DIESISEva Luna Mascolino

Gone with the Time (Via col tempo)

DIESISEva Luna Mascolino
Gone with the Time (Via col tempo)

 

«Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia?»

(Il cielo sopra Berlino)

 

«La tecnica arriverà a tale perfezione che l’uomo potrà fare a meno di sé stesso.»

(Stanislaw Jerzy Lec)

 

 

 

 

 

Level 1 – Real World

 

Quando ho aperto gli occhi e ho guardato per istinto fuori dalla finestra, mi sono accorto con sollievo che non stava piovendo. Ho controllato anche il meteo dal mio Samsung, per essere sicuro che nessuno si sarebbe prodigato in una spiacevole sorpresa da un momento all'altro, da lassù: 9 settembre, due gradi Celsius di minima e cielo nuvoloso, ma nessuna precipitazione fino alle ore ventidue. Ottimo. In quella ho deciso che mi sarei potuto alzare, vestire e avviare a piedi verso la sala stampa accompagnato da un cappuccino d’orzo. In quella ho deciso che sarebbe andato tutto bene. E così è stato.

Nel momento in cui mi sono seduto al mio posto, passato una mano fra i capelli e pronunciato in un Buongiorno piccolissimo al microfono, mi è stato dato il benvenuto con l’ouverture di una danza di cui tutti i presenti conoscevamo i passi.

– Signor Daniels, ora che è stata rilasciata la versione beta di Gone with the time, ci racconta com’è nata l'idea di questo suo primo videogioco?

Per settimane ho immaginato le bocche di decine di giornalisti nell’atto di formulare la stessa domanda: ora si trattava di una giovane alle prime armi o di un quarantenne stempiato, ora di una signora truccata male o di un reporter con gli occhiali rettangolari.

Così, mi sono strofinato le mani come farebbe chi la sa lunga e ho esordito:

– Ebbene… Io da ragazzo non ho fatto particolari studi scientifici, sapete, ma per qualche motivo sono cresciuto con il desiderio di fare un giorno un viaggio indietro nel tempo, in un modo o nell'altro. Mi entusiasma la prospettiva di festeggiare il Ringraziamento con Roosevelt, di passeggiare con Socrate per le vie di Atene o di stare a guardare Caravaggio mentre dipinge Davide con la testa di Golia, anche solo per un quarto d’ora. Tanti film degli ultimi quarant’anni sembrano far supporre che una possibilità simile prima o poi si realizzerà, ma come ho detto non mi sono mai documentato abbastanza al riguardo e le mie conoscenze di fisica si fermano ai tempi di Newton, perciò ne sono tutt’altro che persuaso. Essendo un programmatore con una certa esperienza alle spalle, però, a un certo punto mi sono reso conto che per realizzare il mio progetto sarebbe bastato inventare un videogame di simulazione basato su un ritorno indietro nel tempo e poi andarmene a spasso per questo o quel secolo con in mano il mio joystick: Gone with the Time è nato da questa intuizione.

Ricordo a stento la domanda successiva, invece. Qualcuno mi ha forse chiesto se il mio videogioco preveda un sequel e io devo aver scosso la testa meccanicamente in segno di diniego.

– Ma com’è riuscito a progettare un intero universo con tanta esattezza, se dice di non conoscere nemmeno la teoria della relatività di Einstein?

– Naturalmente ho chiesto aiuto a ingegneri e fisici in corso d’opera – ho spiegato – anche se nessuno di loro ha fatto parte della squadra in via permanente. L’équipe vera e propria è stata composta da me e altre tre persone soltanto: in primis Peter Noyce, un mio caro amico architetto. Gli ho chiesto di collaborare con me per dare una forma geometrica alle mie idee. Lui, a propria volta, mi ha poi messo in contatto con un graphic designer. Infine, ci siamo rivolti a un violinista spagnolo per la colonna sonora, come sapete. Gli abbiamo lasciato carta bianca, chiedendogli di inventare qualcosa che facesse percepire il tempo meno reale di quanto in realtà sia. E questo è quanto.

– Come mai per il nome del gioco si è ispirato a Via col vento? C’è qualche richiamo ai personaggi del romanzo nella sua storyline?

– No, a dire il vero nessuno. Mi sembrava indispensabile inserire nel titolo un riferimento al concetto di tempo, dopodiché il calco su Gone with the Wind è arrivato per caso, una volta in cui mi è caduto lo sguardo proprio su quell’opera, una volta che ero in libreria.

—    Qual è lo scopo del gioco, signor Daniels?

– Gli scopi del gioco possono essere molteplici. L’unico vincolo imposto dal sistema consiste nell’inserimento di una data di inizio della partita che sia antecedente a quella in cui si gioca. Può trattarsi di secoli fa come di una manciata di settimane. Stabilito il tempo, ognuno può inserire nello spazio personaggi storici e celebrità, oppure amici e conoscenti, o ancora uomini e donne immaginari, e farli eventualmente incontrare, nonostante gli apparenti paradossi temporali. Può dunque capitare che Napoleone salga su una motocicletta per andare in battaglia, per dirne una, o che nel 2000 non sia stata ancora inventata la ruota. Dipende dalla fantasia di chi gioca e dal tipo di partite che vuole sperimentare. Alcune più simili al nostro mondo, altre assolutamente immaginarie. Lo si può fare per obiettivi didattici o ludici, esplorativi o artistici, ma ad unire la community ci sarà di sicuro la voglia di scoprire fin dove può condurre ogni storia.

– Da quant'è che lavora al progetto di Gone with the time?

– Ormai sarà da circa un anno e mezzo, quasi due.

– E com'è riuscito a dedicarsi al videogioco e a completarlo in un arco di tempo così breve, considerando che nel frattempo ha anche perso sua moglie?

La mia bocca si è allargata in una smorfia di fastidio, ma l'ho rimessa al suo posto in pochi secondi.

– Potrei aver fatto un paio di viaggi nel passato per riuscirci – ho buttato lì.

In molti sono sembrati apprezzare il mio motto di spirito, cosicché sono riuscito a evitare ulteriori curiosità sull’argomento e, di lì a poco, mi sono alzato ringraziando i presenti e ho concluso l'incontro.

Ho lasciato la sala appena adesso e, nel controllare l’orologio, ho constatato che si è già fatta l’ora pranzo e che sto iniziando a sentirmi affamato. Nonché agitato.

Il perché? Si dà il caso che fino a questo 9 settembre non abbia voluto testare Gone with the time mettendomi nei panni di un nuovo giocatore. Chiaramente conosco la struttura del software come un collezionista conosce le specifiche di ogni singolo pezzo conservato negli anni, ma per una sorta di prudenza scaramantica ho volutamente aspettato l’esito della prima conferenza per gustarmelo nella sua interezza, come farebbe un collezionista che si concede una visita completa fra i propri esemplari solo quando lo accompagnano per la prima volta degli ospiti curiosi.

A quanto pare, comunque, il via al mio test sarà preceduto dal pranzo che mi ha preparato Molly e che, nel leggere il suo sms, scopro consistere in un hamburger già sistemato sulla scrivania del mio ufficio.

Ormai non saprei più come ringraziarla per il costante aiuto che mi dà: da parecchi mesi è più dell’impeccabile segretaria a cui ero già abituato. Si preoccupa per me, mi osserva, capisce le mie esigenze; interviene quando è il caso e mi lascia ragionare da solo quando le sembra opportuno. Si ricorda perfino dei miei cicli del sonno e dell’abbondanza del mio appetito. Il fatto che abbia perso la testa per Chuck Breene e che i due abbiano deciso di sposarsi di qui alla primavera, peraltro, mi rasserena: so con sicurezza che in lei non c’è altro che tenerezza per me e che, a maggior ragione per questo, posso contare sul suo appoggio come se fossimo fratello e sorella.

Non a caso mi sembra delizioso trovare il panino imbottito, un bicchiere di vino dolce e il primo disco di Gone with the Time già inserito nella console, nel momento in cui rientro in studio dopo il meeting e apro la porta.

Mi precipito dentro, affrettandomi ad assaggiare prima il Morgan bianco e poi le due fette di pane separate da uno strato di carne, formaggio, pomodoro, lattuga e maionese.

Nel frattempo, mi rigiro fra le mani la custodia del videogioco. Quantomeno in tal senso, posso dirmi soddisfatto del lavoro del mio team senza bisogno di ulteriori verifiche. La copertina che abbiamo ideato consiste in una grande nuvola di fumo variopinta, dietro cui si intravvedono una serie di oggetti dalla forma ambigua: abbiamo cercato di rievocare alcuni fra i nostri quadri preferiti di Salvador Dalí, per cui qualche orologio sembra una frittata liquefatta a metà e i treni assomigliano a sigari allungati e deformi.

Dopo che spolvero l’hamburger e svuoto il calice, non faccio passare nemmeno un altro tic-tac di lancette: mi pulisco la bocca con un tovagliolo, mi lavo le mani e mi siedo finalmente sulla poltrona grigia che io e Scarlett avevamo spostato nel mio ufficio dopo esserci trasferiti al 18 di Murray Street. Accendo la console e faccio partire il disco.

Il caricamento è rapido e la sigla, che conosco ormai a memoria, mi sembra piuttosto fluida. La schermata iniziale appare poco dopo, in una buona qualità video. Il sistema mi dà il benvenuto e io rifiuto il tutorial che mi propone di spulciare.

Lui, di contro, mi chiede allora di scegliere una fra le due opzioni di gioco, Real World o Players’ World. Oltre alla classica modalità su base realistica con cui cimentarsi sia da soli che con un eventuale gruppo di amici, infatti, ne abbiamo implementata una che si rifà o ai mondi di altri utenti o ad uno scelto totalmente a caso dal sistema, sulla base delle altre esperienze di gaming salvate nel database e di variabili combinatorie sempre imprevedibili.

Io seleziono Real world e premo Prosegui.

Come primo step pre-partita è ora necessario fare l’upload di un breve filmato personale o di qualche foto che rappresenti il luogo di ambientazione prescelto. Interni di case e di chiese, esterni urbani o campestri, soffitte o frigoriferi, vecchi manieri o fondali marini: non c’è niente di vietato. Il sistema elabora in autonomia i dati immagine o video ricevuti e li riproduce in 3D, trasformandoli in schermata di gioco in pochi minuti.

Seleziono quindi le riprese della casa mia e di Scarlett che ho montato ieri pomeriggio e aspetto finché la riga del caricamento non diventa tutta verde. Mi accerto che proporzioni e distanze siano ben impostate e che rimangano uguali a quelle del nostro appartamento, accedendo quando necessario alla modalità Modifica per aggiustare il colore dei pavimenti o lo spessore delle pareti. Nel realizzare questa funzione, io e John ci siamo ispirati in gran parte alle intuizioni che la EA ha messo a punto in progetti di simulazione come The Sims, senza per questo scadere in un plagio o in una blanda “imitazione dell’originale” e, allo stesso tempo, garantendo alla fantasia di ogni player un controllo in altezza, larghezza e spessore potenzialmente infinito.

Quando i miei interni sono a posto, scelgo dall’elenco preimpostato l’esterno standard dell’Inghilterra degli anni duemila per una città di medie dimensioni e do un okay di conferma.

Il mio mondo è quasi ultimato.

 

Level 2 – Start Game

 

Mentre familiarizzo con i menù a tendina del gioco, mi viene in mente una frase che Scarlett mi ripeteva spesso, nei primi mesi di fidanzamento. La frase, per la verità, non una a caso. E la frase, nel suo essere una profezia senza saperlo, diceva: vedrai che il tempo non sarà capace di separarci, Tom, tutt’al più saremo noi che ce ne andremo via col tempo.

E dove?, le chiedevo io a quel punto, con un tono volutamente scanzonato. Lei sbuffava divertita, scartando dal suo orizzonte il mondo reale e pretendendo che io la inseguissi. Non lo so, mi rispondeva, perché non lo inventi tu un "dove" adatto a noi?

Avrei voluto aggiungere E come?, per scoprire in che modo lei sarebbe andata avanti, una provocazione affettuosa dopo l’altra. Se davvero avessi insistito, so che in un paio di giorni ci saremmo ritrovati a cavallo di un albero o a fare una gita in barca sopra l’Himalaya. Invece, per i primi anni non l’ho più fatto. L'ho sposata e ho smesso di insistere, sono stato dentro di lei come un pellegrino in cammino verso il suo dio e non le ho chiesto più niente. Ho comprato una casa con lei, ho scelto con lei il tavolo su cui fare colazione alle sette e ventidue di ogni giorno feriale, ho fatto con lei la doccia fredda quando l'impianto idrico non era ancora a norma, mi sono sdraiato sul tappeto azzurro del soggiorno a calcolare il saldo delle prime bollette con lei, e non le ho fatto più quella domanda. Non l’ho più incoraggiata nei suoi voli pindarici e mi sono fatto bastare il  ridere con lei al cinema, il piangere al telefono o al cimitero in cui hanno seppellito mio padre un pomeriggio di agosto durante il quale l’aria era così calda da farsi quasi masticare. Non ho fatto altro che improvvisarmi imbianchino o tecnico dei termosifoni o aspettarla in macchina quando smontavo dal lavoro e lei non aveva ancora finito di comprare gli yogurt al cocco al supermercato, convinto che dentro quella cornice avremmo potuto spogliarci e rivestirci indisturbati, senza segnare sul calendario il passare delle stagioni, delle mode o dei campionati di calcio.

È per questo che, quando è arrivato il tumore, ci ha colti entrambi alla sprovvista.

Ci eravamo preparati ai temporali e alle liti in cucina, a sfondare i divani e ad appendere male certi poster, ma non avevamo preso in considerazione l'idea che cornici come la nostra avrebbero potuto spaccarsi anche dall'interno, nell'intervallo fra un accertamento medico e la fotocopia di un documento sanitario, senza che dovessimo firmare da qualche parte perché quel contratto di convivenza forzata con la malattia entrasse in vigore.

Così, all'inizio abbiamo faticato molto per recuperare tutti i mesi che avevamo sprecato accontentandoci di colorare i giorni a caso, come se non dovessero accorciarsi mai. Ci facevano paura certi farmaci dai nomi impronunciabili e i camici bianchi degli esperti che mettevano le mani addosso a Scarlett con lo stesso pragmatismo di un macellaio che palpa il suo bestiame. Né ci fidavamo delle segretarie con il rossetto sempre a posto, e leggevamo i referti degli esami come se volessimo impararli a memoria insieme alle poesie di Rimbaud che tenevano sul comodino.

Nel momento in cui la chemio ha preso a stare vicino al camino con noi e a strapparci i capelli per l'orrore, però, abbiamo capito che dovevamo reagire. Il tempo stava cercando sul serio di separarci e, prima che ci fosse riuscito, avremmo dovuto inventarci una soluzione per resistere, una qualche arma tutta nostra per fargli la guerra senza che se ne accorgesse e per poi fregarlo sul più bello, a pochi minuti dal fischio finale di quella partita apparentemente persa in partenza.

Ecco qual è stata la vera genesi di Gone with the Time, ecco come ho fatto a completare un videogame per computer, PlayStation, Xbox e smartphone in un anno e mezzo nonostante il cancro di Scarlett: è stato proprio lui a incalzarci, con la sua violenza immune a qualsiasi terapia medica.

Se avessimo avuto a disposizione una realtà altra dalla nostra, infatti, avremmo potuto ricreare il nostro microcosmo in un macrocosmo diverso, al cui interno non avremmo lasciato spazio ai malesseri e alla morte. Lo avremmo popolato di gente immortale, controllabile dall'esterno da giocatori di ogni età e colore della pelle, e avremmo affidato a loro la nostra quotidianità, finalmente al sicuro da conclusioni impreviste e in una cornice stavolta infrangibile, perché costruita in pura logica.

Ci siamo fatti dare una mano da Peter fin da subito, mentre Scarlett era già in ospedale a tempo pieno, e grazie a Molly io ho nel frattempo concluso ogni affare rimasto in sospeso con clienti privati e rifiutato ogni nuova richiesta di programmazioni per gruppi aziendali. Per fortuna avevamo fatto scorta di risparmi e di fantasia, per cui non abbiamo volontariamente badato né a spese né ad eccessi di ambizione: il nostro universo interattivo avrebbe dovuto assecondare ogni capriccio dell'ultimo minuto e piegarsi alle nostre personalissime regole del cosmo, a prescindere dal prezzo che avrebbero avuto e dalla loro stranezza. Nessun dettaglio ci appariva superfluo, se avrebbe contribuito a metterci in salvo, e per evitare che ne risentissero anche solo l’estetica o la musica di sottofondo abbiamo coinvolto nel progetto anche John McPherson e Jorge Solando.

Nonostante la foga con cui abbiamo dato corpo e voce alla nostra controffensiva, Scarlett non è arrivata a combatterla con me fino alla fine.

Le si sono chiusi gli occhi una sera di sei mesi fa, dopo che avevamo deciso di comprare due biglietti per Vienna non appena i primi appassionati di giochi di simulazione avessero comprato l’unico figlio che ci era stato concesso di dare alla luce. I medici non se l'aspettavano e non se lo aspettavano neanche le lenzuola su cui stava sdraiata lei, che di lì a poco si sono fatte fredde e sudate. Meno di tutti, me lo aspettavo io. Mi ero alzato per andarle a prendere un bicchiere d'acqua ed ero tornato vicino a lei pensando che stesse per addormentarsi, invece lei – lei che è sempre stata la più attenta fra noi due – se lo stava già aspettando, con una meticolosità da fare ammattire.

– Tu non verrai con me, Tom, vero?

– Come no! Vuoi andare a Vienna da sola?

– Non sto parlando di Vienna. Sto parlando di adesso. Non verrai via con me, vero?

– Perché, Scarlett, dove credi di andartene?

– Tom, dimmi che non mi seguirai. Dimmi che finirai il gioco e che poi ce ne andremo a stare là dentro insieme, solo là.

– Ma certo, Scarlett…

– Me lo giuri?

– Te lo giuro.

Era una maniera per dirci a rivederci, ma l’ho capito solo quando lei mi ha sorriso e si è sistemata un po’ meglio la testa sul cuscino, smettendo poi di respirare con una dolcezza disarmante. L’ho capito solo quando non ho potuto dirle più niente e mi è rimasto da ripetere a entrambi solo quel giuramento notturno scandito a un passo da un burrone.

Vedrai che il tempo non sarà capace di separarci, tutt’al più saremo noi che ce ne andremo via col tempo, mi è sembrato di sentirmi ripetere oggi che stiamo dando Gone with the Time in pasto al pubblico. Oggi che anche io lo inauguro iniziando l’unica partita a cui mi interessi prendere parte.

 

Crea nuovo personaggio…

 

Ciao! Che nome vuoi dare al tuo nuovo personaggio?

 

S – c – a – r – l – e – t - t   L – y – n – c – h

 

Che bel nome! Seleziona adesso il sesso e l’età di Scarlett

 

Femmina, 24/02/1985

 

Bene! Ora scegli per lei aspetto fisico e personalità

 

Le restituisco le stesse lentiggini che aveva fin dall’adolescenza e che mi erano rimaste impresse sul palmo della mano sinistra, quando l’avevo salutata in inverno all’ospedale. Scelgo per lei una gonna di raso bianca, simile a quella che aveva addosso quando l’avevo portata fuori a cena per il nostro primo anniversario. Gli occhiali da vista con la montatura blu scuro, le caviglie piccole, le spalle basse. La voce di vetro, le labbra piene, la pazienza da elefante, le dita allungate. Non trascuro neanche la sbadataggine, la curva del suo ventre, l’altruismo che mi aveva lasciato sul corpo come un tatuaggio. E per miracolo me la ritrovo pulsante e morbida lì di fronte, al di là dello schermo, pronta a lasciarsi re-inventare da me e a salutarmi come se a dividerci non fosse stato che un banale giovedì nuvoloso, quattro gradi la minima e nessuna precipitazione. Ottimo.

 

Salvare le modifiche apportate a Scarlett?

 

 

Complimenti, sei pronto a giocare col tuo nuovo personaggio!

 

Conferma e inizia la partita

 

Do la conferma prima di realizzare che, per proseguire, manco ancora io. Perciò ritorno alla schermata di modifica e aggiungo all’elenco dei personaggi anche Tom Daniels, maschio, 04/04/1983. Il sistema mi chiede se Tom sia un coinquilino di Scarlett o se i due siano imparentati, io rispondo che sono sposati e aggiungo la data del loro matrimonio, dieci maggio del 2012.

A quanto pare non è ancora abbastanza: Scarlett e Tom sono una coppia felice? Di cosa parlano di solito? Certo che siamo una coppia felice, vorrei rispondere, se avessi inventato il comando per comunicare al gioco un’esclamazione indignata. Di cosa parliamo di solito? Degli uccelli migratori, dello zucchero nel caffè, degli sprechi di acqua negli appartamenti, dei talk-show domenicali, della regione del mondo cui si vedono meglio l'Orsa Maggiore e quella Minore, delle serie tv lasciate incomplete, delle prossime elezioni politiche, di chi dovrà rifare il letto domani, del surriscaldamento globale, della nostra frutta preferita e dei best-seller americani del ventesimo secolo. Parliamo tantissimo, in sostanza, e facciamo l’amore solo in camera da letto o nella vasca da bagno. Nei weekend andiamo a trovare sempre e solo i suoi, visto che i miei sono morti, e quasi sempre siamo noi due a portare qualcosa di buono per il pranzo. Per Capodanno andiamo in montagna, se nevica facciamo anche qualche gara di sci, e per Pasqua decoriamo le uova con un set di pennelli che abbiamo comprato in allegato a una rivista settimanale in edicola, una volta.

Non vedo l’ora di rifare tutto da capo. Di andare di nuovo in pizzeria il venerdì e a messa a Natale, giusto perché sarebbe sconveniente il contrario. Di fare i sudoku prima di addormentarci e di lavare i denti insieme anche se il lavandino è troppo stretto per due persone.

Salvare le modifiche? Tutte quante, dalla prima all’ultima.

Bentornata, Scarlett.

 

Level 3 – Continue or Quit?

 

– Allora, questo gioco? – esordisce Molly come dal nulla, quando sono già due giorni che me lo ha fatto trovare inserito nella console perché lo testassi.

Ci siamo appena dati il buongiorno e lei non sta più nella pelle. Le leggo nelle curve della fronte che forse ha paura di essere apparsa indiscreta o di non trovarmi entusiasta come lei si sta augurando, ma che non avrebbe potuto trattenersi oltre.

Molly non sa niente della nuova Scarlett, questo va precisato. Non riuscirebbe a concepire un universo parallelo in cui il suo utero non l'ha portata a morire a ventinove anni. Sa solo che Gone with the Time è il nostro neonato, che ha il naso di sua madre e le braccia forti di suo padre, che io l'ho guardato negli occhi mentre stava dentro una culla, due giorni fa, e che ancora forse non mi sono ripreso dalla sbronza emotiva di avergli stretto la mano e di avergli detto: Piacere, io sono Tom.

Ne consegue che non mi risulta facile risponderle su due piedi.

Sono effettivamente un po' ubriaco. Ho riconosciuto nella Scarlett che ho appena battezzato la stessa che, nell'aldiquà, sta dentro una squallida tomba di mogano, a decomporsi circondata da vermi e da puzze diverse. Ho scherzato con lei a tavola, l'ho rivista nuda e le ho massaggiato la schiena. L'ho portata al parco e lì abbiamo ordinato un tè alla pesca e due cannucce mentre stava tramontando il sole. Sono consapevole del fatto che le manchi qualcosa: non arriccia il naso quando si sente presa in giro, ha l’ombelico meno ovale, la linea della vita del suo palmo sinistro è un po’ schiacciata... Ed è chiaro che non ride esattamente allo stesso modo di prima, sembra più robotica, meno spontanea. Ho fatto l'amore con lei nella speranza che mi scompigliasse i capelli come al solito, ma non è successo. Il Tom che le sta accanto adesso non se ne accorge, d'altro canto, e questa è una fortuna. Vanno ancora d'amore e d'accordo come ci andavamo noi due da quest'altra parte.

Sono stati due giorni intensi, in cui ho mangiato pochissimo e sono arrivato a dormire meno di sette ore in totale. Per di più, sono stati i primi due giorni che ho trascorso in compagnia del mio unico gioco finora compiuto, mentre lui si esibiva in una sfilata colossale davanti ai miei occhi. Osservarlo nella sua interezza, con Scarlett che nel frattempo preparava i popcorn o faceva lo shampoo, è stato straordinario. Mi sono reso conto che nel premere Start game si innesca un flusso continuo di pura creazione mista a stupore, in cui anziché giocatori si è esploratori di un labirinto venuto fuori dalle proprie mani. Un grande labirinto fiorito, in grado di includere qualsiasi essere vivente e una combinazione pressoché incalcolabile di tempi, spazi e sviluppi diversi.

Provo a raccontarlo a Molly in termini comprensibili.

– Grandioso, Molly! Ho giocato ininterrottamente per quasi quarantott’ore e finora non ho notato né lag né errori grossolani. È pronto per il lancio, direi. Ha un potenziale immaginativo molto promettente, che permette un’esperienza di gioco ai limiti dell’incredibile. A tratti fa dimenticare perfino a me come le reazioni dei personaggi dipendano dagli algoritmi che abbiamo impostato noi.

– Meno male – commenta lei, raggiante in volto e con un’aria all’improvviso sollevata – speravo così tanto che fosse all'altezza delle tue aspettative!

Mi passa una mano sulle spalle prima di aggiungere a voce più bassa:

– So che Scarlett sarebbe fiera di te, Tom.

Scarlett è fiera di me, vorrei correggerla d’istinto, ma mi trattengo.

Ripiego invece su un’altra questione, al momento non meno importante.

– Di’ un po’, è già arrivata qualche recensione dai beta tester?

– Fra ieri e oggi ne ho contate già dodici!

– Addirittura dodici? E per quali piattaforme?

Molly recupera il tablet e apre un file per ricontrollare i feedback.

– Ecco qui. Quattro valutazioni inviate da computer, di cui tre portatili e un fisso. Tre da Xbox, due da PlayStation 4 e due da smartphone, entrambi con sistema Android KitKat o superiore.

– Le più critiche?

– Quelle per PlayStation, come avevate previsto tu e Simon.

– Sì, ci sono dei passaggi da fixare prima del lancio di ottobre. Il voto più alto da dove arriva, invece?

– Da un portatile HP, Windows 10 aggiornato, con sistema a 64 bit. Il tester ha giocato in modalità Real World.

– È la stessa modalità che ho provato io da Xbox, gira molto bene.

– Vi conviene dare uno sguardo anche all’altra per assicurarvi che non abbia dei bug, allora.

– Sì, soprattutto per la versione mobile. In effetti ho l’impressione che con iOS crei qualche glitch, se n'era accorto John a pochi giorni dalla conferenza-stampa, ma non eravamo ancora intervenuti.

– Ve la segno come task in agenda e salvo nel cloud, d’accordo? Poi sincronizzate voi il calendario.

– Sì, è perfetto.

Faccio per salutarla e raggiungere l’ufficio, ma lei mi trattiene per un braccio, l’aria fin troppo seria.

– Tom?

– Cosa c’è?

– Ascoltami, hai delle occhiaie tremende. Perché non vai a casa a riposare? Per oggi resto qui io.

– Ti ringrazio, Molly, ma non riuscirei a dormire. Sono troppo eccitato per via della release. Già che sono sveglio, tanto vale rimanere e darmi da fare.

– Non tornerai mica a giocare fino a notte fonda? Guarda che lo so che ieri sera sei rimasto qui e che le quarantott'ore di prova di cui parlavi erano letterali.

Poggio una mano su quella di Molly che sta ancora avvolta intorno al mio braccio.

– Ti prometto che baderò a me stesso, mamma – le dico in tono divertito, ma caldo. – Non ho intenzione di fare follie.

Molly mi pianta gli occhi addosso per un lungo istante, frugando nel mio sguardo alla ricerca di un segnale di allarme. Quando si dà per vinta, sospira e lascia andare il mio braccio.

– Andiamo a pranzare insieme al bar, almeno? – mi propone. – Così ti concedi una pausa e io non rimango con il senso di colpa di averti lasciato là dentro a brontolare dalla fame fino alle sette e mezza.

Le sorrido e ribatto:

– Va bene, però stavolta offro io.

Prendo per un sì il sorriso di rimando di Molly e misuro a grandi passi il corridoio.

Nello studio non c'è nessun altro, Peter e John rientreranno probabilmente nei prossimi giorni. Nessuno più di loro ha il diritto di staccare la spina, adesso, anche perché per intere settimane si occuperanno delle prossime conferenze-stampa e degli incontri con critici e distributori.

Mi richiudo la porta alle spalle e accendo la console per riprendere a giocare. Il sistema riconosce immediatamente il mio account, carica i dati salvati e mi dà il bentornato.

 

Vuoi continuare con la partita precedente o

sovrascriverla per cominciare da zero una nuova avventura?

 

Fra Riprendi e Riparti ci sono solo due o tre lettere di differenza, e tuttavia la scelta mi appare per un attimo cruciale. C'è una cosa che non ho rivelato a Molly, infatti, e che probabilmente non oserei confidare in generale a nessuno.

In questi due giorni di gaming, i personaggi di Tom e di Scarlett si sono evoluti, memorizzando alcune dinamiche relazionali ricorrenti e stabilendo una routine giornaliera di coppia, per via della quale si affiancano sempre per fare le pulizie, leggere i giornali o riordinare le camere. In altre parole, hanno stabilito un legame a tratti più profondo di quello fra me e la Scarlett che ha il cuore irrigidito da sei mesi.

Il problema è che, quando il giocatore mette in stand-by la partita, i personaggi non possono interagire l'uno con l'altro e la storia non progredisce più, anche se il tempo del gioco va avanti. Di conseguenza, ogni protagonista è cosciente del trascorrere le ore, pur essendo obbligato a compiere solo azioni basiche e senza influenze sulla storyline: andare in bagno, piegare un pullover, uscire in giardino o decidere di ascoltare della musica, ma niente di più. Nelle ore in cui ho dormito, il risultato è stato quindi che Tom e Scarlett si sono sentiti privati della compagnia sulla quale avevano fondato le loro giornate e hanno sviluppato un malumore crescente, che appena ho riaperto la schermata si è trasformato in un brutto nervosismo da parte di lui e in un principio di depressione da parte di lei.

Ho visto Scarlett singhiozzare e me stesso urlare contro di lei al primo tentativo di rivolgersi la parola a vicenda. Ho assistito al loro modo sghembo e impacciato di riconciliarsi e ho ascoltato infine lei chiedere a Tom di non lasciarla più.

Sono rimasto turbato dall’episodio come se lo avessi attraversato io, dalla testa ai piedi, in uno stato di trance involontaria. Nel ritornare lucido, scaraventato da questo lato del gioco e lontano centinaia di stringhe da Scarlett, non sono più riuscito a stabilire se sia il caso di resettare il database e dedicarmi a una partita meno personale, o se rimettere in play da dove mi ero interrotto e assistere al secondo atto di una crisi tanto lacerante quanto inevitabile fra le nostre riproduzioni elettroniche.

Provo a prendere una decisione, ma sono schiacciato tra due opzioni inaccettabili. Da un lato, rinunciare a stare con la Scarlett a cui ho ridato fiato dall'altra parte del video sarebbe un'autoprivazione pericolosa, capace di aprire una voragine da qualche parte dentro di me grande al punto da divorarmi; dall'altro lato, ho l'impressione che il Tom del gioco sia costretto a starle accanto in una maniera troppo imperfetta da sopportare, fatta quotidianamente di graffi e di silenzi nerissimi.

Riprendi o riparti?, lampeggia ancora sullo schermo a intervalli regolari.

Riprendi, seleziono alla fine, posticipando l’eventuale eliminazione della storyline che sta ristrutturando le mie impalcature interiori.

Riprendi e mostrami il viso di Scarlett.

 

Level 4 – The Final Chapter

 

Quando avevo diciotto anni e ho finito la scuola, mi sono reso conto che gran parte delle materie che avevo studiato non mi sarebbero servite granché,  fuori di lì. Erano i primi anni duemila, mediamente la gente non aveva ancora molta familiarità con il settore informatico e mi ero dunque detto che, se fossi diventato un programmatore, avrei probabilmente anticipato tempi e guadagni.

Se non ho contemplato l’idea di fare invece il bibliotecario, il tassista, l'antiquario o il giocoliere, comunque, c'è stata anche una ragione più profonda. A quell'età percepivo la vita come una faccenda molto ingarbugliata, e soprattutto molto seria: non c'era modo di sottrarsi ai suoi meccanismi, o quantomeno di lasciarseli scivolare addosso. Ogni scambio con il mondo poteva diventare un fatale bombardamento alla stabilità che ciascuno coltivava con dedizione dentro di sé e, per di più, il solo modo per non correre rischi era tapparsi naso e bocca e andarsene all'altro mondo dopo essere crepati: nessuna via di mezzo. L’unica scappatoia che ho trovato per sopportare questa condizione è stata, allora, quella di mettermi a inventare videogame per mestiere. Loro avrebbero almeno distratto qualcuno e divertito qualcun altro, avrebbero impegnato la mente di questo e risollevato il morale di quello, trasformandosi anche per me in luminose liberazioni temporanee dal disordine dell’esistenza.

Nel recinto della tecnologia informatica, d'altronde, accadono cose che stanno sedute comodamente sulla soglia del sortilegio. Da display ormai ultrapiatti ci si affaccia su panorami tridimensionali vertiginosi e da una tenda piantata prima dell'alba in un bosco si raggiungono i genitori che cenano a nove fusi orari di distanza. Da un foglio bianco si osservano appiccicarsi immagini le une sulle altre, quando si è fortunati perfino in movimento perenne, e ci si illude di aver comprato al prezzo di pochi metri quadrati un'intera sala cinematografica personale. Si scrivono romanzi a puntate su tastiere touchscreen senza fare rumore, si rintraccia quel gruppetto di tre o quattro bambini che alla scuola materna distribuiva figurine gratis al resto della classe e si sbirciano conferenze che si tengono oltreoceano o quartieri residenziali delle metropoli con la Street View di Google Maps. Una selezione di numeri di magia da lasciare a bocca asciutta scettici e conservatori incalliti. Non so più chi sia stato a sostenere che non per niente la tecnologia è la nuova cera pongo di matematici, architetti e ingegneri: una sorta di biglietto per un luna-park rivoluzionario, in cui le ruote panoramiche scivolano verso il basso e le montagne russe diventano sudamericane.

Mi si dirà che questi stessi giochi di prestigio non hanno mancato di favorire passatempi da porcile: non è diventato più comodo e anonimo comprare solo i biglietti per la Carmen di Bizet o per un tour dei Pink Floyd, ma anche sfogare smanie pedofile, organizzare un attentato, minacciare la donna che tre sere fa al pub non si era fatta sfilare il reggiseno, rubare dati personali o pacchi già mandati a spedire dall’Indonesia, fomentare polemiche razziste con notizie palesemente false o improvvisarsi opinion leader riciclando luoghi comuni raccolti vicino ai cassonetti della spazzatura.

Cosicché sarebbe più corretto affermare che ciascuno si serve di questo strumento – come di ogni altro alla sua portata – per assecondare più in fretta la propria natura. Niente di più e niente di meno.

Per quanto mi riguarda, avere a che fare con la tecnologia è stata una salvezza, per esempio. Mi ha permesso di confezionare un'intera pila di coordinate diverse dalle nostre per stare al mondo e vedercela con i nostri punti bonus, con i salti nel vuoto e con gli ostacoli da incenerire. Ha concesso a Scarlett un monitor dentro il quale proiettare il microcosmo che aveva concepito per noi due e, ora, sta dando a entrambi la possibilità di rincontrarci non appena io premo un pulsante.

Inoltre, è stato sempre a partire dalla tecnologia che ieri sera, in un momento di coscienza trasparente, ho capito di non avere abbastanza resistenza emotiva per sopravvivere in bilico fra queste due realtà, l’una in cui alla tecnologia servo io per svolgere la sua funzione e l’altra in cui la tecnologia serve a me, per rimanere con la donna che ho sposato. L'una in cui soffro per come la Scarlett virtuale si riduce nei ritagli di tempo che non riesco a dedicarle, e l'altra in cui soffro perché la Scarlett fatta di carne e di nei che si è spenta come una candela sciolta non si è riaccesa neanche quando il mondo è venuto a sapere per la prima volta dell'esistenza del nostro figlio imbevuto di linguaggi alfanumerici.

Sarei riuscito a mantenere l’equilibrio, se lei fosse rimasta con tutti e due i piedi qui e avesse trasferito gradualmente la sua impronta anche in Gone with the Time, e non viceversa, con un'impronta sbiadita qui e piedi e mani dall'altra parte. Dal momento che lei fa parte dell'universo al di là dello schermo, invece, sono stato io a ritrovarmi fuori posto, incastrato in una prigione corporea che non sa stare al passo con la nuova entità pixelata di Scarlett.

Per ricucire i lembi di questa crepa impazzita non serve altro che una presa di posizione, una selezione rigorosa, un aut aut fra universi assemblati con materiali fra loro inconciliabili: l’ho compreso ieri sera. O il pianeta Terra, sul quale cancellerò la partita a cui avevo dato il via e mi rassegnerò ad aspettare che il tempo porti via anche me, prima di fare compagnia a Scarlett anche solo per stendere i panni fuori in balcone, o il cyberspazio, in cui i nostri due personaggi rimarranno perennemente attivi nella riproduzione del nostro trilocale a due passi dal parco, controllati a turno da un qualche giocatore fedele alla simbiosi del signore e della signora Daniels.

Non credo sia poi tanta la gente che ha il privilegio di esaminare due alternative del genere e di scegliere dentro quale stabilirsi, senza doversi dare pena del destino quella che avrà escluso. A me, al contrario, è dato prendere questa decisione in assoluta autonomia. Posso tenermi strette le mie ossa avvinghiate a muscoli e terminazioni nervose o cambiarmi in punti indistinguibili, che si agitano sincronicamente verso destra o verso sinistra, verso l’alto o verso il basso. Posso sgretolare un intero mondo e disperderne le briciole o preservarlo da qualunque buco nero e frantumare quell’altro. Posso starmene a invecchiare nell’uno o a non vedere mai spuntare una ruga nell’altro, mentre un alter-ego di Scarlett ronza senza sosta intorno a me.

L’importante è che, alla fine, ne scelga uno e mi stabilisca lì una volta per tutte.

E io preferisco scegliere quello in cui Scarlett ha le ali.

Sembra un verdetto gigantesco e inverosimile, snocciolato con questa freddezza, me ne rendo conto. Ai limiti del ridicolo. Eppure, mi ci è voluta poco meno di mezza giornata per metterlo in pratica da quando me ne sono convinto.

Stamattina sono passato da Jim, a un isolato da qui, poi sono risalito in ufficio e ho pregato Molly di non interrompermi fino all’una. Subito dopo ho modificato la patch di Gone with the Time per forzare i futuri utenti della community a portare avanti la mia storyline: finché anche solo uno di loro sarà online, il sistema congelerà la partita in atto e chiederà con priorità assoluta di occuparsi di noi due. Ovviamente ho modificato un paio di dettagli e Scarlett per cognome ha adesso O’Hara, il che mantiene una buona soluzione di continuità col nome del gioco, mentre io sono diventato Rhett Butler, proprio come il marito che ha lei nella storia di Margaret Mitchell.

Ho salvato le modifiche, ho reso obbligatorio l’update del software per qualsiasi piattaforma e ho spento la console, dopodiché mi sono sistemato il colletto della camicia e ho aperto la busta trasparente col veleno che ho comprato, per mescolarlo per bene assieme a dell’acqua fredda.

Sono le ore undici e tredici di martedì 14 settembre ed è tutto pronto.

Non c'è bisogno che avvisi qualcuno, prima di mandare giù il bicchiere: Molly non capirebbe e Peter, specialmente Peter, se capisse soffrirebbe il doppio. Preferisco fare in modo che non sospettino niente, che mi immaginino sfinito dalla morte di Scarlett e non determinato al punto da scavalcare questa bizzarra quarta parete per mordicchiarle ancora l'orecchio destro.

Ho lasciato scritto un pezzo di carta in cui chiarisco di essermi suicidato e di non averlo anticipato a terzi, comunque, mentre ho già bruciato lo scontrino del cianuro solubile. Zero virgola sette grammi per una sessantina di sterline, un prezzo considerevole pur di risolvere in fretta la situazione – e una dose che Jim, il tipografo che lavora a un isolato da qui da trent’anni, scoprirà troppo tardi non essermi servita in via strettamente confidenziale per sviluppare un vecchio rullino insieme a mio zio Bernard, appassionato di polaroid.

Nel biglietto ho aggiunto anche un paio di richieste: voglio che la mia parte di proventi di Gone with the Time vada per il 40% a Peter, per il 30% a John e per il 30% a Molly. Ai genitori di Scarlett, invece, ho lasciato la nostra casa in Murray Street e il saldo del mio conto in banca. Preferisco che non rimanga niente in sospeso e che, seppure vagamente, in questo mio gesto si intravveda il viaggio programmato per cui mi sto imbarcando.

Il mio proposito, infatti, non dipende dal delirio di un grigio weekend autunnale. Né io sono un vedovo a cui è andato di volta il cervello per il dolore, o un inventore stregato dalla perfezione della sua stessa creatura e disposto a sacrificarsi in suo nome. Sono solo un uomo che mantiene le promesse.

La prima volta in cui Scarlett se n’è andata via col tempo contro la nostra volontà, infatti, mi ha chiesto di non inseguirla e io le ho giurato che così sarebbe stato. Adesso non mi chiede altro che non essere abbandonata, invece, e sa che per la seconda volta finirò per fare come dice: sa che verrò via anche io, pur di continuare ad esistere nello stesso appartamento con lei. Sa che farò a meno di me stesso qui, pur di non fare a meno di lei lì.

Staremo in uno spazio virtuale e respireremo dentro orologi vergognosamente finti, ma se è questo l’unico mondo capace di accogliere entrambi ce lo faremo andar bene. Ci daremo al giardinaggio o magari all’equitazione, andremo a pattinare sul ghiaccio d’inverno e a costruire castelli di sabbia d’estate, impareremo a ballare il tango e a vestirci in maschera a Carnevale, per poi scattarci qualche foto sfocata con la sua Canon e prendere in giro a vicenda le nostre facce scomposte.

D’altronde abbiamo creato Gone with the Time apposta per questo.

Perciò adesso guardami, Scarlett, mentre ho messo in pausa la partita e ho zoomato sul tuo volto fino ad averlo all’altezza del mio. Dimmi che sei fiera della maniera in cui sto mantenendo il giuramento che ti ho fatto. Riesci a sentirmi? Se fossi rimasto qui non avrei potuto consacrarmi a te come avresti meritato, come minimo sarei stato sballottato di continuo fra impegni lavorativi e bisogni fisiologici, trovandomi obbligato a coinvolgere qualcun altro nella nostra storyline o a farne tabula rasa. In questo modo, invece, sono solo a un sorso dal ritrovarti al di là dell’esistenza, dove nessuno sarà in grado di interromperci e dove il tempo non potrà separarci di nuovo.

Ci vediamo dall’altra parte, Scarlett, sono quasi arrivato. Cin cin.

 

Game over