Merricat
Mi sono sempre vendicata. Ho la rappresaglia nell’astro, io. Sin da quando facevo lo sgambetto a chi chiamava il suo peluche rubando il nome al mio. Non si fa un torto a chi ti presta ogni tipo di cortesia se glielo chiedi gentilmente. Non lo ammetto. Io sono un pezzo di pane. Me lo ha sempre detto anche la mia mamma. E le mamme dicono solo poche bugie alla volta. Per esempio quando ti portano dallo zio per fare merenda con la crostata della nonna che sta dormendo in soffitta e che non scende mai perché le si stancano le gambe. Chissà. A che ora tornerà a riprendermi stavolta. Di solito bussa alla porta quando la lancetta grassa è sul cinque. Chissà perché non aggiustano mai il campanello guasto della porta di casa. Non mi dispiace venire qui anche se sono un po’ combattuta. C’è qualcosa che non capisco. Però amo i colori. In questa casa c’è una stanza con tanti tubetti, quelli arricciati sono tutti a terra, gli altri stanno ordinati in valigette marroni. Lo zio dice che il rivestimento è in pelle di cammello, che puzza perché per risparmiare fanno una certa concia con la stessa urina del cammello, là in Marocco dove c’è tanta umidità. Dice che se so apprezzare gli odori e i colori del mondo allora da grande viaggerò e sarò libera. “Ma libera da cosa?” penso io. Chissà. Ultimamente indossa solo una vestaglia blu di Prussia, è di raso e leggera. “Fa caldo” mi dice. “Togliti pure i sandali”. Finalmente posso camminare scalza. La mamma non me lo permette, nemmeno in piscina.
Mi piace sentire il pavimento in modo diretto, appiccicarmici col sudore, raggrinzire ed estendere ogni dito per avere totale contatto con quel che sorregge il mio peso. Forse ho mangiato troppa crostata, ma tanto non mi ha visto nessuno. Mamma se ne è andata da un pezzo, la nonna riposa, e lo zio...non lo so. Ma non è qui, lo sarà tra poco. Mi chiama sempre dopo che ho fatto pipì. Mi porterò questo gonfiore addosso ancora per poco. Vado a farla.
“Merricat!” grida dal secondo piano. Lo raggiungo nella stanza della pittura.
“Oggi dipingo io? Posso? Posso?”
“Non ancora Merricat, si inizia un lavoro alla volta. Lo zio ha iniziato questo ritratto a cui tiene moltissimo, una volta che l’avrà finito, allora sarà il tuo turno”.
“Ma me l’avevi promesso!”
“Che ti avrei fatto disegnare una volta che avessimo terminato questo lavoro. Su, non fare i capricci. Sei grande ormai”.
Io sono grande solamente quando devo stare zitta. Ho imparato questo. Mi ripetono “Non sei una bambina” ogni volta che dico la mia opinione, e rivendico una promessa mancata. Quando sarò adulta non dirò mai ad un bambino che non lo è, non dirò mai una bugia. Me lo ha insegnato papà prima di addormentarsi, mi ha fatto promettere che sarei stata brava. Chissà cosa intendeva per brava, chissà chi dovrei ascoltare... Io non lo so, non lo so proprio cosa significhi. Penso andrò tastoni.
“Dai, aiutami un po’”.
“Che colori devo cercare?”
“Allora, oggi mi porti la tempera color albicocca”.
“Trovata...Poi? Poi?”
“Poi mi serve un blu polvere”.
“Ma ci sono tantissimi blu!”
“Cerca bene, dai. Guarda che se vuoi dipingere devi conoscere tutta la gamma dei colori”.
“Blu ceruleo?”
“Ti sembra la stessa cosa?”
“Ma io non lo so com’è il blu polvere... tanto è solo blu”.
“No. È un’altra tonalità. Molto più chiara”.
“Potevi dirlo prima, eccolo!”
“Merricat, se vuoi dipingere devi avere pazienza”.
“Uff”.
“Ora mi cerchi color catrame, e conchiglia”.
“Color conchiglia? Che bello! Lo voglio usare io, lo voglio usare io!”
Una volta trovato tutto il bottino, glielo sistemo su un vecchio comodino usurato dai tarli. Chissà come sono i tarli, non sono ancora riuscita a vederne uno. Chissà se anche lo zio racconta poche bugie come la mamma, o ne dice molte, ma molte di più.
Perdo tempo mentre lo zio sceglie i pennelli e li ripassa con il polpastrello dell’indice per valutare se sono ancora abbastanza morbidi, o se sono stati puliti correttamente.
So benissimo che è arrivato il momento. Non mi va molto di farlo però voglio disegnare. Tanto ormai abbiamo già iniziato. Tanto l’ho già fatto una volta e da allora non è cambiato niente. Va bene dai, spogliati e falla finita. Sennò non potrai mai disegnare e far vedere allo zio quanto sei brava.
“Così stai molto più fresca. Non senti che caldo c’è?”
“Quanto ci metti stavolta?”
“Il tempo necessario”.
“E quanto è?”
“Se fai la brava, poco”.
“Ma mi annoio”.
“Merricat, devi imparare ad avere pazienza, quante volte te lo farai ripetere?”
Mi sistemo come vuole lo zio. Alzo gli occhi al cielo sbuffando e ci rinuncio: mi toccherà fantasticare. Non ho molta fantasia, ripenso al cammello. Non ricordo se ha una gobba o due, no. Forse quello è il dromedario. Chissà se ci si può sedere in mezzo, proteggersi davanti e contemporaneamente le spalle. Chissà se ondeggia. Chissà se gli starei simpatica o mi scaraventerebbe via perché peso troppo. Chissà se c’è più caldo che qui. Chissà se lo zio ricopia i rotolini della pancia, chissà se mi mette lo smalto. Mamma dice che sono ancora troppo piccola per queste cose. Però lo zio dice che una pittura non deve necessariamente rispecchiare la realtà, che può essere modificata a seconda di chi la interpreta. È un concetto che non mi è del tutto chiaro, ma credo che se volesse aggiungermi un po’ di rosso sulle unghie delle mani e dei piedi, nel ritratto potrebbe farlo.
“Mi metti lo smalto?”
“Lo sai che la mamma non vuole”.
“Nel disegno”.
“Assolutamente no”.
“Perché?”
“Perché sei perfetta così”.
“Io sono perfetta? Così come?”
“Esattamente così come sei. Come ti ha voluta la natura”.
“Zio ma sei impazzito?”
“Tu impazzirai, se cercherai di sembrar grande a tutti i costi. Sai, capita a tutte le bambine, voler crescere prima del tempo. Imitare la propria madre. Guarda la tua: ti sembra contenta?”
“Non lo so...”
“Non lo è, ed è proprio per questo che indossa sempre lo smalto rosso”.
“A me piace”.
“Sono sicuro che ti piaccia, Merricat”.
“E poi la mamma è buona, mi vuole bene”.
“Merricat, le persone migliori sono quelle che piangono di più. Vuoi viaggiare, esplorare il mondo, imparare le differenti culture, essere libera come ti dice sempre lo zio, o vuoi ingrassare, partorire, e restare a casa bella e buona consolata dallo smalto?”
“Tutte e due”.
“Una cosa esclude l’altra, amore mio. Lo imparerai presto”.
Forse lo zio è confuso, forse ora è chiaro che dice molte più bugie di quelle che si inventa la mia mamma per non farmi arrabbiare. Forse, se salissi su un cammello, potrei scappare via nel deserto e nascondermi. Forse morirei di sete. Forse non si può proprio fare. In fondo, l’acqua in casa non manca mai. Io lo smalto devo proprio provarlo.
Non so quanto tempo è passato, so che siamo al solito punto in cui sento piacere. Mi si avvicina e il suo fiato corto mi sbatte sul collo. Lo zio mi fissa, lo so anche se guardo altrove. D’altronde mi punta da quando siamo entrati in questa stanza. Mi piace questo momento, è l’unico in cui non mi annoio. Anche se fa molto caldo e sudo più di prima, almeno faccio qualcosa che non sia fissare l’orologio.
La mia amica Eve non lo ha mai fatto con lo zio. Dice che queste cose le fanno i grandi, che ci sono proibite. Non ha voluto nemmeno provarci con me nonostante la mia insistenza. Chissà se ha ragione. Forse non dovrei far nulla, scappare sul mio cammello e andare lontano piuttosto. Ma non mi è ancora chiaro cosa mi permette la mia età. Gli altri mi confondono. So che ho promesso a papà di fare la brava. Ho deciso che avrei seguito l’istinto. Il corpo mi dice che mi piace fare questo con lo zio, esattamente come mi piace mangiare la crostata della nonna. Non dev’essere tanto difficile capire cosa è giusto e cosa non lo è. Per esempio, quando la tazza di latte scotta troppo, io mollo subito la presa, e la lascio ferma a raffreddare. Seguo un impulso naturale. Deve funzionare così, finché non brucia o non scotta, non può far male. E questo è piacere, piacere fortissimo. Ne sono sicura.
Lo zio si asciuga tra le gambe col lato pulito di un panno sporco di acquaragia. Puzza.
“Lo sai che le setole di questo pennello sono di cammello?”
“Come di cammello?”
“Sì, proprio di cammello”.
“Adesso ho tanta sete”.
“Vai a prenderti da bere da sola”.
“Tu non vieni?”
“Ti raggiungo. Lo sai che il dipinto è finito?”
“Evvai, evvai. Fammelo vedere”.
“No, è una sorpresa. Quando sarà pronto nella cornice sarai la prima a vederlo. Per ora non dire nulla alla mamma”.
“Mi fai dipingere ora?”
“La prossima volta”.
“Ma me l’avevi promesso! Sei un bugiardo!”
“Ma quale bugiardo? Tra poco torna la mamma e te ne devi andare”.
“Ti odio! Ti odio!”
Mi scaglio sul suo lavoro con la punta del manico del primo pennello che trovo. Non faccio nemmeno in tempo a sbirciarlo che è già sbrandellato come una vecchia coperta stracciata dalle fauci di un cane. C’ero io lì, su quella tela. Non può avermi se non mi fa colorare. E se non ho un cammello su cui saltar via, allora faccio quello che posso. Anche la mamma mi punisce quando non rispetto le regole. Ora è il turno dello zio. Un patto è un patto.
“Ti odio!”
“Brava. Hai rovinato tutto. Ora ti odio anche io che ero l’unico ad amarti davvero”.