PARTITUREDaniela Frascati

La Fantastica storia del Re Pote

PARTITUREDaniela Frascati
La Fantastica storia del Re Pote

C’era una volta, in un regno fantastico, un Re assai ricco e potente. Nel suo reame ogni cosa era perfetta e i sudditi tutti appagati. Il Re Pote viveva in un grandioso castello munito di centinaia di telecamere grazie alle quali assicurava che tutto scorresse secondo l’ordine mirabile della sua volontà. I sudditi del Re Pote, formichine coscienziose, svolgevano ciascuno il proprio compito in maniera impeccabilmente. Il traffico scorreva ordinato per le strade, fluido e senza intoppi. La gente non perdeva tempo, non si fermava a parlare, non si distraeva a guardare né fiori né nuvole; tutto, cose e persone, era proprio dove doveva essere.

Allo scoccare di ogni quarto d’ora, giganteschi altoparlanti diffondevano agli angoli delle strade il saluto che puntualmente il Re Pote rivolgeva al suo popolo.

“A voi il mio saluto, sudditi perfetti del regno del Pote Re, con l’augurio che sempre serviate con passione e gioia il vostro Sovrano e che nessun pensiero intacchi mai la vostra mente: nell’impeccabile regno del Pote Re uno solo tra gli uomini ha avuto in dono l’ineluttabile facoltà del pensiero; quell’uomo sono io. Siate quindi leggeri e spensierati, voi fortunati sudditi di questo prospero regno: non una preoccupazione, non un onere turberà la vostra esistenza finché spetterà a me, e a me soltanto, pensare: per voi, decidere.”

Ciò detto e ripetuto a iosa, chi mai si sarebbe azzardato a scalfire, anche solo scheggiare con la punta d’un unghia, la stabilità e l’ordine del perfetto regno del Re Pote?

Tuttavia qualcosa di sferzante c’era; un qualcosa che incrinava la fermezza del Sovrano: l’impertinenza della sua bellissima figlia, Pinocchia, capace di rendere pericolanti le sue sedicenti certezze.

Fin da piccolissima un’irriverente curiosità  le era cresciuta di pari passo con la lunghezza d’un  dispettoso naso.  La ragazzina ficcanasava ovunque;  di ogni cosa  chiedeva il  perché  e il percome e scombussolava l’immota quiete del regno. La si vedeva per esempio  piombare d’improvviso  nella bottega del fornaio, ed ecco il poveretto cominciare a sudare la prima di sette e più proverbiali ca­micie mentre sfornava senza sosta pani croccanti e pro­fumati, pagnotte delle più svariate, curiose e, bisogna pur dirlo, strambe forme e dimensioni; e lei lì, implacabile, ingenuamente osava chiedere al malcapitato e ai  suoi aiutanti: - Ma… ma… dico: voi che siete i panettieri del  regno e tutta notte im­pastate giganti e soffici sfilatini per il Re e  la sua corte, ma vi accontentate di mangiare solo croste secche e avanzi di briciole.  

Talora era il turno dei  minatori, colti sulla stanca strada del ritorno dalle miniere di sme­raldi, lordi  di terra e anneriti dal fumo dell'acetilene. Imperterrita, la ragazzina faceva loro notare con irritante levità: - Poveretti siete, non vi pare? Voi che strappate alla terra tesori e ricchezze, ma per farne cosa? Andarvene in giro miseri e cenciosi?

Chiunque si trovasse davanti a cotanta sincerità, dinanzi all’apparenza pulita schiettezza - di fatti non era che la verità di una bambina, quella che ella esprimeva - restava vuoto di parole. In fin dei conti, mai a nessuno la ragazzina aveva  rivolto domande poi così complicate e  inopportune, e tutti i suoi interrogativi rotolavano rovinosamente  da una parte al­l'altra della testa dei malcapitati  al punto da renderli vaneggianti. In qualche caso chi li osservava dall’alto attraverso le telecamere delle alte sfere regali o chi ci aveva persino a scambiare due chiacchiere per strada avvertiva quasi il dovere morale, sacrosanto, di metterli a riposo - questi con le biglie rimbalzanti nel cervello -  nelle segrete del castello. Solo un po’ a riposo, sia chiaro; niente di traumatico e senza forzatura alcuna.

All’ennesima dimostrazione di squilibrio mentale serpeggiante tra il popolo, tuttavia, a intervenire letteralmente a spallate fu il Gran Ciambellano Sottilini.

- Vostra Altezza, mi perdoni le parole schiette e crude:  è  necessario, anzi indispensabile, per il bene del regno  che Pinocchia  venga allonta­nata per  un  periodo  di rieducazione all'ordine. Vi chiedo  di affidarmela, con la promessa di riportarvela sana e innocqua quando le sarà svaporata l’attitudine di ficcanasare. 

Per quanto smisurato fosse l’amore del Sovrano per l’impertinente principessina, egli avvertì forte l’obbligo regale di accondiscendere  alla richiesta del Gran Ciambellano.

In una notte nera come pece, Pinocchia fu caricata sopra un carro di carbone e condotta da Sottilini nella Torre dell'Oblio, oblungo e svettante baluardo di roccia confinato ai limiti del re­gno.

Ne trascorsero, di giorni, nella prigione  desolata.

Pi­nocchia passava  gran parte del tempo con la fronte poggiata contro il vetro o le braccia sporte fuori dalla finestra che dava  a levante. Da lì  vedeva meraviglie che non aveva  mai neanche immaginato. Foreste  di querce  centenarie, intrecciate,  d’una maestosità annichilente;  pianure dello stesso verde degli smeraldi che i minatori andavano a cercare nel profondo delle gallerie buie e, più in là, oltre l’orizzonte,  nelle mattinate  più limpide scorgeva persino l’inimmaginato luccichio del mare. Nelle  lunghe  notti solitarie Pinocchia imparò a os­servare le stelle e a riconoscerne nomi e allineamenti e mitiche composizioni seguen­done l'impercettibile spostamento nell'arco del cielo.

Di tanto in tanto il Gran Ciambellano Sottilini andava a trovarla con la speranza di sorprenderla logorata dalla solitudine;  ma non appena la ragazzina ne percepiva la presenza,  il  naso cominciava  a  pruderle a più non posso e un  effluvio  di domande  si riversava sull’intruso.

 - Perché il mondo è  così vasto e bello e i nostri sudditi non possono oltrepassare la fore­sta del Limite? Perché  il tempo che non ha misura ed è al di tutti,  nel  regno di mio padre, il Pote Re, è imprigio­nato  nelle grandi clessidre del Tempio e lui, mio padre, il sommo So­vrano, lo amministra a suo piacimento?

Sottilini si defilava in preda a un ingestibile terrore…

Era ormai chiaro. La ragazzina rappresentava un pericolo incombente per il munifico  e ordinato regno del Pote Re: andava eliminata.

Non bisognò attendere molto perché il Gran Ciambellano chiamasse al proprio cospetto colui che era noto come l'elfo più perfido  e  privo di scrupoli della foresta, e si limitasse a dirgli: che fosse lui a pensarci; lui, che “come fare” lo sapeva bene.

L’elfo Pondilla se ne incaricò con malcelato orgoglio;  aveva del resto  bisogno di dare una rispolverata al proprio prestigio che proprio in quel periodo si era andato oscurando. Detto fatto,  si trasformò in un minuscolo grillo verde che, balzelloni balzelloni, raggiunse e s’arrampicò furtivo nascosto tra le rocce della torre dell'Oblio.

A  Pinocchia, abituata a guardarsi intorno e studiarsi il mondo, non sfuggì l’innaturalmente immoto insettuncolo che se  la studiava  ormai da  un bel pezzo, rintanato giorno e notte sotto un ciuffo  d'erba, sia che ardesse il sole a cuocergli la corazza sia che diluviasse fin quasi ad annacquare le sue fragili alette. E intanto, a dimostrazione che il tempo passava e il grillo - benché vivo - non dava cenno di andarsene, l’erba cresceva e strabordava dalle crepe del da­vanzale.

- Ciao, grilletto - lo salutò un giorno - come hai fatto  ad arrivare così in alto? E perché ci resti nella controra e col diluvio? Non sai più scendere?

Morso dall’orgoglio, Pondilla  fu sul punto di rivelare  la sua vera natura prima di eliminarla d’un sol colpo, ma rimase grillo verde e  continuò  a osservare la bella principes­sina e il suo naso  bizzarro che s'impennava ad ogni impeto di cu­riosità.

A  forza di studiarla per cogliere il momento più adatto a sopprimerla, Pondilla ri­mase irretito  dalla grazia  leggera  e geniale con la quale  Pinocchia  dall'alto  di quella prigione si spiegava il mondo.

E fu così che rimandò di giorno in giorno il momento in cui avrebbe compiuto l’irreparabile gesto; e fu sempre così che intanto la torre,  in  cui divideva la sua nuova esistenza di grillo verde con  Pinocchia divenne un luogo  elitario, l'avamposto  di un mondo meraviglioso che niente aveva a che fare con  il mondo degli umani triste e desolato che Pondilla  aveva conosciuto.

Là nella torre dell'Oblio i giorni rilucevano.

L'intensità  e la passione che Pinocchia metteva nel vivere la sua vita di solitudine, rinvigorita ora dalla presenza di quell'animaletto verde e spavaldamente corazzato, aveva un ché di commovente.

Arrivò una sera imprevista e infida e sorprese il vecchio Pondilla che si struggeva di ma­linconia per  un mondo verde e umido, e di amore per una  fanciulla dall'intelligenza per lui inconcepibile; per un inciampo nel controllo  dei propri poteri, quella sera imprevista e infida, Pondilla tornò a essere  Pondilla l'elfo.

Al suo risveglio, Pinocchia spalancò gli occhi su un’orribile  creatura verdastra e bitorzoluta  che  la osservava accovacciata ai piedi del letto.

Il terrore che emanava dall’essere estraneo, dal suo sguardo impietrito, spinse Pinocchia  a scagliarsi verso la fine­stra. Finì giù da un’altezza vertiginosa; e chissà se mai lo seppe e chi mai avrebbe saputo ch’era stata davvero lei a buttarsi. 

Pur di non perderla per sempre, Pon­dilla, vecchio elfo innamorato, chiamò a raccolta i poteri più occulti in suoi possesso: avrebbe potuto trasformare la caduta fatale nello scroscio di una cascata pura come cristallo di rocca.

Accadde. L’acqua esplose impetuosa e ingoiò la foresta intera e s’innalzò fino  alla  vetta  ove era appol­laiato il castello del Pote Re  e  se lo portò via, lontano assieme al Gran Ciambellano Sottilini  e alla sua corte di perfetti gentiluomini.

Col tempo, del tumulto della cascata non sarebbe rimasto che un limpido zampillo ove i  sudditi di un regno senza più Re andavano a dissetarsi mesti di  una nuova sete: consapevolezza e libertà.

E ancora oggi, osservando con un pizzico di attenzione in più, tra la schiuma e il gorgoglio dell'acqua si scorge una candida ninfa  di fonte munita di un curioso naso che gioca a farsi inseguire da un vecchio cavalluc­cio marino verdastro e gibboso.

 

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