Labili orme
“Qualcosa che abbiamo già conosciuto e dimenticato…”.
Era, quello, non tanto un tormento, più un pensiero ricorrente, piccolo e inutile, simile all'onda di un lago.
In cielo anatre nere si trasformavano in altre bianche – e viceversa – come nella famosa silografia di Escher. In realtà, questa descrizione darebbe un'idea troppo cupa di un paesaggio che non lo era per nulla, ma così lo vedevo in quei giorni.
Ripensandoci, tutto questo non aveva alcuna importanza.
Avevo davanti il grande lago chiuso tra “due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi”. Mi ero trasferito in città da un piccolo paese siciliano – che in realtà erano due: uno soprano e uno sottano – paese di montagna e non di mare. A quel tempo portavo i baffi.
Guardando il lago mi venne in mente, senza una ragione precisa, l'immagine di un uomo completamente nudo, a testa in giù, immerso nell'acqua fin sotto il petto, come se si fosse tuffato troppo vicino alla riva e fosse rimasto piantato sul fondo come un palo. Si copriva il sesso con le mani e aveva le gambe larghe in aria; in mezzo a queste ultime era poggiato un grande uovo di pietra, in parte schiuso, da cui usciva un uccello bianco dal becco lungo e sottile, mentre un altro volatile nero stava appollaiato su un ramo che trapassava l'uovo da una parte all'altra. La scena, che si era formata nitida davanti ai miei occhi, doveva essere il ricordo del particolare di un dipinto, del quale non avrei saputo dire né il titolo né l'autore. L'orologio segnava le undici e trentacinque del mattino.
Da quando ero in città, la mia vita si era ridotta a un insieme di azioni sempre uguali: una routine autoimposta che cercavo di perfezionare con il passare dei giorni, quasi fosse un gioco con precise regole da rispettare, regole che rendevo sempre più rigide, come compiere lo stesso numero di passi o cercare di calpestare gli stessi sampietrini in via Borgo Vico, da casa fino al lavoro. Solo l'ultimo giorno della settimana sfuggiva alle abitudini, anche se rientrava in quelle feriali della domenica: andare al parco, sedermi sulla solita panchina e guardare il lago.
In quei giorni d'estate il livello dell'acqua si era abbassato in maniera notevole, tanto da creare una lingua di sabbia e ciottoli che dalla spiaggetta proseguiva verso il centro del lago per una decina di metri, sulla quale la gente camminava a piedi nudi. La settimana prima quel breve sentiero non si vedeva, ma neanche questo aveva particolare importanza.
Era importante sapere, invece, che talvolta l'azione di un uomo coincideva con la stessa azione compiuta da un altro uomo, anche se i due non avevano nulla in comune se non quell'atto: non si erano mai visti, non vivevano nello stesso luogo, né nel medesimo tempo.
Dal mio arrivo nella città con il lago non avevo conosciuto nessuno; se fossi sparito dall'oggi al domani tra i boschi, incamminandomi per uno dei tanti sentieri di montagna, nessuno lo avrebbe notato, nessuno sarebbe andato a denunciare la mia scomparsa né dopo ventiquattro ore né mai. Non avevo lasciato nessun parente prossimo nella mia terra d'origine, e avevo allontanato con il tempo i pochi amici. La mia figura, il mio volto sarebbero presto svaniti dalla memoria di chi era rimasto. La parola dei pochi che mi ricordavano sarebbe stata messa in discussione, tanto da creare dubbi e incertezze anche in loro stessi. In breve esser scomparso o non essere mai nato sarebbe stata la stessa cosa.
Ma anche di ciò che importava? Un pensiero ricorrente era la mia vera routine.
Prima che partissi dal paese senza mare dove ero nato, quando avevo messo assieme la mia roba – poche cose a dire il vero – avevo ritrovato un vecchio taccuino, sulla cui prima pagina avevo scritto proprio quella frase. La frase cui ripensavo più volte al giorno, ogni giorno, spesso contro la mia volontà, proprio come quelle fissazioni che nella peggiore delle ipotesi portano alla pazzia; e ogni volta che mi tornava in mente mi affliggeva una sorta d'inquietudine. Ma inquietudine per cosa? Non riuscivo a capire se mi turbasse la frase in sé o altro, e più mi ostinavo meno mi avvicinavo a una possibile risposta. Conoscevo l'origine di quella frase; avevo infatti avuto l'accortezza di scrivere da dove era stata tratta: un libro che avrebbe dovuto chiamarsi Parla, Mnemosine, ma che non era poi stato chiamato così perché, come aveva dichiarato il suo stesso autore, non poteva avere un titolo impronunciabile alle anziane signore che dovevano comprarlo. Non era però questo il punto, la questione era un'altra: non ricordavo né quando né perché avessi trascritto quella citazione, o meglio quella che credevo fosse una citazione. Infatti scoprii presto che la frase che avevo riportato sul quel taccuino non era presente in nessuna delle pagine del libro; avevo controllato più volte, ne ero certo. Per poter apprezzare appieno un trompe l'oeil in tre dimensioni, per comprendere l'immagine che rappresenta, dando un senso a forme e dimensioni che sembrano incoerenti, bisogna posizionarsi alla giusta distanza, in un punto esatto. Ecco, io non riuscivo a capire dove collocarmi, perché non sapevo dove fosse quel punto.
Davanti a me, alcuni bambini facevano il bagno in mutande sotto il cartello che vietava la balneazione; le madri, sedute su una panchina accanto alla mia, avevano il capo coperto da un velo e chiacchieravano in una lingua sconosciuta. Adesso l'orologio segnava le dodici e tre minuti: ero in ritardo, mi stiracchiai, mi alzai e andai via; le due donne mi seguirono con lo sguardo, non ne ero certo, ma ebbi quell'impressione.
*
Pareva fossi l'unico a conservare un ricordo della sua permanenza materiale su questo pianeta: quell'uomo pareva non essere mai esistito. Fummo compagni al liceo, per cinque anni. Forse aveva un fratello, non ne ero certo, e a dire il vero dell'esistenza di quel ragazzo timido e bravissimo in ogni disciplina avevo iniziato da tempo a dubitare anche io. Nessun altro se ne ricordava. All'inizio pensai che mi prendessero in giro, anche se difficilmente gli altri ex studenti, che talvolta incontravo, si sarebbero messi d'accordo per farmi un simile scherzo: a parte due o tre, erano pur sempre persone che non si frequentavano né si vedevano, con vite del tutto diverse; alcuni si erano trasferiti da anni, persino all'estero. Parevano non aver mai sentito nominare quel nostro vecchio compagno di classe. Ricordavo che tutti lo chiamavamo con un soprannome: Quarantanni, proprio così, per l'età che mostrava già da ragazzino, come se l'eccessivo studio lo avesse fatto invecchiare in maniera precoce. Quando chiedevo ai miei vecchi compagni che fine avesse fatto Quarantanni, se lo avessero più visto dopo il diploma, dapprima mi guardavano incerti, ad assicurarsi d'aver ben capito, poi mi domandavano stupiti «Chi?», quindi cercavano di scavare nella memoria, ma senza risultato. Come era possibile, era il più bravo della classe, aveva avuto il massimo dei voti fin dal primo anno, come avevano potuto dimenticarsene? A pensarci bene, dalla metà del quinto anno fino alla maturità il suo rendimento era calato in maniera notevole, si diceva per un esaurimento nervoso: continui mal di testa, abbassamenti della vista, insonnia, capogiri. Non si sapeva molto, però ricordavo ancora bene lo stupore che aveva provocato in tutta la classe la prima volta che, interrogato, aveva detto «Sono impreparato». Quarantanni, nonostante i problemi di salute, aveva comunque superato in maniera brillante l'esame di Stato – molti avevano copiato da lui il compito di matematica, avevano dimenticato pure questo? – ottenendo così il meritato riconoscimento: la lode e il viaggio premio che la scuola metteva a disposizione dei migliori, a cui però non partecipò.
Era stato sempre il preferito dai professori, certi che quello fosse solo un appannamento momentaneo, come potrebbe capitare a chiunque, e pronti a scommettere sul radioso avvenire del giovane.
Un giorno andai a recuperare alcuni scatoloni a casa dei miei genitori e trovai ciò che cercavo: le foto del liceo. Li riconoscevo uno per uno: la più bella – di cui ero innamorato, ma che era fidanzata con un ragazzo più grande; quello a cui gli era già cresciuta la barba in prima; il mio migliore amico – che è rimasto ancora lo stesso –, mancava solo lui: il secchione. Controllai anche tra le firme dietro la foto, Quarantanni non c'era né sul fronte né sul retro. Che non fosse presente proprio quel giorno? In effetti dopo i primi anni in cui non mancava mai, quell'ultimo anno, proprio per i problemi di salute, le sue assenze si erano moltiplicate.
Non mi scoraggiai, sapevo dove cercarlo: i genitori di Quarantanni avevano un'edicola e tabacchi a Birgolino, il quartiere vecchio del paese. Così un mattino dirottai la mia passeggiata abituale verso i vicoli e le stradine che salivano ripide in direzione di piazza Roma. Non andavo da quelle parti da molto tempo, ma poco sembrava cambiato negli anni: continuava a essere un paese all'interno di un altro paese più grande, dove tempi, modi e occupazioni rimanevano immutati come il palazzo abbandonato del barone e il Convento, il luogo più alto tra tutti, dal quale si poteva distinguere ogni abitazione della cittadina a valle. All'angolo della piazza, all'inizio dell'ultima salita che conduceva proprio al Convento, avrebbe dovuto esserci l'edicola tabaccheria della famiglia di Quarantanni. Il palazzo che l'ospitava mostrava i segni degli anni, pareva disabitato, la saracinesca coperta da strati di grasso e polvere doveva essere rimasta chiusa da tempo. Solo l'insegna con una T bianca garantiva che vi era stato quell'esercizio. Entrai nel bar a fianco all'ufficio postale, ordinai un caffè e chiesi informazioni sugli edicolanti e su loro figlio. Il barista alzò le spalle e chiese a uno dei clienti più anziani – lo erano tutti – che fece lo stesso gesto senza dir nulla. Sorrisi, pagai e uscii. Avrei ritenuto la questione ormai conclusa, se nel recuperare la foto di classe tra le scatole piene di poster, disegni e musicassette, non avessi trovato anche altro: qualcosa che ero certo di aver conservato, un regalo inaspettato che avevo ricevuto per il mio diciottesimo compleanno: un taccuino dalla copertina rigida chiusa da un elastico. Me lo aveva dato proprio Quarantanni qualche giorno dopo la festa, scusandosi di non essere potuto venire. Non lo avevo mai utilizzato, ma ero rimasto in qualche modo affezionato a quell'oggetto, lo avevo portato con me nei vari traslochi a cui la vita mi aveva costretto, per riportarlo infine nell'abitazione dei miei genitori, la sola che considerassi la mia vera casa. Sul taccuino non rimaneva che la dedica sulla prima pagina e il libro da cui era stata tratta:
“La vita non è altro che un'attesa di qualcosa che abbiamo già conosciuto e dimenticato venendo al mondo, con il primo vagito” (Parla ricordo, Vladimir Nabokov).