Credereste che le luci cantano?

Credereste che le luci cantano?

Vero! – nervoso, molto molto mortalmente nervoso ero e sono, ma pazzo perché dite? Sì ebbene, i legni andavano su e giù, su e giù, facevano cerchio come il mago che ipnotizza; ma la mia testa, vedete, non si ipnotizza, vuota il più delle volte, immune – dice solo alle braccia di andare su e giù su e giù, e alle gambe di andare avanti; e come la mia testa il dito di una sarta che non si punge più. Un callo. Di gomma è la mia testa. Però anche io – mi costa ammetterlo – anche io di tanto in tanto penso, mi costa ma penso; a riprova delle mie facoltà per esempio quel giorno pensavo che– avevo notato che i legni facevano su e giù, e quando facevano su ritornavano più scuri, ma solo la prima volta – dell’acqua, vedete. Adesso i remi erano divisi a metà, capite, e una parte era asciutta e l’altra bagnata, e sembravano le mie braccia; vi dico che sembravo un albero. Un albero dopo l’incendio e le mie braccia erano rami neri di fuoco. Dunque penso, come vedete. Ma era umido nel mare, e non si sarebbe acceso neanche un cerino; sempre umido, vedete, di un umido che qui non sentite, qualcosa per il petto e le ossa – e a riprova delle mie buone facoltà mi dicevo che guaio per il mio compagno di viaggio che si decompone in questo sacco, in questa barchetta. Dovevo tenere il cappotto, vedete, anche se il sudore mi andava negli occhi; va senza dirlo che respiravo forte e quindi, signori, a riprova, signore, io pensavo che facevo un favore al signore che portavo; forse, dico, mi buttavo dentro un po’ di umidità e lui si decomponeva di meno – avevo letto in un libro una volta che, letture professionali, è l’umido, è l’aria, che decompone: sì, ecco… gli stavo dunque regalando qualche attimo in più sulla Terra, ecco cosa, che per qualcuno è confortante e un regalo, se ci pensate. Non direste che sono pazzo, per l’appunto, come vi sto dimostrando.

Era morto, di certo, di una morte che non sapevo ma che voi sì. Malattia, incidente, omicidio: probabile. A essere onesti perfettamente non ero – non sono molto interessato a quello che viene prima della morte – o meglio non è la mia area di competenza, distacco professionale, sì? Io porto la barca; lui era stato medico, artista, direttore di banca, puliva la strada, taglialegna. Vedete bene che non ha importanza per il compito in prospetto. Me - con me è come la storia finisce, la vostra dico, non importa com’è iniziata. Molte storie in questo paese ma il finale è mio, è con me. E io, proprio per mantenere quella sanità che voi ora mi accusate di non possedere, me lo immagino (la capacità di immaginare di sicuro dà ragione a me, lo concederete) come un mio teatro personale, in cui gli attori sono sempre due, e io sono uno dei due; voi tutti, lo sapete, mi chiedete sempre il trasporto individuale – più dignitoso di una chiatta piena di morti, ve ne do atto; quindi l’ultimo atto è sulla mia barca, vi dicevo, e il costume di scena, almeno per l’altro, è un sacco legato a doppio filo – nessuno parla, nemmeno io, e converrete che il mio non parlare avvalora quello che vi stavo indicando poc’anzi. C’era stata la cerimonia, quella mattina, e me la sono guardata dal fondo della chiesa come sempre; il mio posto non è mica tra i parenti e gli amici, nemmeno tra i conoscenti. Non conosco nessuno, d’altronde, e nessuno conosce me. I parenti – che non vedo qui tra voi, tornati alla bella città senza dubbio – sapevano perché ero lì e non chiedevano altro, bene così. Noto, e questo vale anche per voi presenti, che non chiedete mai neanche la destinazione, non è vero? Vero. Ed è una curiosa usanza che quando l’ultima condoglianza se n’è andata il parente più stretto mi guarda, mi fa un segno. Dà un ultimo saluto, sì? Poi vanno via tutti, pure il prete sparisce – nevvero, Monsignore? Omaggi. Va a suonare la campana una volta e basta.

Eravamo arrivati, dico, lì, quasi. All’isola che si avvicinava. Quante volte, signori – e signore, perdòno – quante volte ho fatto nel tempo quel braccio di mare. Duemila? Cento? Non lo so – come vi dicevo la mia testa non pensa quando non c’è da pensare. Va fatto e basta, concorderete. In effetti ho problemi a ricordare il giorno preciso – forse era il giorno del postino, o meglio il giorno dopo, o forse il giorno della signora che viveva da sola – vogliate comprendere: non è per cattiveria, ma io sono uno e loro tanti. Non lo so, non lo posso sapere. Mi ero distratto, del resto, come adesso, e la barca mi ha come svegliato. Ha grattato, sì?, sulla spiaggia dell’isola, i remi si sono conficcati nella sabbia, e tutto insieme ero di nuovo lì, ancòra come sempre. Sì, l’Isola. Sì, non lo sapreste, non è vero? Non lo chiedete, non l’avete chiesto.

Quindi mi sono caricato in spalla il mio, dicevo, compagno di viaggio, e avrei giurato che parlava – mi era sembrato di sentirlo lamentarsi. Ora posso vedere le orecchie drizzarsi, ma vi assicuro che ero nel pieno della presenza a me stesso. Ho, del resto, avuto cura di dire che mi era sembrato, vi ricorderete. È un fenomeno comune, del resto, dato dalla solitudine e dalla particolare natura del viaggio, allo stesso modo di una casa nella notte e dei rumori che produce. Cose ignote nel buio, supposizioni quasi sempre avventate. Per esempio ogni passo sulla sabbia sembrano voci; sono– sembrano voci cattive, che vogliono che vai via; io ci sono, però, abituato, sì, non mi faccio impressionare. Capite bene che un altro si sarebbe guardato indietro, sempre; sarebbe però, signori, quello sì un segno di follia, signore – pardon –, sì ché sull’isola ci sono sempre e solo io. Non c’è voce, richiamo, nessuno caccia nessuno, nessuno si lamenta per quanto forte si voglia ascoltare. Ora ma voi non la conoscete, non ci siete mai venuti – ah? Non ne avete mai avuta l’intenzione, e mi pare che non vi si dà torto. Ma dovete sapere che, finita la spiaggia, c’è una foresta. Non verde, no, vedete, il che è quello che una persona sana pensa quando pensa alla foresta, ma grigia – dal momento in cui entri: grigio. Rami, foglie, poco cielo che si vede. A parte il muschio, quello è nero, e si mangia i tronchi. Quello è nord, sapete? Se non sei me non sai neanche da che parte stai guardando, heh. E l’odore. L’odore signornò non è di foresta. Lo era, io credo; adesso è putrido di una cosa che una volta profumava. Dei fiori che dopo le vostre belle cerimonie il parroco butta via dietro la sagrestia, dove muoiono. E io non lo concepivo, commensali, ma ora concepisco – è odore di sazietà. La terrà è stata ingozzata e ora sta restituendo. Sì, da io e voi. Sì, ecco il mio piccolo segreto. Vero! Non lo sapevate e non lo volevate sapere! A nessuno importa fintantoché arrivo io e mi metto in spalla il caro estinto! Lontano dagli occhi, sìssignorimiei, prima si toglie di mezzo – e signore – meglio è e si può tornare alla vita. Lasciatemelo dichiarare, allora, perdònino: io non sarò molto, ma voi siete gli ignoranti. Occhi, orecchie, naso chiusi. Mai neanche visto dove li metto. Mai preoccupare le vostre belle teste: ci ho pensato io. Tutti questi anni ci ho pensato io: non li ho lasciati agli uccelli – fosse per voi… e così cammino nell’aria e la polvere leggera, avanti nel marcio; spesso dovevo chiudere gli occhi.

E io – sarà– per tutto il mio parlare di abitudine, mi venga un colpo… ce l’ho sempre quel brivido dietro la schiena. Non sulla spiaggia ma con gli alberi sì. Vero, ho dichiarato altrimenti, ma confesso che il posto in verità ti dice che non sei benvenuto (a una mente meno impressionabile, anche se il continuo attacco fiacca anche un sano come me). Ci credi davvero che lo stai disturbando, il posto, alla fine. Umido come un fiato vicino. Voleva marcire pure me, l’isola, penso, perché mi butta quest’alito d’acqua. Il morto in spalla: sempre più pesante. Il fiato mi mancava, confesso.

Ora se non fossi sicuro di quello che dico non vi direi che l’ho visto: le ho viste muoversi le foglie anche se non le ho sentite; e voi capirete che ho girato la testa tanto forte che, sapete, un dolore al collo, normalissimo. Sono quasi caduto, io e la salma. Avrei pensato in quel momento che tutti gli spiriti davanti a me e tutta la follia dietro di me, e che non potevo chiamare perché non potevo assolutamente emettere rumore, che se mi volevano prendere non potevo farci niente. Ma è un sasso che ho calciato: sì, dev’essere quello, ho pensato; e la mia ombra, non c’è dubbio. Com’era curva, notavo, un vero gobbo, ah. Un folletto, e andavo su e giù, di nuovo in piedi. Camminando mi sentivo forte di nuovo. Vista non più annebbiata, e ne avevo bisogno – mai sono riuscito a tracciare un sentiero, ché la foresta se lo riprende, e io sono solo. Nessuna impronta mia, notavo ora per la prima volta. Dovete capire che quando morite io vado lì, e sempre per la stessa strada. E voi morite tanto. Ma niente, niente erba schiacciata, niente terra spostata da stivali. Come sporcizia spazzata via da una porta, eh? Ci credereste che mi sarò fatto impressionare da questi pensieri? Perché mi sono sentito debole di nuovo: non ce la facevo più a portare il crepato. E i miei passi: i miei passi facevano un rumore orribile. Toum – Tum – To.

E se ci sono davvero gli spiriti, e li sto svegliando?

Ma poi ancora riuscivo a vedere meglio, ma non ero io: era la foresta che finiva. Luce lasciata entrare. Di nuovo l’odore del mare. Mi coglie sempre di sorpresa. Voi non la conoscete, non ci venite, ma finiti gli alberi il precipizio. A capofitto nel mare, sì? Mille volte lì prima ci ero arrivato, ma questa volta ero stanco e, ebbene, avevo paura; petto che cerca aria come se affoga, eh? Ho messo giù il mio peso – non se la prenderà – e io in piedi vicino al bordo, il petto su e giù, e potevo guardare. Ora, voi non ci venite, ma da quel lato giù dal precipizio l’isola finisce con un anello nel mare, un anello di pietre che quasi si tocca dall’altro lato, e il mare lo riempie. Non lo sapreste, ma è un bel salto. Un momento di respiro, inutilmente cerco di alzare la testa, ma non potevo: il sole era cattivo e non voleva, bruciava bianco e cattivo verso di me. Occhi chiusi, io. Ma meglio prima che dopo, ho pensato a un tratto; così ho buttato l’anima di sotto, capite? Ah, eccolo qua, ve lo leggo davvero negli occhi adesso – non lo sapevate, e d’accordo, ma non lo immaginavate? Pensavate che la terra fosse infinita? È un’isola, perdonate…

La cosa è andata giù come una pietra, e un’esplosione, la schiuma sfrigolava acida e bianca. Allora l’ho visto, e davvero vi dico, come vedo voi ora. Il punto dov’era caduto – ancora bianco, tondo, i cerchi si allargavano verso l’anello di pietre. Un occhio, blu e bianco occhio gigante, senza palpebre, che guardava me, e nient’altro. Non la vista familiare di sempre. Quel giorno ho capito che un occhio d’acqua non ha lacrime di pietà. Così eccoli ancora: gli spiriti dietro di me e quello sguardo davanti a me. Togliti di qua, ho pensato sanamente; il mio collo, però, non ne voleva sapere di spostarsi. Rimasto lì in piedi, occhi nell’occhio. Sudore, denti strisciati insieme; petto che bruciava fino alla gola. Le braccia e le gambe: massi. Respiro non entrava in bocca. Mente urlava e scappava via, corpo rimaneva fermo.

Quello sguardo maledetto.

Ho chiuso gli occhi contro le gocce che me li aggredivano. Un momento di pace, e quando li ho riaperti ho visto i miei piedi, e i miei piedi non avevano motivo di stare lì. Poi ho visto la parete che saliva. Ho capito, e ho chiuso un’altra volta. L’acqua mi ha colpito come un toro. Dev’essere stato un boato mortale, ma io non l’ho sentito, vi dico.

L’Isola sì.

Io avevo nelle orecchie solo l’ultima aria che sfrigolava via, e io, vi dico, ho aperto di nuovo gli occhi, e ho pensato di non averlo fatto: nero, tutto; e mi toccava e io lo sentivo. Dentro i miei occhi, nelle orecchie fino al cranio, dentro il naso. Niente luce, quanto profondo? Girare su me stesso e non trovare la superficie. Poi le luci. Le luci, insisto, le Luci. Si accendevano a coppie, e ancora e ancora, e presto non le contavo più. Eccoli, finalmente: milioni. Come il cielo della notte, e le stelle si accendevano intorno a me. Ma non stelle: occhi. Osservavano, si prendevano gioco, accusavano soprattutto. Sapevano il mio nome, e chiamavano a giudizio (non diversamente da…). Mi era stato a lungo permesso di comminare la sentenza, camminare per l’Isola. La paralisi mi aveva ripreso, gli occhi ondeggiavano. Niente altre forme, niente capire la distanza, ma mi avrebbero preso, sì: avrebbero avuto tutto il tempo. Ancora più vicine, e io desideravo giustamente essere morto nella caduta. Si scambiavano di posto, volavano una dietro l’altra. Le mie orecchie piene di rumore assordante, recede e avanza, battere e levare. E giravano, giravano in vortice su a incontrarmi. Felici, ridevano, di gioia gridavano, immaginavo i loro denti sulla mia mente. L’udito andato via, la luce insopportabile. Cieco e sordo. E muto.

Sono state le bolle che ho avvertito, le bolle dell’ultimo respiro preso sulla Terra. Sentite uscire dalla bocca e poi andare verso l’occhio, il mio. Vedete, un folle non avrebbe fatto il collegamento che quello doveva essere su. Ma quel pensiero mi aveva distratto, fatto perdere tempo, e qualcosa in quel tempo mi ha toccato la mano. Temo di essere diventato un animale, per un tempo. Con le unghie ho nuotato, strappato via l’acqua, sì?; cercato di andare su, e su. La furia dell’Inferno dietro di me. Ho rotto la superficie, e l’aria era fredda. Contro la volontà del mio petto di riempirsi, potevo solo gridare. Non c’era tempo. Non c’era tempo. Mi avrebbero preso. Cieco ancora, ho colpito la roccia, mi sono ferito alle braccia per uscire da quella pazzia; steso sulla roccia, il mio corpo si agitava da solo riuscendo a malapena a respirare. La pancia andava su, e giù, e su. Mi sono rotto la voce, sì.

Potevo vedere di nuovo, a un certo punto. Era notte e io non lo sapevo, ancora sul bordo dell’occhio – così il mio corpo è partito. Le dita piangevano di dolore, ma trovavano forza inaspettata, appigli.

Vorrei esserci rimasto, confesso.

Finita la mia scalata, e la foresta era là: aspetta, sfida. Gioca. La mia mente era lontana, così sono entrato.

Certamente, stimàti, conoscete gli incubi in cui non ci si riesce a muovere, scappare; io stesso avevo provato proprio quello nell’acqua, no? Per certo so che non sapete degli incubi in cui non puoi stare fermo. Che io sia dannato, l’ho fatto. Ho camminato, dentro l’incubo, contro ogni avvertimento di me stesso. Avanti e avanti volevo fermarmi smettere di fare quell’odioso rumore ma non potevo ti prego li sveglierai abbi pietà non toccatemi per favore non farmeli vedere di nuovo stanno dormendo capisci e il tuo maledetto peso sta disturbando gli alberi devi piantarla di fare rumore per favore fermati cadi affonda nella terra lì nessuno ti potrà toccare e non verrai più fuori non muoverti ancora non un altro passo smettila di fare quel rumore non è opportuno ti ordino di smetterla schifoso figlio di una lurida cagna o ti strapperò la gola con i miei stessi denti e ti farò guardare mentre ingoio la tua carne maledetta lecco il sangue dal tuo cuore prima di darlo in pasto al primo maiale sifilitico che mi capita a tiro e voi

voi

non mi toccate ammazzerò tutti dal primo all’ultimo

e tu non ti azzardare a smettere di camminare vedo gli ultimi alberi fatti spuntare fuori da questa prigione la sabbia si sta avvicinando Oh la melodia del mare non sentirò mai più una così dolce cantilena di spiaggia in tutta la mia miserabile vita su questa Terra

che sia la più breve possibile

è solo qualche altro passo non cadere in ginocchio adesso alzati e piangi insieme a me che io non sia solo in questo dolore piangi perché vedi il mare piatto e piangi perché ricordi che la barca era qui quando il mondo non era ancora finito e ora stai guardando la sabbia e piangi perché vedi il mare e vedi che non sono stelle quelle che sono sopra e sotto gli occhi

gli occhi

che di nuovo mi hanno trovato e mi vogliono io che sono eletto tra gli uomini

e io cedo loro la mia bocca

Mille scuse, sembra che io abbia perso i miei pensieri. Come quella volta, sì? Temo che i ricordi di quella notte siano per così dire irraggiungibili per me, ma so che non osavo urlare o agitarmi; tutta la processione del male mi avrebbe trovato, concorderete. So che non guardavo indietro, non osando, verso gli alberi che sapevo che erano malvagi alle mie spalle. So che riuscivo a stare solo sulla spiaggia, non guardando da nessuna parte, in ginocchio, la mia pelle che bruciava. Questo è quello che so della notte; e poi una luce mi ha ferito ed era mattina. E la barca stava davanti a me. Dove l’avevo lasciata io, capite? Niente tracce nella sabbia, sì? Mi sono alzato: gola e– e faccia incrostate. Pianto e sbavato, ho concluso. Ma ci sono riuscito, bensì. A metterla in mare. Sì.

Ma era loro il mare, capite. Adesso lo sapevo come adesso lo sapete voi. Così non ho osato guardare fuori, né ascoltare cosa muovevano i miei remi. Solo le braccia facevo andare, su e giù, su e giù. Guardavo il legno tra i miei piedi, promesso.

E sono arrivato, sì. Toccato terra e tornato in paese, affermo; che visione che devo essere stato, ah! Puzzavo di morte e musica, come ora, ne sono certo. Sapete il resto, ma non perché. Dovreste indovinarlo. Li ho visti– come?! Gli occhi, naturalmente. Dappertutto e cercavano di toccarmi. Da me, venivano. Voi cos’avreste fatto? Dovevo cercare di spegnerli. Unghie e denti dovevo usare, mordere e strappare. Gli ultimi due li ho spenti coi pollici, e loro sono scoppiati nelle mie mani.

Come vedo voi ora, vi dico. E non sono finiti. Potranno stare dormendo ora, ma ci sono e verranno fuori. Ebbene stringere il cappio e facciamola finita. Io sinceramente vi autorizzo e vi prego. Altresì nel pieno delle mie facoltà detto la mia richiesta testamentaria: se verrà un altro al mio posto dovete dirglielo. Rispetterete la mia ultima volontà: non mi porterà lì.

Bruciatemi; datemi in pasto ai cani; mangiatemi voi.

Perché – e, Padre, potete prendere il mio sacro giuramento su questo – se il mio corpo toccherà di nuovo quell’Isola, se mi riportate a casa loro, tornerò per i vostri figli.

Vi porterò indietro con me: conosco la strada.