ore e ore, a volte giorni interi, chiusa nella sua stanza senza uscirne neppure per le più basilari necessità e da un po’ di tempo pareva di cogliere, dietro quella porta sprangata, bisbigli sommessi, lamenti, litanie, inquiete cantilene, strani versi più simili a quelli di animali che di cristiani.
I domestici cominciavano a provare un sacrosanto timore per quelle stranezze mentre il marito, perduto sui silvani sentieri, nulla vedeva, nulla percepiva di quelle bizzarrie, non si rendeva proprio conto della sofferenza, della malattia dell’anima. Anzi, era sempre più lontano, sempre più preso dai suoi materiali interessi. Sovente, a dispetto dei dati anagrafici, questo giovanotto di settanta primavere, abbandonava i selvaggi sentieri di Artemide per quelli di Afrodite, più dolci e fragranti sebbene a volte addirittura più affaticanti di quegli altri, e si recava in calesse - un gig leggero e veloce - presso certe accoglienti dimore indicategli dai suoi compagni di caccia e di bisboccia, che erano divenute un’ottima alternativa all’attività venatoria, soprattutto nelle giornate in cui il passo della selvaggina rallentava. E mentre lui ritornava, da quelle nuove elettrizzanti spedizioni, allegro e soddisfatto, la mia eccentrica antenata sembrava intraprendere invece una strada senza ritorno. Trascorreva sempre più tempo chiusa in camera e da lì dentro continuavano a provenire strani rumori, incomprensibili e inquietanti, frasi smozzicate e assurde di un colloquio - colloquio ripeto, non monologo – un colloquio impossibile, mostruoso. Pareva di distinguere nettamente due voci, una allucinata, disperata, preda ormai di folli visioni; e un’altra, un cupo brontolio, un borbottio veloce e stridulo, aspro e incomprensibile, alternato a brevi risatine, chiocce e laide, terrificanti.
I domestici si mettevano spesso dietro quella porta, in gruppo, a cercare di captare quei messaggi criptici e demenziali, poi, ai suoni più insoliti e allarmanti, fuggivano via terrorizzati facendosi il segno della croce. Le spaventevoli risonanze, da dietro quella porta, raggiungevano ormai ogni più remoto andito della casa, echeggiavano, terribili, giorno e notte, spaventoso prodotto di una mente che si stava riproducendo per talea, nella follia che ormai la avviluppava come una vegetazione infestante.
Adesso anche il vecchio cacciatore, malgrado tutti quegli impellenti interessi che lo distraevano, non poteva continuare a ignorare, a far finta di non vedere, - e di non sentire! - il dramma domestico che non tentava neanche più di celarsi ma, a dispetto dell’evidenza sonora, eclatante, egli non riusciva, grazie a un allenato egoismo durato tant’anni, a farsene un problema, pensando, e convincendosi quindi, che quel momento di passeggero disagio, chiamiamolo così, della sua povera moglie sarebbe presto cessato, superato, magari risolto con una buona cura ricostituente e che, non certo per questo, egli avrebbe dovuto rinunciare a spassarsela. Consultò il medico di famiglia e si accontentò di spiegazioni semplicistiche, che quasi suggerì - era ciò che in fondo voleva sentirsi dire - e di una ricetta per uno sciroppo corroborante, un tonico, rilasciata senza neppure visitare l’ammalato.
La povera donna invece, nonostante il tonico, peggiorava in modo repentino. Adesso, ogni tanto, usciva dalla stanza, correndo e agitandosi come un’ossessa e sproloquiando in quell’ assurdo minestrone di idiomi che era divenuto il suo unico linguaggio. Si precipitava di sotto, in cucina e nelle dispense, facendo fuggire la servitù che andava a nascondersi in giardino, e riempiva grandi insalatiere con frutti, con verdure, con cereali, legumi, frutta secca, noci, nocciole, mandorle e arachidi, in quantità esagerate, abnormi, portando poi queste insane scorte, sempre di corsa e con gesti eccessivi, disarticolati, sconnessi, nella propria camera, per richiudersi in uno sconclusionato esilio volontario. Ordinava oltretutto alla governante - scrivendo su foglietti spiegazzati e con incomprensibile grafia - di fare grandi provviste delle curiose specialità che da un po’ di tempo sembravano costituire il suo cibo preferito; e visto che, magari in modo un po’ stravagante, aveva ricominciato ad alimentarsi, il marito acconsentiva a queste stramberie, sperando che tutto ciò servisse almeno a nutrire quel corpo avvizzito e tenere occupato quel cervello scarmigliato che diversamente avrebbe potuto trovare altri condotti ben più pericolosi ed esplosivi per sfociare e manifestarsi.
Era incredibile la quantità di quell’eccentrico materiale che la povera donna consumava , o che, comunque, portava e stipava in quella stanza dove ormai da molti mesi non permetteva ad alcuno di entrare, neppure alle domestiche per le pulizie, sostenendo, sempre per iscritto, in irragionevoli spiegazioni, di voler provvedere personalmente a quelle incombenze non fidandosi della condotta igienica delle serve. Di tutta quella inaudita congerie di cibo - anche ammesso che effettivamente ne mangiasse, se non altro per tenere in piedi quel povero corpo ormai quasi virtuale - sicuramente quantità mostruose dovevano per forza esser rimaste stipate lassù. A fermentare, marcire.
Il vecchio gaudente cominciava adesso a preoccuparsi davvero. Consultò dunque un suo amico di gioventù, ora famoso neurologo - aveva lavorato con Charcot - che tra l’altro abitava a non molti chilometri di distanza, in una tenuta confinante. Quello venne per rendersi conto di persona della situazione e dovette constatare che i problemi erano infinitamente più seri di quanto il vecchio conoscente gli avesse esposto. Si sarebbe potuta tentare una cura per calmare e cercare di stabilizzare quell’umore impazzito ma i risultati non erano garantiti così come d’altra parte era poco probabile la collaborazione del paziente. Altrimenti si sarebbe dovuto ricorrere a un discreto ricovero nella clinica per malattie mentali da lui diretta, ricovero che avrebbe assicurato un maggior controllo su quella situazione che rischiava seriamente di sfuggire di mano, sperando anche, sperando ripeto, in una più concreta possibilità di guarigione.
Prima si tentò la cura. Ma l’esaurimento, la devastante agitazione che scuoteva dall’interno quel fragile corpo e quella mente ancor più fragile, insinuandosi e incistandosi fin nei più segreti penetrali del martoriato organismo, non concedendo alcuno spazio di azione alle medicine che risultavano efficaci quanto una cura di bicchieri d’acqua.
A questo punto il ricovero divenne improcrastinabile, se pure vi fosse davvero stato ancora qualcosa da salvare. Tra l’altro il mio avo era convinto, senza farsene una colpa - anzi riteneva di decidere per il bene della sua povera moglie, e per il suo, di bene - che allontanare da casa, almeno per un po’ di tempo, quell’imbarazzante problema - il quale, tra l’altro, gli rendeva impraticabili le sue predilette attività concrete e corporali - fosse la soluzione migliore per tutti. L’amico provvide dunque, celermente, al ricovero di quel povero, strampalato cervello, ora nel nuovo spietato esilio della clinica dove, con discrezione, la poveretta fu finalmente rinchiusa, insieme al suo sguardo lampeggiante, disperato, ormai insostenibile.
In casa era tornata la calma. Una calma gravida di oscuri presentimenti, di rischi atroci. Il mio avo decise dunque di aprire quella stanza il cui olezzo ormai si spandeva per tutto il piano e lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi aveva realmente dello straordinario. Tutta l’ inenarrabile profusione di quei cibi esotici, che avrebbe dovuto essersi accumulata lì dentro, in realtà non esisteva più. Ne esisteva però la cruda e maleodorante risultanza, gusci, torsoli, bucce, involucri, ammonticchiati con un ordine maniacale, in piccoli, numerosissimi cumuli, regolari, tutti uguali per quantità e altezza. Altre simili montagne, stavolta di feci disseccate e ammuffite, mummificate, si ergevano nella stanza come una minuscola cordigliera che la cingeva per tutto il perimetro. Anche i mobili, il letto, l’armadio, ogni cosa era ricoperta da scarti alimentari e guano, ammucchiati a montarozzi, a coni, a piramidi. L’odore che se ne sprigionava era nauseabondo, insopportabile, l’atmosfera quella d’una città in preda ad una pestilenza, a un’epidemia, le mosche erano orde. Non si attardò a cercar d’individuare altri fetidi ospiti di quell’inferno organico. Spalancò le finestre e fuggì giù di sotto chiamando a gran voce i servitori e ordinando loro di salire ben attrezzati per affrontare quell’emergenza paradossale, quella bonifica straordinaria.
Ci vollero tre giorni per restituire alla normalità quell’ambiente impazzito e per far sì che l’aria tornasse appena respirabile. Furono portati via sacchi e sacchi di quella congerie di derivazione alimentare e degli inimmaginabili risultati di forsennate digestioni e alla fine, dopo un’accurata disinfezione - a base di ipoclorito di sodio, di creolina, lisoformio e alcool canforato - di quel luogo delirante, l’orrendo fetore scomparve del tutto. La camera fu riarredata, rifatto il letto, la porta chiusa a chiave.
Dove fossero in realtà finiti i quintali di provviste trasportate lassù rimase un mistero. Certo che, se la sventurata se ne era realmente nutrita a oltranza, doveva essersi distrutta stomaco, fegato e intestino oltre al già martoriato cervello.
Ma quell’ormai precario apparato psichico, minato da una malattia sconosciuta e letale, cercava disperatamente una strada per liberarsi dalle pastoie del male e dalla prigione di un corpo disfatto. La follia aveva inondato di lampi e di opaca luce gli occhi vetrosi. Forse una mano pietosa, o forse istruita dall’alto, una mattina, in clinica, dopo le pulizie, non richiuse a lucchetto la finestra della stanza-prigione. Quell’infelice non ci pensò due volte, scavalcò il davanzale e si gettò di sotto. Neppure riuscì a morire subito. Il suo amaro destino le regalò ancora tre giorni di agonia e di atroci sofferenze prima di farle chiudere gli occhi per sempre.
Avvenne dunque che il vecchio gaudente, dopo quei fatti, divenisse sempre più vecchio e sempre meno gaudente. Il tempo, che fino a quel momento gli aveva risparmiato le sue ingiurie, si prendeva adesso, con una rapidità straordinaria, la rivincita, e con interessi altissimi. Parve chiaro che la morte della moglie avesse segnato anche per lui un fatale giro di boa. Quel fisico poderoso stava inesorabilmente cedendo. Le gambe divennero malferme, il respiro corto e affannato, la vista appannata e anche il vecchio cuore cominciava a fare le bizze. Le forze, che fino a ieri sembravano inesauribili, stavano rapidamente scemando. Ratto e imprevisto giunse il momento in cui dovette abbandonare sia Afrodite che Artemide, definitivamente. Ora trascorreva sempre più tempo chiuso nella casa silenziosa e deserta. E c’era molto tempo per pensare. All’infuori della servitù, non aveva quasi più contatti col genere umano, salvo sporadiche visite dell’amico medico che veniva a constatare il triste, repentino decadimento.
Ho detto che la casa era ormai silenziosa e deserta. Ebbene, silenziosa e deserta fino a un certo punto. Mentre quell’ormai povero vecchio era seduto in poltrona in salotto, immerso nella palude dei ricordi e invischiato nelle sabbie mobili di tardivi rimorsi, dal piano di sopra giungevano, soprattutto di notte, strani rumori, attutiti, soffocati. A volte un lieve tramestio, un respiro altrettanto leggero, lamenti a stento trattenuti, singhiozzi appena accennati. Altre volte pareva d’udire qualcuno parlottare con una vocetta roca, strozzata, stridula, biascicare poi, velocissimamente, sussurrare parole incomprensibili, quindi strepitare, fare pause improvvise alternate a risatine raccapriccianti e a versi curiosi e inclassificabili simili, a brevi ruggiti. A momenti l’udito eccitato del mio avo pareva percepire qualcosa di noto, di comprensibile come il suo nome ripetuto molte volte di seguito, seguito da laidi sghignazzi, parole oscene e atroci bestemmie. A volte s’udiva un rumore più forte, come un raspare d’unghie.
Si svegliava di soprassalto il vegliardo, sulla poltrona dello studio dove sempre più spesso trascorreva le notti, avendo ormai un sacro terrore di salire su nella sua camera da letto. Allora, faticosamente, si spostava in salotto, anche lì da una poltrona all’altra, cercando di capire quale fosse l’esatta ubicazione della sorgente di quei suoni allarmanti, da quale punto del soffitto in realtà si originassero. A volte cambiava ancora la precaria e non rassicurante postazione, recandosi nei due grandi saloni, cercando non si capiva bene se una collocazione da cui percepire meglio la fonte di quel trambusto demoniaco o per allontanarsene il più possibile.
A mano a mano entravano in quel preoccupante concerto, come nel bolero di Ravel, uno dopo l’altro, bizzarri strumenti, bisbigli, sbruffi, soffi, gemiti, ululati e tutta una serie sconosciuta e orrenda di incongrui fonemi di origine indecifrabile, in un crescendo da incubo.
Il vecchio era terrorizzato e a questo punto temeva di impazzire anche lui. Dormiva, quando vi riusciva, sulla poltrona tenendosi abbracciato a uno dei suoi fucili da caccia che aveva caricato a pallettoni. L’altra arma di cui si era munito, e che nel passato aveva sempre snobbato, era un pesante crocifisso di legno nero, col Cristo d’avorio, che aveva piazzato a mo’ di parafulmine sul tavolino davanti ai suoi piedi.
Finché una notte, peggiore delle altre, pur di non restar lì a morire di paura, racimolò l’insano coraggio per salire lassù a tentar di scoprire l’autore di quella mostruosa partitura.
Non appena fu di sopra quei raccapriccianti strepiti, come avessero percepito la sua presenza, aumentarono d’intensità e la frequenza si fece affannata, quasi disperata, una gazzarra, una diavoleria parossistica, dolorosa e funesta.
Era immobile, di fronte alla porta della stanza malsicura e temibile, quando udì con chiarezza che qualcosa, qualcuno annaspava dall’interno, in modo forsennato, contro quella stessa porta.
Il vecchio cacciatore, anche se aveva con sé il fucile, fuggì di sotto, atterrito. Si barricò in salotto, si abbracciò al crocifisso e pregò fino all’alba.
Poco dopo i terribili strepiti erano cessati, del tutto. Ma ormai, nonostante quell’ innaturale silenzio, il povero vecchio si era davvero convinto - come non averlo capito prima! - che qualcosa, o più precisamente qualcuno, in tutti quegli anni, era stato lì, sotto lo stesso tetto, era vissuto con loro, vicino a loro, così vicino alla sua povera moglie da condurla alla pazzia. Un’ospite segreto, dotato di una natura materiale seppure impercettibile ai semplici sensi, quasi sempre silenzioso allora, discreto, che andava curato, nutrito, tenuto a bada, che era entrato in lei e la abitava come una seconda anima parassita e che ora invece rumoreggiava come una cattiva coscienza.
Era dunque adesso, proprio adesso che c’era silenzio, all’alba, il momento di andarlo a conoscere quel misterioso ospite di cui ormai riteneva certa l’esistenza reale, fisica, e la mortale ingerenza nelle loro vite.
Salì le scale e si fermò davanti alla porta. Tutto era quieto.
Aprì ed entrò. Gli occhi si abituarono alla semioscurità della stanza. E vide. Vide il letto, l’armadio, lo scrittoio, i quadri, le tende e le altre cose, tutte le altre cose. E vide la poltrona sul cui schienale stava appollaiato, livido, torvo, un grosso lemure, voluminoso, massiccio, immobile, dal lungo pelame bianco, sbiadito e lanuginoso, mostruosa concrezione di incubi, di sofferenze, di disperazione. Stava lì, sinistro e discreto, silenzioso inquilino dei nostri sogni.
Nel vuoto che ingombrava la stanza se ne stava dunque accovacciato sulla poltrona, apparentemente morto, rannicchiato, bloccato dalla rigidità cadaverica in una posa grottesca, spaventosa, con le braccia tese e le mani - tali erano quegli organi prensili - rattrappite, le unghie sporche di sangue rappreso, in atteggiamento, non si capiva più, se di aggressione, di minaccia mortale, o di pietosa, estrema richiesta d’aiuto. I grandi occhi, luminosi e fosforescenti nonostante in essi non vi fosse più vita, erano insostenibili.
Il vecchio prese velocemente la coperta dal letto e la gettò su quell’essere orrendo, su quella visione impossibile e ve lo involtò come in un sudario. L’inquietante posa che aveva assunto nella morte, ne faceva un singolare pacco davvero difficile da serrare. Staccò con uno strappo i cordoni della tenda e legò alla bell’e meglio quell’ irragionevole involucro. Poi, con fatica, sia per il peso che per la forma, lo prese tra le braccia e, rabbrividendo d’orrore nel notare che la porta, dal di dentro, era scavata da profondi solchi, graffi e sporca di sangue, ed anche per il fetore insostenibile che il fardello emanava, lo portò dabbasso, barcollando pericolosamente a ogni gradino. Entrò nello studio dove aprì un grande armadio blindato in cui custodiva le preziose armi da caccia e ve lo infilò, non senza difficoltà. Richiuse i tre grossi chiavistelli e ne seppellì le relative chiavi in un cassetto della grande scrivania, sotto una spessa coltre di fogli. Richiuse quindi il tiretto facendo poi scorrere una grossa chiavarda di ferro che lo sigillava, bloccandola con un pesante lucchetto e infilandosene la chiave nel panciotto.
Nei giorni a venire subitamente s’ammalò e in capo a poco più di un mese la situazione si fece grave.
Furono avvertiti i figli, che vivevano lontano. Il figlio era all’estero e non poté muoversi. La figlia tornò e si stabilì nella vecchia casa per accudirlo, lui ormai non si muoveva più dal letto.
Il giorno in cui capì che il suo tempo era finito chiamò una serva e si fece portare su dalle cantine una grossa bottiglia, un Jéroboam, di un vino eccezionale per qualità ed annata, un capace decanter e un bicchiere. Ordinò che venisse acceso il camino dello studio. Scaraffò il vino che, a contatto con l’aria, diffuse un leggero sentore di frutta nella stanza olezzante di chiuso e di malattia. Ne versò un bicchiere e lo bevve avidamente, poi subito un altro. Quindi uscì dalla stanza barcollando, quindi scese, non senza difficoltà, le scale portandosi appresso la grossa bottiglia vuota, entrò nello studio e ci si sprangò dentro. Aprì il cassetto della scrivania, ne prese le chiavi che lì aveva riposto e dischiuse quindi le tre serrature dell’armadio blindato. Come spalancò le ponderose ante fu investito, negli occhi e nel naso, dalla visione e dalle emanazioni di quell’oggetto inverecondo. Estrasse l’orribile involto, tagliò i cordoni che lo serravano e ne cavò quel cadaverico incubo, che si era mummificato. Lo sollevò con fatica e ribrezzo e lo appoggiò con attenzione sulle fiamme lampeggianti del grande camino. Si sedette in poltrona e attese pazientemente.
Erano passate molte ore e il fuoco s’era spento. Era freddo adesso lì dentro anche se nell’aria rimaneva sospeso l’odore di quell’imbarazzante combustione. Con la paletta raccolse il grosso mucchio di cenere e dopo aver fabbricato, con un foglio di giornale, una specie di largo imbuto, travasò i maligni residui nella bottiglia, richiudendola poi a fatica con il suo sughero che sigillò con la ceralacca. Ripose la bottiglia nell’armadio blindato, ne richiuse le tre serrature e tornò su, nella sua camera. Si avvicinò al tavolino sul quale era poggiata la grande caraffa quasi piena di quel vino eccellente, se ne versò ancora un paio di bicchieri e li bevve lentamente, pensoso. Si mise a letto. Nella notte morì.
Nessuno seppe che fine avesse fatto, infine, la lugubre urna. In famiglia se ne era sempre parlato: nessuno mai la rinvenne nel grande armadio blindato o in altre parti della casa sebbene si sospettasse che la figlia, la mia ava, l’avesse trovata, prelevata e segretamente nascosta nella vasta cantina, celata, mimetizzata tra centinaia e centinaia di altre bottiglie. La nonna raccontava invece che fu scoperta dopo molti anni in un ripostiglio segreto, nel fondo dell’armadio della stanza maledetta - forse lo stesso dove si era celata per tanto tempo l’orrenda creatura - e che fu ordinato a un domestico di gettarla nel fiume. Fu anche chiamato un prete a benedire la stanza.
Mio padre, ridendo e scherzando come sempre - ma scherzava davvero? - sosteneva che sua nonna avesse invece ereditato quel macabro contenitore e l’avesse conservato gelosamente. La fatale bottiglia, insieme a tantissime altre della cantina avita, sarebbe così arrivata, sciagurato retaggio, nella nostra tinaia, anch’essa immensa e tenebrosa, soprattutto per noi bambini, e asseriva con una convinzione degna di miglior causa - anche se la voce era colorata da una impercettibile vena ironica - di avere a volte sentito, nelle fredde notti d’inverno, provenire da là sotto bisbigli impercettibili, lontani sussurri. Forse voleva, nella sua infantile leggerezza, soltanto spaventarci e devo dire che in realtà ci riusciva perfettamente anche se noi bambini cercavamo di non farlo capire, canzonandolo anzi per quelle storielle da donnicciole. Ancora adesso però, sarà magari perché sto invecchiando, ma in certe gelide notti di dicembre come questa, in cui spira un freddo vento di tramontana e risuonano, per gli spifferi, gli anditi più remoti della mia vecchia casa, anche a me pare di sentire qualcosa. Mi sembra che da laggiù, da quel tortuoso ipogeo, provengano voci sommesse, sospiri, arcani mormorii. Comincio veramente a credere che la mia grande cantina celi qualche straordinario segreto. Magari la bottiglia è ancora laggiù, sepolta lì sotto e in qualche modo ci chiama, ci pretende. Scendendo in quella specie di catacomba per scegliere un buon vino mi accade a volte di non sentirmi solo, di percepire delle presenze… e molto dolore… il dolore di vite passate che ancora non trovano pace… A quel punto afferro la prima bottiglia che mi capita e torno su di corsa… ma forse è solo il mio strambo cervello… forse è soltanto quella sotterranea vena di follia che la mia famiglia si tramanda come una malefica eredità, proprio come quella vecchia bottiglia. Quella vena di follia che, come un fiore maligno, sboccia di notte, nelle fredde notti di dicembre, che ha percorso le generazioni… e che adesso comincia a farsi strada in modo più evidente e prepotente anche nella mia vecchia testa… avvelenandola…”.
La storia era finita.
Il mercante era rimasto muto, immobile, fissando la bottiglia coricata sul tavolo che, testarda, continuava a indicarlo. Anche gli altri erano rimasti in silenzio, un silenzio greve, carico. Per alcuni minuti nessuno si mosse, poi il padrone di casa riprese in mano la situazione.
“Un altro giro…?” propose indicando il porto.
Alcuni scossero il capo, qualcuno ebbe l’ardire di rispondere “… No, grazie s’è fatto tardi…”.
“Domani sarà una giornataccia per me…” aggiunse un altro, incosciente. E un altro ancora dissertò: “Io, per rimanere in tema, domani dovrò recarmi a fare un giro nella mia proprietà di campagna. Ci sono alcune faccende da risolvere, poi andrò a sparare qualche cartuccia ai tordi…”.
Silenzio.
Sembravano tutti più vecchi. Uscirono dal fumoir, percorsero, disperdendosi, un lungo corridoio e si ritrovarono nell’ampio e luminoso atrio dove Ettore li attendeva per dirigere due domestici nelle operazioni di distribuzione dei soprabiti.
Si strinsero le mani e si salutarono. Uscirono nella notte gelida, limpida, cristallina. Spirava una tramontana tagliente. Salirono sulle scintillanti vetture e ognuno se ne andò per la sua strada.
Una settimana più tardi, mancavano due giorni a Natale, il vecchio mercante si tirò un colpo in testa. Si mise in abito da sera, vuotò due bottiglie di un ottimo vino d’annata poi si infilò in bocca il fucile da caccia, una preziosa doppietta Churchill calibro dodici, con stupende cartelle Holland finemente incise, calcio inglese in radica, canne da ventitré pollici, e premette i grilletti. Fu sepolto prima di Capodanno.
Il gioco non ebbe un seguito. I superstiti si incontrarono ancora un paio di volte, parlando sempre di meno. Poi non si videro più.