Gala dialoga con Leucò
Gala non dialoga con nessuno tanto bene quanto con Leucò.
Dialogare col bianco (associa sempre Leucò-leucociti-leucopenia, sarà il caso di farsi un controllo?) significa entrare in una dimensione esoterica. È convinta che Pavese sia erroneamente catalogato tra i realisti: se c’è uno scrittore del Novecento che scava al di là dell’apparire e ricerca la verità archetipica nell’anima umana, quello è il grande, insuperabile mito: Cesare Pavese.
Dialogare con Leucò significa tentare di recuperare la relazione con l’infanzia, perché l’unico modo per uscire dal karma è quello di riviverla, ridarle voce e forma.
Federico, maschio, pensa che siamo quello che troviamo al risveglio e che inzuppiamo nel latte. Gala, donna, sa che c’è dell’invisibile che ci portiamo dentro, che è nostro preciso dovere non far scomparire. Al risveglio siamo anche e soprattutto ciò che fummo, e nello specifico la nostra infanzia. Questo non va affondato, perché, se lo facessimo, tradiremmo l’ancestrale bisogno di tornare al grembo materno. Basti pensare a tutta la simbologia esoterica sottesa al “Né più mai…” foscoliano. All’elemento acqua archetipo del livello embrionale, prenatale. Con questi simboli dialoga Gala, con il Leucò della sua infanzia, riattivando dentro di sé quel nomen omen con cui ha convissuto nei primi anni di vita e nella fase precedente alla sua “gettatezza” nel mondo.
L’infanzia è metafora e metonimia della sua esistenza ed è identificabile con la Chimera che fu uccisa: doveroso e pur impossibile è tornare a ciò che fummo. Chi si sottrae galleggia nel Non-Essere, chi la insegue mette a rischio se stesso, ma conosce un livello più profondo dell’esistenza.
Fatto sta che la Chimera deve morire, ma l’omicida - chiunque di noi - vive uno stato di prostrazione psichica, perché chi fa fuori la Chimera uccide il proprio sogno di infante. Per tutta la vita Gala ha aperto il proscenio della propria infanzia; quando le tende si chiudono, sente lo strappo dell’anima.
Dovrebbe dare alle fiamme il libro di Pinocchio grande quanto lei bambina, la cover azzurro mare imbottita e il Pinocchio in rilievo con l’abbecedario multicolore sotto il braccio. Dovrebbe cancellare dalla memoria le domeniche trascorse nel lettone dei genitori a leggere Topolino sotto il piumino d’oca. L’accappatoio con le papere, ma anche lo sgabuzzino delle scope dove rimase chiusa per un giorno intero, sì da diventare claustrofobica. Dovrebbe rimuovere gioia e dolori della sua infanzia, vale a dire buttare alle ortiche se stessa; noi siamo la nostra infanzia: e meno male!
Per Jung, come per Pavese e Gala, l’infanzia giace sotto tutte le stratificazioni e le sovrastrutture della coscienza e unisce trasversalmente l’umanità attraverso archetipi collettivi. Ognuno ha un Tiresia che parla, non solo dentro le porte di Tebe, ma dentro di sé. Immaginate quanto sia potente dentro Gala che sa, come Tiresia dell’ Edipo, che in un sol giorno il dio ti rivela a te stesso!
Beh, che dire? È proprio divina, figlia degli dèi: si è rivelata a se stessa in un sol giorno. Un comune mortale non sa cosa sia la vertigine e la rientranza del pensiero che dura un sol giorno: tutta la vita. Da quando Gala ha sperimentato tale via non ha pace nell’anima ed è perciò assolutamente fiera di sé. Quando incontra il signor avvocato col cappello a larghe falde che non cavalcherebbe neppure l’asino di don Abbondio, calzini bianchi corti e pantaloni a cinta alta, giacca sovradimensionata, sa cosa fare: ridere intensamente, ridere di cuore, del ridicolo altrui.
Poi si chiude nello studio, parla qualche minuto con Tiresia, mesce la sua mantica femminile con quella dell’indovino, ride di sé e dell’altro.
Si agita avanti e indietro, e lo fa dentro l’ufficio, come quello della “carriola” pirandelliana e sente sempre “il treno fischiare”; lo sente ogni giorno e non si tappa le orecchie, ma insegue il pensiero che la porta lontano… chissà dove… chissà dove…
La porta verso il primo archetipo: la madre.
Si abbandona sulla poltrona e pensa, sì, lei pensa: “Ho appena sentito una voce lontana; credevo fosse il battito del mio cuore, invece percepisco una gioia inusuale, sento l’ardore giovanile sotto la pelle e dentro le membra.”
“Questa storia è finita.” Si vede riflessa nello specchietto retrovisore della sua Polo nera, elaborazione del lutto. Una brusca frenata, i capelli si scompigliano al vento e il gomitolo del tempo si srotola: vede sua madre; è ancora giovane, le sta praticamente attaccata, pelle contro pelle. Il sorriso di sempre sospeso tra verità e menzogna. Sua madre ritorna dinanzi agli occhi impotenti di bimba: aveva due anni, la gambetta alzata sotto un ampio vestito bianco, spaziava con la fantasia. Lo sguardo lontano fugace inafferrabile, il pensiero scomposto, il cuore in gola.
Ora la madre è anziana, molto; il ricordo si allontana, sente la fragilità delle ossa, le gambe ritorte, il sorriso straniato, eppure è lì fissa nella sua memoria come una gioia tormentosa. Per lei è sempre la madre: ferma nel tempo, bella, statuaria, vicino ai gerani che emanano odori di bimba, della bimba che fu e che lei è.
“Fino a che punto - si dice - si può amare una madre! È sempre presente, quando cammini, la vedi riflessa nell’ombra, stagliata sul muro, diventa di pietra. Ti accompagna, la fissi, la guardi, la scruti, la getti, rispunta in camicia da notte, fresca come una fanciulla mai spenta. Non accetto la sua morte, non posso, non posso arginare il dolore.” Il sentimento dilaga, si allunga, ombreggia tra gli scuri capelli. Lo domina, rientra, s’accorcia, si contrae nel singhiozzo. Quest’anno è diverso, ma non si può vivere senza una madre.
Girava per strada, incontrò Edipo, disse: “Ho perso mia madre, sto male, la devo ritrovare.”
Lui rispose: “Tu non l’hai persa, la devi solo cercare. È dentro di te, in qualche anfratto della tua memoria, della tua persona. La madre mai si perde, nemmeno se te ne andassi a piedi da Roma a Tebe. È sempre e solo tua madre. La Grande Madre.”