DIESISFrancesco Quaranta

Occhicinema

DIESISFrancesco Quaranta
Occhicinema

La prima volta che vidi Arianna non mi accorsi dei suoi occhicinema. A mia discolpa va detto che al lavoro ci andavo sempre con qualche problema in testa: ad esempio affitti, bollette, multe, o altri oneri avvilenti; ma era sufficiente anche solo il tarlo dello studio e dei venticinque anni fuori corso – io ne avevo venticinque, i fuori corso erano comunque tristemente due – o più banalmente l’infatuazione per qualche biondina francofona adocchiata al corso. Perciò, appunto, solo quando Ari si sedette di fronte a me con il suo piatto di avanzi del servizio e mi domandò “Tu studi, quindi?”, solo allora notai i suoi occhicinema. “Tu studi, quindi?”, domanda che da sola definiva il contesto provinciale di tutta la vicenda e ben diversa da un “Tu cosa studi?”, prettamente cosmopolita. E così, come in poltrona in sala proiezione, mi trovai a fissarla aspettandomi che ci fosse un senso disperso in quelle iridi.

Le piaceva Baricco. Ma tanto, troppo direi, in una maniera quasi insana. Dal canto mio, lo odiavo – ovviamente come autore, ma mi si dice che sia ancora più insopportabile come persona; come cittadino probabilmente è a posto – e solo per lei mi abbassai quasi a plagiarlo per coniare tra me e me quest’espressione: occhicinema.

Occhi panoramici, cuccioloidi al limite dell’handicap, occhi di pellicola acquosa su marrone corteccia che riflettevano la superficie di un umore altalenante, umore inafferrabile (come avrei imparato a soffrirne poi). Occhi troppo grandi per poter essere riempiti da una sola personalità. Occhicinema appunto, che tradivano storie e creavano troppe aspettative. Show, don’t tell è la regola, e lei senza volerlo ci si atteneva: tutto ciò che avrei capito sul suo conto, lo avrei colto da dettagli analizzati a posteriori, ben dopo averli vissuti (come si fa appunto con i film e come si continua comunque a fare, spesso a loro discapito, anche con le persone). Persino le parole non erano altro che dettagli sulla sua figura (che di lei poco tradivano): parlava lo stretto necessario e, quando le capitava di lasciar scorrere la lingua, si esprimeva in un idioma pressoché incomprensibile fatto di costruzioni sospese su abissi spaventosi e connettivi sparati nell’aria come bengala (segnali di fumo più enigmatici che pragmatici).

Ma sapeva ascoltare, così mi parve nel vederla lì seduta di fronte a me a rivolgermi semplici domande, invece che mangiare. Rigirava la minestra senza assaggiarla, ogni tanto aggiungeva formaggio o pezzi di pane che andavano ammollendosi mentre lei, tempia poggiata sul polso ricurvo, prestava attenzione solo a me, che a mia volta resistevo alla fame solo per poter(mi) raccontare (il mio punto debole). Di certo aveva un’ottima espressione d’ascolto: sopracciglia disegnate con tratto abbondante (non dal trucco, bensì da un generoso fenotipo), protese verso il centro della fronte come a volersi abbracciare accanto al falò dei suoi occhi per meglio sentire le parole. Un’espressione notturna, la sua, accompagnata da una bocca socchiusa, come per bere il suono (come se da lì entrasse ciò che avevi da dirle). Lavoravamo insieme in questo immenso ristorante pseudo giapponese, anche se raramente i nostri turni si sovrapponevano. Quando capitava, qualcosa tra noi si proiettava al di fuori e andava a creare un’atmosfera più accogliente (i nostri movimenti si facevano più fluidi, quando lavoravamo insieme). Tutta la prima parte della nostra breve conoscenza potrebbe riassumersi con un serratissimo montaggio di questi momenti passati a guardarsi di sottecchi dietro al bancone o per le sale del ristorante. Non mancavano, a insaporire la miscela, delle peculiarità da film indipendente: tipo il fatto che Arianna si fissasse periodicamente nel voler usare una sola mano per svolgere le varie mansioni mentre teneva l’altra bloccata dietro la schiena (come fosse legata), o che ogni volta che versava da bere a un cliente contasse fino a otto (o multipli di otto) sussurrando i numeri tra le labbra, oppure ancora che passasse mezz’ore intere incapace di stare ferma sul posto (deambulare molle e nervoso).

Ma non me ne innamorai subito: fu una scelta oculata. In qualche modo sapevo che non avrei mai apprezzato la sua cultura, né il suo background, né alcuni aspetti della sua intelligenza – avevamo amici, compagnie ed esperienze troppo diverse. Ero tuttavia abbastanza scemo da vergognarmi di questi calcoli e, nel contempo, da credere che bastasse una connessione forte – baciarla, spogliarla, fissare i suoi occhicinema da vicinissimo, assaggiarne i confini – a superare ogni perplessità (mia nei suoi confronti). In realtà, se avessi dato ascolto a quella Ari-lingua incomprensibile avrei capito che, anche legato al più robusto filo d’amore, mi sarei lo stesso perso per strada ben prima di raggiungere il centro del suo labirinto (richiamo mitologico obbligatorio che lei stessa si divertiva a fare al limite dell’abuso).

In tutta onestà, devo ammettere che la mia infatuazione crebbe esponenzialmente con gli incontri successivi, quando man mano realizzai che Ari recava un tremendo bisogno d’aiuto inscritto in ogni gesto.

Nel periodo che la frequentai (e per le settimane successive la sua scomparsa) le avrei dedicato in tutto ventisette poesie, tredici racconti, otto haiku, quattro canzoni e due incipit di romanzo (trentasette e ventidue pagine rispettivamente). Tutto inutile, dato che lei non leggeva altro che non fosse il solito Baricco o per esempio Coelho, o comunque niente che non fosse citabile in un aforisma facebookiano – non che lei facesse post con aforismi, ma il genere di letture era quello per intenderci – e ascoltava praticamente solo i Massive Attack e un certo Dub FX: un tizio australiano che faceva canzoni tutte abbastanza uguali dall’inizio alla fine, costruite con loop-station sui marciapiedi delle metropoli, e che in quel periodo andava molto in voga tra fattoni e finti comunisti liceali – un peccato perché questo me lo faceva odiare molto, mentre lui era davvero bravo come artista e, potrei scommetterci, anche come ragazzo. Il mio sforzo creativo s’infrangeva su un certo distacco di plexiglass che permeava il volto di Arianna, come se lei capisse la dedica, il sentimento sottostante, ma il sistema immunitario le impedisse di provare davvero qualcosa al riguardo. La sua non era indifferenza, era un disinteresse impalpabile, velato da un pudore più istintivo che calcolato. Una reazione che mi offendeva profondamente, soprattutto se comparata al trasporto con il quale Ari si accendeva nel parlarmi di un suo disegnetto o di un verso scarabocchiato nel corso del pomeriggio su un tovagliolo di carta. E io lì ad ascoltare, ferito (mai mortalmente), incapace di apprezzare la sua creatività acerba (non c’era mai materiale a sufficienza per verificarne il talento) e, ovviamente, accalappiato dai suoi occhicinema. In apnea in quei pozzi assorti. Quando parlava infatti, Arianna sorrideva (quando si rendeva conto di riuscirci, a parlare). Quando le toccava ascoltare, invece, si faceva corrucciata…

Cantava molto spesso Amy Winehouse, nelle pause tra un sospiro e l’altro, nei momenti vuoti al lavoro, durante i lunghi sguardi a fuoco sul nulla (in cui pareva adocchiasse un passato mai vissuto del quale preservava, in fin dei conti, solo un’imponderabile nostalgia). Della Winehouse idolatrava lo stile, il fatto che fosse stata artista di successo nonostante tutti i casini dai quali non aveva saputo tenersi lontana. Era affascinata dalla morte come pace e glorificazione di un’anima travagliata.

 

La prima volta che mi invitò a casa fu per pigrizia: le avevo chiesto di berci una birra dopo il lavoro e finì che lei, colta a metà strada tra la voglia di spaparanzarsi sul divano senza obblighi sociali e quella di stare in compagnia, mi invitò a raccattare due birre e accompagnarla. A rischio di sembrare banale, ammetto che sin dal primo sguardo al suo appartamento avrei potuto ricavare un insight abbastanza veritiero sul suo stato mentale; il fatto che non ci arrivassi è forse la misura più fedele della mia cotta per lei. Del minuscolo monolocale, non un singolo centimetro era lasciato in pace. Gli atomi stessi dei mobili, del divano, del piano cucina, del tavolo, dei pavimenti in cotto e del soffitto basso erano in un perenne stato di eccitazione dovuta alla quantità di energia che Arianna scaricava sull’ambiente. A un occhio più attento del mio sarebbe parso abbastanza chiaro come Ari vivesse accatastando le azioni l’una sull’altra: fatto rilevabile, per esempio, dai mucchi di fogli con i suoi sgorbietti poggiati addirittura sul piatto sporco del pranzo, o la cesta dei vestiti fradici di lavatrice, pronti per essere stesi, messa in bilico su un piccolo mucchio di biancheria ancora da lavare. La conclusione più ovvia – non avrò mai modo di attestare se sia poi la più oggettiva lettura del suo carattere (se esiste una sola e definitiva lettura della personalità di un essere umano) – era che Arianna non fosse in grado di pianificare nemmeno la più basilare delle attività quotidiane e che decidesse di fare le cose non più di quaranta secondi prima di farle e che fosse benissimo in grado di cambiare idea mentre si accingeva a farle o proprio in corso di svolgimento.

Mi rendo conto che possa sembrare, dalla mia descrizione, che Ari fosse un irrimediabile disastro senza attrattiva, perché di certo non era una Amy Winehouse. Il punto è che pareva mossa da istinti talmente primigeni, e agitata da chissà quali pensieri (che le occupavano il fondo degli occhicinema e le rubavano la parola), da risultare terribilmente affascinante. Non ero l’unico a subirne la malia, questo è certo: clienti del ristorante e diversi conoscenti scatenarono in me vergognosi attimi di gelosia soffocata. Tornando alla prima volta in casa sua: mi fece accomodare su una sedia – dopo averla liberata da una giacca, due magliette, uno slip di pizzo violetto, un paio di libri e un posacenere soffocato di mozziconi – e, senza emettere un singolo suono né rivolgermi un frammento di sorriso, procedette nell’ordine a queste azioni: stappò con il culo dell’accendino una delle due birre che mi ero portato, mise la seconda in frigo, guardò il sottoscritto versare i bicchieri dopo aver scelto per sé quello della Nutella con i Puffi, selezionò la musica dal telefono e poi, dopo avere atteso che io iniziassi a raccontarle qualcosa, si mise a fare una canna. Operazione che le riusciva alla perfezione grazie a un buon allenamento quotidiano.

La serata si spense nel posacenere e mi alzai insoddisfatto quando lei fece notare che s’era fatto tardi. Ero però riuscito a farla ridere, e parlare anche, ciarlare finalmente come di rado l’avevo vista fare (occhicinema filtrati di rosso e lacrime mai così dolci). Mi disse che ne aveva la nausea dei discorsi della psicologa, solo una persona in più a dirle cosa fare nella vita, e che suo padre ormai la chiamava solo per chiederle se si era ricordata di prendere le cazzo di medicine.

Poco tempo dopo, venne licenziata. Fu per via dei ritardi, delle sue stravaganze e di quelle negligenze varie che una cameriera di un giappo-cinese non può affatto permettersi – in particolare, aveva preso a fissare i clienti dopo richieste semplicissime, stando lì senza reagire come schiacciata dalle necessità altrui, arrivando a inquietarli non poco, quando non a terrorizzarli del tutto. Il fatto che non avessi più la scusa per vederla a lavoro, mi spinse a cercarla più spesso (in fin dei conti dovevo tenerla d’occhio, mi dicevo). Ci trovammo dunque un paio di volte per qualche amaro in un baretto del centro, ma appena l’autunno si fece avanti, Ari riprese a invitarmi a casa – ogni volta la scena con accoglienza scodinzolante nell’appartamento disastrato e poi subito uno spegnersi d’intenti tra birre stappate, discorsi smozzicati e fumo appena decente.

La prima canna, va detto, era sempre leggera, e grazie a essa Arianna si lasciava andare alle più svariate suggestioni dovute alla musica, alla giornata passata, o a considerazioni su come si stava al mondo, condite da frasi della canzone in riproduzione: sia perché si fermava per cantarne un pezzetto, sia perché dai testi traeva momentanea ispirazione per la propria visione della vita, pronta ad accantonarla subito dopo.

Era di fisso sulla seconda che ad Arianna sfuggiva la mano, quella che precipitava me in una spirale logorroica senza pietà per nulla e nessuno (parabola di detti e stradetti per cui avrei odiato me stesso, se vistomi dal di fuori), e lei in uno stato quasi catatonico, un annuire di sorrisi accennati e di naso sexy arricciato per colpa del fumo, che di rimando lanciava me in salti mortali linguistici al solo scopo di attirare la sua attenzione (il suo cuoricino sfatto). Quello sguardo spento dal fumo, distratto dalla musica, le risposte mugugnate sullo schermo del cellulare, la bocca socchiusa su cui mi fissavo e sulla quale immaginavo di appoggiare le tempie e dormire e sognare di fare l’amore con lei, quel suo sguardo di occhicinema in quel momento indotto dalla sostanza, ma che avrei imparato a riconoscere e purtroppo avrei ritrovato poi anche fuori dal suo appartamento, a pranzo, a cena, per strada, al nuovo lavoro; lo sguardo che in ultima analisi divenne la sua maschera prima di scomparire. Quello che ancora vedo la notte quando voglio farmi male (l’incubo dell’incomunicabile). Il mio più totale fallimento nella missione autoimposta di salvarla da una mediocre vita di provincia sorretta da psicofarmaci e abusi di varia natura.

Se solo non si fosse letteralmente aggrappata a me nei momenti di debolezza, se solo il suo mutismo non fosse cresciuto in maniera direttamente proporzionale ai miei tentativi di stabilire un contatto fisico, se solo io avessi capito quanto la straziassero tutti gli slanci nella sua direzione, tutte le ingerenze e i giudizi del mondo – compreso il mio vederla, non solo come oggetto di desiderio (era abituata a esserlo), ma con occhi innamorati (ulteriori aspettative da deludere) – se solo il mio parlare continuo e sconclusionato avesse saputo fare breccia nella gomma ottusa della sua psiche ferita e nel suo meccanismo difensivo fatto di deconcentrazioni concentriche. Se si fossero verificate tutte queste condizioni, forse avrei capito che il suo mutismo non era mancanza di messaggio, non era povertà di pensieri: ma che le sue parole tutte erano trasmigrate dalla gola agli occhi, che il suo linguaggio era stato convertito nel più eloquente e struggente spettacolo di occhicinema. Avrei capito che il periodo in cui ci eravamo conosciuti era solo una fermata di relativa quiete, una boccata d’aria prima di tornare a immergersi nei crepacci dell’impotenza (nei confronti del vivere).

Se parlo di psiche ferita è perché solo dopo, grazie ad altri personaggi più o meno indiscreti e alla rilettura distaccata di certi ricordi (show don’t tell), misi assieme i pezzi: compresi che la sua ostinazione a usare solamente la mano destra per fare le cose, in determinati momenti, era una sfida atta all’autogiudizio. Così come l’eliminare prima i dolci e poi la pasta, poi la carne e poi praticamente i pasti in toto. Auto-sentenza inclemente, mettersi alla prova (e vedersi fallire); ego cassato dai propri stessi istinti.

Finì nel nulla, senza preavviso, una di quelle sere trascorse in casa sua. La birra era esaurita, solo il fumo abbondava e riempiva la piccola cucina (che poi era tutta la sua casa) impedendoci i movimenti. Caddi nelle sue occhiaie, lei mi afferrò la maglietta poco sotto il collo (come nei film, come a chiedermi conto delle mie azioni malvagie) e fummo vicini come mai.

Non la baciai. Sia perché lei si sarebbe pentita, sia perché da quella distanza ravvicinata avevo scorto tutte le ombre dei suoi occhicinema, tutte le venature: e subito decifrai una dipendenza ben diversa dal semplice fumo da marciapiede. Mi confessò di aver sospeso i farmaci. Mi disse che era adulta e che doveva saper badare a sé stessa (non c’era scampo) e che le serviva tutta la lucidità di cui poteva disporre. Mi dimostrai d’accordo con il suo contraddirsi (parlava talmente poco che credevo a ogni sua manifestazione di supposta sincerità). Ebbi così conferma, non solo dei suoi trascorsi psichiatrici, ma anche che avrebbe potuto rivelare la cosa a chiunque altro si fosse trovato al mio posto solo perché in quell’istante aveva necessità di confidarsi. Poi, senza soluzione di continuità, disse che più tardi sarebbe passato a trovarla un amico e che avrei dovuto lasciarla, “per forza di cose”.

Andai nel panico e tutto in lei assunse le forme della realtà che fino ad allora non avevo voluto guardare. La salutai con il solito bacio sulla guancia (mira ubriaca). E poi giù in macchina, strafatto come un liceale idiota, lungo il vialetto. Giunto allo stop, mi scoprii all’improvviso padrone della mia notte e totalmente libero di essere geloso. Per pura gelosia infatti girai la macchina, non perché fossi realmente preoccupato per lei (avrei comunque avuto una buona scusa a disposizione), e tornai a parcheggiare sotto casa sua. Cercai per un po’ di intuire l’ombra di lei dietro le tende illuminate - invano, dato che aveva acceso delle candele e spento le luci, e l’agitarsi della fiamma dava vita a sagome tutt’altro che interpretabili (altri segnali di fumo, altri linguaggi). All’autoradio avevo messo You Know I’m No Good e, un po’ per Ari, un po’ per la canzone, un po’ per la vita del cazzo, un po’ per il buio e un po’ (soprattutto, come sempre) per me, mi ritrovai commosso fradicio a canticchiare in macchina in quel quartiere malfamato di un paese disperso in mezzo ai campi alla periferia di ogni buonsenso.

Fui svegliato da un picchiettare di nocche sul vetro: un tipo rasato con dilatatore all’orecchio sinistro e almeno tre piercing, sorriso sghembo, una voce che chiedeva se andasse tutto bene (e subito lo immaginai a letto con lei, stringerle un seno fino a farla gemere, soffiarle parole fumose negli occhicinema, dirle che sarebbe andato tutto bene; la mano di lei che lo accoglie, che gli crede…). Ingranai la retro di fretta e lasciai il vialetto.

Tempo dopo si presentò al ristorante in cui lavoravo una donna sulla quarantina che dava l’impressione di essere stata bellissima in passato ma che (Monna Lisa provinciale) portava ormai i segni di tempi malsani e ambienti tossici, e le crepe di troppe incertezze non risolte. Quella donna tenuta insieme con il nastro adesivo fu la cosa che più mi fece pensare ad Arianna, nei mesi successivi.

(Lei, non la rividi mai più).