PARTITUREStefano Felici

Il cachi

PARTITUREStefano Felici
Il cachi

 

         Ho preso il caffè al bar, alle due in punto. Mi ci sono rintanato di corsa, prima che iniziasse a piovere. Ho provato a scambiare due parole col barista, ma era troppo preso dalle tazzine, dai piattini, i bicchieri... L’acqua che scorreva... La radio, che era a un volume troppo alto. Non mi ha mica dato retta. O almeno così mi è parso. Avrà avuto i suoi pensieri, non lo so. O sarò stato io a fraintendere il suo darsi da fare con la voglia di sbolognarmi, mettermi alla porta prima del tempo. Non lo so. Sono pur sempre un cliente: i clienti mica si ignorano così.

         Sono uscito dal bar che mancava un’ora esatta. Per arrivare a via Nansen mi ci vogliono venti minuti a piedi. Quindi ne avrei aspettati quaranta tondi tondi, davanti al portone, come al solito, senza niente di concreto da fare. Mi sarei messo a scrollare Facebook all’infinito. Poi Instagram, poi Twitter. Poi di nuovo Facebook. Le e-mail. Reddit. Di nuovo Instagram. Avrei screenshottato una foto strana, magari quella di un bodybuilder vestito da poliziotto, una foto che ultimamente mi perseguita nel feed. Una di Ronnie Coleman. Avrei aperto PicsArt, ci avrei fatto un meme. Un meme insensato, senza alcun punto, piatto. Non avrebbe fatto ridere, l’avrei cestinato. Tutto da capo.

         All’altezza della parafarmacia Di Consiglio ha cominciato a piovere. Mi sono messo il cappuccio del giubbotto e ho infilato le mani in tasca. Ho tirato una bestemmia sottovoce. Qualche metro dopo ho incrociato una vecchia. La bestemmia mi rimbombava ancora in bocca, e mi sono vergognato.

         Il negozio di giocattoli senza nome vende ancora il gladio di latta da antico romano: cinquantanove euro.

        

         L’ortofrutta gestito dai magrebini si espande per tutta la larghezza del marciapiede. È un ortofrutta gigantesco: dentro, le dimensioni sono quelle di un piccolo supermercato. Cataste di frutta di ogni tipo costruiscono torri perfette che sembrano i pilastri del locale. Da molti pilastri spuntano foglie gonfie e molli. Le torri più sbilenche, se ci si fa caso, sono quelle dei carciofi.

         Mentre un magrebino con l’impermeabile tira dentro tutte le cassette di arance e lattuga, l’occhio mi va a finire su una cassetta di cachi, lasciata lì a bagnarsi, totalmente ignorata, così distante dal negozio che sembra quasi in mezzo alla carreggiata delle automobili.

         Non ho mai assaggiato un cachi. Credo... Non sono sicuro. Ma l’idea di assaggiarlo mi dà i brividi. Mi si chiude l’esofago. Penso che il fastidio derivi da una scena vissuta quand’ero piccolo. Mia madre e mio padre in cucina, un litigio a voce alta ma niente di terribile. Come sempre. Mio padre addirittura continuava a mangiare. Era un fine pasto. In quel momento mi fu antipatico, a me che gli ho voluto sempre bene, anche durante l’adolescenza, quando tutti i miei amici apostrofavano come coglioni figli di puttana i loro, di padri; più che antipatia, anzi, un momento di avversione feroce, perché avevo l’impressione che la stesse umiliando, quella povera anima di mia madre. Non so, non ricordo con quale argomento. Mio padre le ripeteva spesso, ancora non ho capito quanto per gioco: dentro questa casa, una sedia rotta è più utile di te. Insomma, mio padre talmente si credeva nel giusto che portava questo cucchiaino alla bocca, un cucchiaino da cui penzolavano filamenti giallastri, una polpa liquida e informe, e toccando con le labbra questo cibo che mi sembrava muco genitale, si dava a un risucchio rumorosissimo, tante piccole bolle d’aria e acqua putrida esplodevano, le piccole grida di mia madre, intanto, soffocate dal gorgoglio impunito e viscido di mio padre, che poi deglutiva tutto con un gong.

         Altri giorni, mio padre ci metteva del suo, calcando sul gioco di parole col verbo cacare, e l’immagine disgustosa, insomma, ci ha messo poco a completarsi da sola.

 

         Sono arrivato alle due e diciotto, perché ovviamente ho allungato il passo. Mi sono messo sotto al portone e sono andato subito su Facebook, come un drogato, neanche avessi dovuto controllare qualcosa di importante. Ho scrollato, ho scrollato, e ho scrollato. Ho scrollato fino a che non mi è comparso il link a un articolo che parlava della cacio e pepe perfetta. Sarà perché ho cercato dei video a riguardo su YouTube, la sera prima, per addormentarmi: c’era un cuoco romano con una pancia che pareva una grancassa, bianca e tesa, che con una pinza lunga lunga girava spaghetti enormi ricoperti da una bava bianca, viscosa, quasi di seta. Mi sono accorto che sbavavo sul cuscino, all’una e trentotto.

 

         Sono uscito dal palazzo di via Nansen verso le sei e mezza. Già s’era fatto buio. Non pioveva più, ma c’era un’umidità insopportabile. Freddo penetrante. Ho tirato su il cappuccio e ho messo le mani in tasca. Quando torno, di minuti a piedi ce ne vogliono sempre di più. Una volta addirittura quaranta.

         Via del porto fluviale è quella col murale di Blu, i volti giganteschi fatti di banane e altra roba che non ricordo. Ci passo tutti i giorni, e mi sa che sono un paio d’anni che non ci bado più. Ho il riflesso condizionato di voltarmi quando qualcuno, dal mio lato della strada, si ferma a fotografarlo, ma ho sempre l’idea che stia succedendo qualcosa, un incidente o qualcosa di buffo, mica che ancora ci sia qualcuno cui interessi fotografare il murale.

         Venti metri dopo, c’è l’ortofrutta. Qualche cassetta era tornata fuori, ma il grosso era dentro il negozio. I magrebini quasi non si riuscivano a vedere. C’erano delle finestrelle fra le cataste di frutta attraverso le quali si potevano osservare all’opera, sempre industriosi, sempre a contare soldi e spostare cassette, mai fermi a pensare, a ragionare su come sistemare un cestino, mai un dubbio, una paura. Ma da dove entrano?, poi, ma da dove escono? Si sono murati vivi dentro, con tutta la frutta – e mi accorgo di una piccola apertura che confina più avanti con un minuscolo negozietto, in cui si possono fare fotocopie e mandare fax. Ora chiuso.

         La cassetta coi cachi è ancora lì. Forse va buttata. Non lo so. Saranno marci. Mi fermo. Mi guardo intorno. Vado. Mi chino. Prendo un cachi. Sembra un grosso pomodoro che sta per esplodere. Mi giro, e attraverso la finestrella vedo un magrebino. Agito il cachi. Lo agito di nuovo, urlo «QUANTO?», con una vocina da dodicenne, e lui mi fa segno di andarmene, con gli occhi chiusi e mezzo sorrisetto, mentre intuisco che sta imbustando qualcosa, forse dei fagiolini per un cliente nascosto.

 

* * *

 

         Il rumore del phon mi fa calmare. Sotto la doccia mi è venuto un attacco di panico. Ho chiuso l’acqua e mi sono messo una mano sul petto. Non avevo tachicardia, ma un paio di battiti a vuoto sono partiti.

         Al buio, con gli occhi chiusi, ripenso al momento di pace del caffè dopo pranzo preso al bar. Alle chiacchiere col barista. È un’abitudine. Un giorno, sempre nuvoloso, come questo, ci siamo messi a parlare di ricordi d’infanzia nel quartiere. Lui ha dieci anni più di me, ma i posti sono gli stessi. Così come le facce. Il rivenditore di elettrodomestici per me era Frankenstein, per lui Lo zozzo. Affittavamo le VHS allo stesso distributore automatico. Giocavamo al Super Nintendo messo in prova davanti al negozio di videogiochi all’angolo di viale Marconi. Quando abbiamo fatto questa chiacchierata era un giorno in cui minacciava pioggia; ma alla fine non ha piovuto. Invece oggi sì.

 

         Il cachi è sul tavolo, poggiato su un tovagliolo di carta. Accanto, ho sistemato un cucchiaino. E un bicchiere vuoto. Per sputarci dentro.

         Mi voglio convincere che sto per compiere un rito. Questo rito riuscirà finalmente a darmi la pace che merito. Cachi, aprimi la porta; cachi, guidami sul giusto sentiero; cachi, mostrami il punto esatto dove scavare; cachi, aiutami a discernere l’oro dalla pietra.

 

         Mi siedo. Prendo in mano il cachi. Me lo giro sotto gli occhi. La luce calda del tinello gli dà un colore arancio-scuro, pieno, terreo. Le foglie sono scure e secche. Sembra più molle rispetto a quando l’ho preso dalla cassetta dell’ortofrutta.

         Spengo il telefono. Non voglio distrazioni. Con la punta del cucchiaino comincio a tamburellare la pelle sottile e liscia. Tic, tic, tic. Non mi decido mica. La polpa filamentosa mi compare davanti agli occhi. È un’immagine fulminea. Un piccolo conato di vomito sale su per la gola, ma dura neanche il tempo di accorgermene. Cachi, portami dove sarò in pace; cachi, tu sei la mia guida; cachi, io mi affido a te. Il cachi non emana alcun odore, eppure non faccio fatica a immaginare il mondo disgustoso di poltiglia che nasconde.

 

         Quel giorno che mio padre mangiava il cachi e intanto litigava con mia madre lo ricordo anche perché nel frattempo, sul televisore in cucina, stava andando un film di Totò dove lui è vestito da donna, con una parrucca luminosissima, un vestito a fiori e una collana con cui gioca passandola tra le dita e in bocca, mordendola, con un ghigno sardonico e assassino; ero piccolo, un bambino: pensai che conoscevo molte donne che, pur non essendo uomini travestiti da donne, assomigliavano a Totò che si fingeva una donna. Una di queste era mia nonna, la madre di mio padre. Il mento e il naso mi sono sempre sembrati due sassi attaccati col fango all’ovale del viso.

         Ogni volta che mi è stato offerto un cachi, ho sempre rifiutato. I miei non hanno mai insistito. Non era essenziale come potevano essere gli spinaci o l’uva.

         Quando vidi mia madre mangiarne uno, pensai subito che lo stesse facendo per una punizione inflitta da mio padre. Magari perché aveva cucinato male, o perché non aveva lavato a terra durante il pomeriggio, mentre lui era al lavoro. Mi pare che una volta, dopo pranzo, ingoiando una cucchiaiata filamentosa e lucida, stesse addirittura piangendo. Quantomeno singhiozzava. Mia madre, d’altronde, o rideva o piangeva. Normale non l’ho vista mai.

        

         Continuo a fissare il cachi. L’orologio a muro segna quasi le dieci di sera. Domani mattina devo svegliarmi presto: è bene che cominci.  

         Do un colpo netto sulla parte superiore del cachi con la punta del cucchiaino, e questa pare in un primo momento attutire il colpo come un sacco da boxe, ma poi cede spappolandosi, lasciandolo affondare come in un liquido. Il conato di vomito ritorna, e per scacciarlo devo deglutire un paio di volte. Lo voglio mangiare, lo voglio fare, giuro. Me lo devo ripetere tre o quattro volte. Dalla finestra vedo accendersi una luce sul palazzo di fronte. Un uomo si sfila la maglia e rimane a torso nudo. Un petto minuscolo e una pancia larga quanto un televisore.

         L’odore del cachi comincia a salire. È un odore dolce, con una nota secca e acida che gli fa come da spina dorsale. Devo mangiarlo ora, sennò non lo mangio più, mi ripeto. Mangialo ora, mangialo ora. Mia madre che piange, mio padre che si sbrodola il mento, Totò in sottofondo, domani ho un impegno, domani ho un impegno, domani ho un impegno, Totò era mia nonna, papà, va bene, ecco, lo mangio.

 

* * *

 

         Nel gorgo nero ti vedo, e hai le mani gonfie, poggiate sulle gambe, mentre sei seduto a un passo dal frigorifero aperto. Emette una luce troppo fioca. Non sarà mica che la luce è rotta... Hai la canottiera, come tutti gli inverni. Te n’è fregato mai un cazzo dei malanni. Guardi per terra. Per terra è più nero che sulle pareti. Sicuro vuoi un pezzo di formaggio, ma ti senti in colpa. Non lo puoi mangiare. Lo sai che se poi muori a me e a mamma non ci pensa più nessuno. Mamma da sola non ce la fa. Si è sposata per questo. Siete una coppia degli anni sessanta, e già all’epoca, del mondo, non ci capivate un cazzo. Ma perché proprio non ve ne fregava nulla. Volevate solo fare un figlio. Mi vuoi dire qualcosa, papà? Sono qui per te, solo per te. La mamma aspetta il tuo permesso., ma so che ti passerà di mente. Tanto, che vuoi che mi direbbe. E tu, mi vuoi dire perché mangiasti il formaggio? Lo so che non è per quello che sei morto, lo so: ti perdono. Sopra di te si condensa una piccola nube violetta: un gas diradato, informe, ma tutt’altro che minaccioso; tu alzi la testa e dalla nube scendono fiocchi di polvere dello stesso colore. È un viola freddo. Che mi vuoi dire con questo quadretto? Non capisco. Non lo so. Sii più chiaro. A mano a mano ti tingi di viola. La pelle nuda delle braccia e la canottiera diventano tutt’uno. Sembri un orco, papà. Un golem di vernice. Sono io che devo chiederti scusa? Vuoi dirmi questo? Non posso, non credo di poterlo fare. Ma no, non sono arrogante: più di tutto, papà, è che non merito perdono. La mia vita non sta andando bene. Il nero dove sei ora, e ti senti perso, a disagio, in territorio alieno, io lo vedo tutti i giorni; è diventata la mia casa. La tua casa, quella che salvava le apparenze, non c’è più: è una pozza di carcasse liquefatte e animali in agonia. L’ho fatta marcire. Non dirlo a mamma. A lei devi dire che sono ragioniere come nonno. Sbatto gli occhi e sei tornato del tuo colore. Ridacchi? Che ridacchi. Sembri un supplì, papà. Ti ricordi quando te lo dicevo e tu facevi il gesto del manrovescio? Scherzavo, scherzavo nei toni, ma era vero, cazzo quanto lo era. Hai un cuore di mozzarella filante. Tante piccole scintille luminose disegnano brevissimi archi alle tue spalle. Che cos’è? Stelle cadenti? La mamma che piange? Adesso ti vedo meno a fuoco. Stai svanendo? Ti ho infastidito? Non lo so. Non ti vedo più bene. Torna qua, papà, mangio il cachi, ecco, guarda. Non mi sono tappato nemmeno il naso. Sono diventato adulto, mangio le cose che non mi piacciono. Non la chiamerò più tortura: ho capito, è solo un fare le cose. Una dopo l’altra. Poi le cose passano. I ragazzini ci rimangano attaccati, alle cosette: gli adulti no. Ti ho capito. Non è vero che è tardi. Tra un po’ avrò gli anni che avevi tu quando sono nato, ma posso rimediare. Se uno capisce, capisce: ha la strada spianata. Non credi? E sei sparito.

 

         Mentre riprendo coscienza del cucchiaino che tengo in mano, ricompari di nuovo in canottiera, di fronte a me, all’altro capo del tavolo. Eccoti, col faccione rotondo, i baffi grigi spioventi, la chioma leonina e soffice. Sorridi. Ti chiedo di spiegarmi perché sei stato in silenzio per due anni interi, e lo faccio senza rabbia: non penso e non ho mai pensato fosse colpa mia. Né tua, né di mamma. So che avevi i tuoi pensieri, papà. Dimmene uno. Sorridi e basta. Papà, dimmi se mamma sta ancora bene con te. La vostra è ancora quella coppia d’altri tempi con l’anima di gomma? E sorride, lui. Lo prendo per un sì. Salutamela tanto. Io, papà, passo le giornate. Vivo come posso. Come mi avete insegnato voi. Prendo il toro per le corna una volta ogni tanto, quando mi ricordo, quando ho meno paura d’essere divorato. Che ci vuoi fare. Ma giuro che cambio, prima te l’ho detto. Rimedierò. E credimi. Non sorridere. Ho conosciuto un ragazzino, si chiama Alberto. Gli voglio molto bene. Studiamo, ci facciamo qualche partita a Fortnite, due chiacchiere. Mi ricorda molto me stesso a dodici anni. Gli voglio insegnare tutto quello che so. Non mi ero mai sentito così utile prima d’ora. È proprio vero: siamo delle bestie. Ora ho capito perché hai vissuto in pace. Tu, con me, il tuo l’hai fatto: sono io che sono nato così. Non ci potevi fare niente. Ma non sorridere, papà. Sono serio. Non te ne andare, aspetta: un altro cucchiaio di cachi. Guarda qua.

 

         Riaccendo il telefono. Vado subito su Facebook. Comincio a scrollare senza guardare. Vado su Twitter, stessa cosa. Instagram. Reddit. Ancora Instagram. Vedo la foto di una ragazza in palestra, mentre fa gli addominali. Metto un cuore, ma lo tolgo subito. Chiudo Instagram e riapro Facebook. Do un’occhiata all’orario: mezzanotte e quarantatré. Scrivo uno status: «Maledetto. Sono stato maledetto.» Chiudo. Riapro Facebook, cancello lo status. Ma che cazzo ho scritto; ma chi cazzo l’avrà letto. Non lo so.

 

* * *

 

         Le due e ventuno. Sono al bar. Oggi pomeriggio non devo andare da nessuna parte. Chiedo al barista un tramezzino prosciutto e formaggio. Lui lo prende dal banco e lo infila sotto la piastra. Provo a fargli due domande, per vedere se gli va di fare due chiacchiere. Sembra ben disposto: non se ne sta ad armeggiare con tazzine e piattini come l’altro giorno. Così gli chiedo se abbia mai mangiato un cachi. E certo, mi fa lui. Buonissimi. Ah, faccio io. È vero, buonissimi. Annuisco a vuoto, un paio di secondi. Poi attacco con un’altra domanda. L’orologiaio, quello di via Corbino, hai presente via Corbino?, lo conoscevi? E lui mi risponde no, oddio, non mi viene in mente, non ho presente. Vorrei dirglielo subito: era mio padre, lo hai mai conosciuto? Magari lo ha conosciuto il tuo, di padre. E invece dico: no, niente, mi sono sbagliato. Lui fa un sorriso di circostanza e corre subito a togliere il tramezzino da sotto la piastra.

 

         Esco in strada. Apro Instagram. Faccio tap su Esplora. Mi compaiono foto di cibi turchi e bodybuilder. Tap su Big Rami. Un corpo esagerato, anche per chi dovesse disegnare un corpo con la sola consegna di disegnare un corpo esagerato. È fotografato in una side chest. Faccio uno screenshot. Sarebbe bello fare il bodybuilder professionista. Non vado in palestra da quando avevo ventun anni.

         Mentre torno a casa penso a mio padre, quando mi diceva di essere grosso e muscoloso. Aveva un braccio che sembrava una coscia di montone, ma era tutto grasso. Le spalle larghe, ma forse è un ricordo falsato. Una volta, mentre cercava di caricarsi una damigiana di vino, è caduto all’indietro. Non aveva nemmeno cinquant’anni.

 

         Non mangerò mai più un cachi. Non ne ho bisogno. Effettivamente fanno schifo.

         Era una verità che andava scoperta. Pazienza. Me lo dico perché mi sento come se mi fossi fatto una violenza spropositata a mandar giù quella merda. Una parte di me sapeva bene. Una parte di tutti noi sa sempre bene. Ma tocca fare i riti, sennò pare non si viva.

         Poi, di colpo, mi metto a piangere. Un pianto violento, che parte dall’addome, come se dovessi rigettare un veleno. Mi rivedo in mia madre. China sul piatto con dentro il cachi, senza scampo. Ha convinto pure me, lo sai? Con quel sorriso da tricheco, mamma. La pancia che straborda sotto la canottiera, piena di patacche. Ma lascia stare quel cachi, mamma. Ma con chi cazzo parlo.

 

         Il magrebino mi fa un cenno minimo. Impila cassette di melanzane appena fuori il negozio. Lo fa mentre l’ho quasi superato, e non riesco a ricambiare. Con quattro falcate ho il murale di Blu sulla sinistra. Mi colpisce il testone verde pieno di occhi. È l’unico su cui riesco a posare lo sguardo, vado troppo veloce.

         Sono in via Nansen. Un signore apre il portone, io mi infilo dentro dicendo grazie. Apro Instagram, comincio a scrollare. Ancora la foto di Ronnie Coleman vestito da poliziotto, coi tricipiti che gli esplodono. Faccio uno screenshot. Apro WhatsApp, la chat con Alberto, gli dico Alberto, passavo sotto casa tua, stai studiando?, siccome ero qui per caso pensavo che magari potevo salire a darti una mano, farci una partita, anche se non è il giorno mio, a tua madre neanche dobbiamo dirlo per forza, ma aspetto per minuti, minuti, dieci, quindici, una mezz’ora: lui non visualizza. Allora faccio per uscire dall’androne, e mi risponde proprio in quel momento. Mi dice che posso salire. Non faccio in tempo a rimettere in tasca il telefono che già mi ritrovo a chiamare l’ascensore.