La carriera spezzata

La carriera spezzata

Il mio cane si chiamava El Indio, come un famoso personaggio interpretato da Gian Maria Volonté. Era un bastardo di strada, vecchio e smunto: lo trovai una mattina d'agosto. La città era libera dai lavoratori, e l'animale era libero da padroni, con l'istinto da bandito a guidare il suo girovagare. Quando la vidi, la bestia stava in mezzo a Corso del Popolo, in pieno sole, e montava con colpi piccoli, precisi e inesorabili una minuta barboncina. Pensai che la cagna, dall'aspetto costoso, con ogni probabilità era stata abbandonata da un vacanziere disperato. Poco lontano un altro cane guaiva e perdeva sangue, un levriero di razza, certo più incline ai salotti che alla lotta. L'intera scena mi rammentò subito il film di Sergio Leone, quando El Indio stupra la sorella del colonnello e ne ammazza il marito.

 Alla fine del breve coito – assistere al quale mi provocò una moderata ma apprezzata erezione che riuscii persino a conservare per qualche minuto – lo convinsi a seguirmi sacrificando il panino al prosciutto che mi ero preparato per il pranzo. Il perché di questa mia azione non l'ho mai capito con piena chiarezza, ma temo che sia stata una specie di riconoscenza inconscia, un atto dovuto: all'epoca soffrivo di impotenza e quel bastardo era riuscito lì dove i medici si erano dimostrati dei ciarlatani.

Per tre anni El Indio si rivelò una piacevole compagnia, un amico dolcissimo, mite e fedele.

Al termine del terzo gli diagnosticarono una merda alla gola e dovetti sopprimerlo. Ci pensai io stesso, prendendo spunto dal film che l'aveva battezzato. Lo portai in cortile, lo feci saltellare ai miei piedi per l'ultima volta, e poi premetti il grilletto, pensando alla barboncina e al levriero. Subito feci le pulizie in silenzio, un sacco di brodaglia grigia e rossa si era riversata sulle mattonelle, e ci tenevo alla quiete con il vicinato. La sera deposi la carcassa nel cassonetto più vicino. Mi sarebbe piaciuto poi, una volta tornato a casa, poter suonare il terzo movimento della sonata numero due, opera trentacinque, di Frédéric François Chopin. Magari seduto davanti a un pianoforte a coda Shigeru Kawai, con coperchio aperto, a far risuonare un condominio intero in suo onore. El Indio se la meritava, la marcia funebre: purtroppo la mia tecnica strumentale era limitata alle poche lezioni di flauto dolce soprano prese tra la prima e la seconda media, e il cane dovette accontentarsi di qualche fischio, in tonalità e tempo forse sbagliati. Del resto, El Indio aveva sempre amato i miei fischi: ancora oggi me lo immagino, sorridente, in paradiso. 

Per riprendermi dalla morte improvvisa del mio migliore amico mi rifugiai nel lavoro. Aumentai le ore dedicate alla mia professione, senza chiedere nulla in cambio alla direzione.   

  Quel giorno tutti mi avevano porto le condoglianze, come se si fosse trattato della morte d'un cristiano. Sapevano quanto fossi legato al vecchio bastardo. Allora pensai che mai avevo raccontato ai colleghi come avevo acquisito la proprietà del mio animale da compagnia. Era un ricordo intimo, soprattutto riguardo ad alcuni particolari, e avevo sempre temuto di essere additato come uno non a posto, un eccentrico, un viscido, persino un maniaco.

Nessuno in ufficio era mai passato per maniaco. Eppure, in seguito al decesso di El Indio, successe un fatto che suscitò l'interesse del mio sopito spirito critico.

Il numero due di quei luoghi, il dottor Turvani, divorziò dalla moglie. Pare che la picchiasse tutte le sere, con la cintura, con l'anello – la fede – e anche con il cazzo stesso, usato a mo' di clava. La povera si era decisa a parlare e pare avesse presentato in tribunale prove convincenti. Ci furono conseguenze anche penali. Il dottor Turvani era famoso non solo per la sua incompetenza ma anche per la veemenza con la quale pubblicizzava, a noi sottoposti, alcune organizzazioni non lucrative di utilità sociale che avremmo potuto sostenere con pochi euro al mese di domiciliazione bancaria permanente. In genere progetti a beneficio di migranti, trovatelli, e altre categorie le più diversamente sfortunate.

Io, a volte, ancora mi masturbavo pensando al mio cane e alla sua barboncina, ma mi convinsi che, sebbene quel mio piccolo segreto non fosse un buon argomento di conversazione con i colleghi, questi ultimi avrebbero potuto conservare di me una buona opinione considerato quello che invece faceva di nascosto il dottor Turvani. Ciò, nonostante io non avessi mai cercato di convincere nessuno a partecipare ad azioni di carità collettiva, e tenessi anche nascosto il fatto di non aver mai contribuito a finanziare nessuna delle ONG proposte dal manager.

Qualche tempo dopo mi convinsi anche che, come ce l'avevo io e ce l'aveva il dottor Turvani, ogni persona all'interno di quel luogo frequentato da tutti e per così tante ore doveva avere un segreto più o meno buffo, scabroso, torbido o addirittura sanguinante.

La prova stava nel fatto che tutti ora si guardavano a vicenda con uno sguardo più profondo del solito, come se ciascun collega stesse pensando quello che pensavo io: se Turvani e io siamo dei maniaci nel segreto dei nostri pensieri, allora anche gli altri lo sono di certo.

L'alta percentuale di chi aveva una doppia vita, o anche solo una doppia personalità, era sintomo di qualcosa di grave.

Lo capii solo qualche anno dopo, al compleanno di mia nipote.

La piccola guardava la televisione insieme ai suoi amici. Un canale tematico di cartoni animati, uno di tanti, qualcosa di inconcepibile per quelli della mia generazione cresciuti con Bim Bum Bam di Paolo, Manuela e Uan. Ne guardai tre o quattro insieme al gruppo di minorenni, già suscitando in una coppia di genitori qualche sguardo inquieto nei miei confronti.  

Ebbene, in quelle storielle televisive non c'era conflitto. Vincevano tutti. Buoni e cattivi. Grassi e magri. Le punizioni per i più birichini erano ridicole. Il linguaggio era privo di colore. Come se la mano di Catone il censore fosse sopravvissuta al secondo secolo avanti Cristo passando poi indenne attraverso il secondo dopoguerra dell'irriverente Tex Avery, gli anni Sessanta della rivoluzione sessuale, i Settanta del rock più zozzo e sincero, i coloratissimi anni Ottanta e la languida depressione dei Novanta.

Chi scrive le battute dei cartoni animati odierni, in piatta orwelliana neolingua, ha paura di qualcosa. E questa paura si riflette ovunque, non solo nei bambini ma anche nei loro educatori, castrando il comportamento di tutti. E se le azioni vengono camuffate, allora il pensiero si ribella, va fuori controllo, quello che non si dice dev'essere sfogato.

Quella sera tornai a casa e feci quello che dovevo fare.

Aprii il social network. “A cosa stai pensando?” AL MIO CANE, EL INDIO, MENTRE SI SCOPA UNA BARBONCINA DA PAURA IN CORSO DEL POPOLO... E IN SUO ONORE ME LO STO MENANDO ALLA GRANDE!!!! :-D :-D :-D

Ottenni molte condivisioni del post, forse troppe perché il mio licenziamento arrivò dopo pochissimi giorni. Mi convocò il direttore nella sua stanza. Ero chiacchierato. La situazione non faceva bene all'azienda. Ufficialmente mi dimisi: non feci alcuna obiezione. Mi diede pure una pacca sulla spalla, uscendo, e un assegno da cinquemila euro. Immagino che si sia lavato le mani subito dopo.

Il dottor Turvani, il suo vice, usufruì della condizionale e pochi mesi dopo, alla pensione del direttore, divenne lui il boss. All'insediamento, l'ex moglie prese parte al buffet salatini e moscato del marito, applaudendolo davanti a tutti i sorridenti colleghi.