La parola più difficile

La parola più difficile

Appena tornato a casa dall’università, il giovane professore di linguistica Amedeo Folengo seppe da sua moglie che le ultime analisi della loro unica figlia erano andate male: era confermato che la piccola aveva una malattia che nessuno sapeva se l’avrebbe portata a morire in breve, o sarebbe sopravvissuta. Necessitava di almeno un anno di terapie, e solo dopo, il panorama forse sarebbe stato più chiaro.

Dopo. Forse.

Amedeo chiese a sua moglie:

«Senti… ma lei lo sa?»

«No, aspettavo te».

«E come facciamo a dirglielo?»

«Potrebbe non essere necessario: a volte i bambini ci arrivano prima di noi».

«Vero. Ma se non lo capirà da sola?»

«Se non lo capisce, lo vedremo facilmente: a quest’età sono trasparenti. Non sono come noi adulti».

«A quel punto dovremo trovare le parole giuste».

«Sei tu l’esperto. E poi, non sei sempre tu a dire che, se c’è una cosa, c’è anche la parola per dirla?»

***

Ma tanto l’aveva presentito, Amedeo; se i bambini a volte ci arrivano da soli, anche lui allora era stato un po’ bambino ad arrivarci da solo, ben prima delle evidenze diagnostiche.

Era curioso, pensò inoltre, che uno come lui, che delle parole aveva fatto il suo mestiere, non sapeva come dire a sua figlia una cosa tanto enorme… per questo sperava che lei lo capisse, oppure che glielo dicesse sua madre.

Per ogni cosa esiste una parola, e viceversa: se esiste una parola, vuol dire che c’è la cosa indicata. Con tutte le conseguenze: se una parola non si usava più, allora una cosa, un concetto, un’idea, morivano. Come i nomi delle persone: non sono forse parole?

Ma che caspita se ne faceva ora di tutte queste teorie?

E pensare che ci aveva sempre creduto, ancor più quando tutto era diventato anche un gioco fra sé e la figlioletta.

Quando lei aveva tre o quattro anni, giocavano alle “parole ostrogote”, come le chiamava lei: se il suo papà la vedeva un poco arrabbiata o capricciosa, le diceva:

«Non fare la malmostosa!», e lei scoppiava nella sua risatella che sgorgava come una fontanella. Oppure:

«Non essere inconciliabile!», e lei giù a ridere, e anche lui.

E anche sua moglie.

Poi pian piano, però, lui si accorse che qualsiasi parolone andava bene, mica solo quelli che indicavano una certa situazione:

«Smettila di fare la bighellonatrice!», oppure «Amore, oggi ti vedo un po’ sesquipedale», e l’allegra fontanella riprendeva, irrigando tutta la casa.

Quando un giorno a lui uscì fuori appunto “ostrogoto”, quest’aggettivo restò fra loro a indicare tutte le parole più lunghe, quelle difficili come quelle bislacche e divertenti.

Quando lei ebbe sei anni, si accorsero che in effetti non è che sempre ci stia la parola giusta, o insomma non si trova subito e facilmente.

«Allora, quando il prossimo anno sai leggere bene, papà ti insegna a usare il vocabolario, così trovi pure le parole ostrogote».

«E sennò le inventiamo!», aggiunse la piccola.

«Mmhh, perché no… Per esempio?»

«Quando… quando ci ho un po’ di mal di pancia ma non so se dirglielo a mamma perché sennò magari poi non mi manda a scuola, e io invece quel giorno ci voglio andare perché facciamo disegno».

«Facciamo una parola per dire questo?»

«Sì!»

«È difficile».

«Mettile tutte insieme»

«Allora, che ne dici di “zittapanciadisegno”?»

«No, più corta!»

«Oggi mi sento “tacincegno”?»

«Sììì!», prorompeva la piccola, applaudendo le mani al suo papà.

Del resto, avevano già iniziato quando si erano avute le prime avvisaglie del male, a una visita da un giovane otorino, che ovviamente era diventato il “dottorinolaringoiatra”.

Il professor Folengo arrivava al punto da proporre anche ai suoi alunni, ogni anno, un seminario sui giochi di parole, al punto che certe volte non sapeva bene se si portava il lavoro a casa, o viceversa.

***

L’anno di terapie stava per scadere, si avvicinavano le analisi, e la moglie una sera osservò:

«Sei finito fuori dal mondo, non te ne accorgi?»

«Perché?»

«Perché insegni cose non vere».

«Ma che stai dicendo?»

«Ancora vai insegnando che per ogni cosa c’è una parola, e intanto fingi di ignorare che non è così. Lo sai tu e lo so io».

Amedeo non capiva.

«Per esempio manca la parola che indica te».

Lui continuò a tacere.

Continuò, lei:

«Chi ha perso un genitore è un orfano, ma chi ha perso un figlio che cos’è? Non è niente perché non c’è la parola? Quindi noi che cosa rischiamo di diventare? Un niente. Io cosa sono? Una mamma, ma poi, se le analisi vanno male, cosa diventerò? E tu?»

Ad Amedeo non venne in mente nulla, nemmeno di potersi offendere perché quella donna proprio non aveva più in testa la parola “moglie”, a quanto pareva.

Gli venne solo di sperare che quella durezza significasse che anche lei provava e capiva il nulla in cui lui andava sprofondando da quando la loro bambina aveva iniziato a smagrire e indebolirsi.

A stare male davvero, visibilmente.

Altro che maldipancia e tacincegno.

***

Seduto alla sua scrivania, il professor Amedeo Folengo vedeva tutto fuggire via, ogni cosa si vuotava e spariva.

Si sentiva come se anche la sua vita mano mano perdesse pezzi, consunti dal male incontrastabile; come il corpicino della sua piccola, che si consumava e diminuiva, e dal quale morivano zone intere, e famiglie di cellule si lasciavano cadere nella sparizione… così dalla vita del papà, lui, si staccavano e precipitavano nell’abisso del nulla interi organi, pensieri, memorie, lavoro, idee.

Se provava a organizzare una lezione, toccava con mano quanto la testa gli si fosse svuotata; fare una cosa qualsiasi, anche futile, persino guardare un’imbecillità in televisione, ogni cosa gli mostrava il vuoto in cui stava scivolando.

Aprire il computer era diventato uno sbadiglio inconcludente.

***

«Papà, ma che malattia ci ho?»

«Eh, una specie di febbre, che però ci vuole tanto tempo per mandarla via. Per questo ogni tanto veniamo qui in ospedale e ti danno le medicine».

«Ma come si chiama? Ce la dobbiamo inventare?»

«No, il nome ce l’ha» la tranquillizzava Amedeo, e qui lei sentiva dire dal suo papà una parola proprio lunga e difficile, anzi erano tre o quattro parole, e l’ultima di sicuro era una straniera.

«C’è una parola ostrogota!»

«Sì, infatti è difficile. Però da grande ci riuscirai a dirla».

«Papà, ma io diventerò grande?»

«Tra un po’ di tempo i dottori ce lo dicono, adesso non lo sappiamo. Però se veniamo a fare le cure e prendere sempre le medicine, secondo me sì».

E Amedeo si chiedeva come faceva a cacciar fuori una risposta, mentre si sentiva la gola annodata, e il cuore che gli si strizzava.

***

Sua moglie gli disse:

«Com’erano oggi i valori?»

«Sempre uguali».

«Che hai?»

«Io?»

«Sì, tu».

«Niente, che devo avere?»

«Sei sempre più silenzioso».

«Boh».

«Pensi che questo faciliti le cose?»

«Perché, tu hai un modo per facilitarle?»

«Chiuderti non serve a niente».

«Scusa, sto solo vedendo morire mia figlia».

«È anche mia figlia».

«Vorrei avere la tua freddezza».

«Io fredda?»

«Anzi no, non vorrei averla».

E qui, per una volta, era lei ad ammutolire.

***

La piccola infine se ne andò, portata via da quella malattia difficile da dire.

Una volta gliel’aveva chiesto:

«Papà, ma se riesco a dire quella parola difficile della mia malattia, posso guarire?»

Il padre provò a pensare.

La bimba continuò:

«Però non è giusto, se vincerà la parola difficile».

«Certo che non è giusto, amore mio».

«Mi doveva venire quando ero più grande e sapevo parlare meglio, così mi difendevo».

Amedeo muto.

«O magari passa ancora un po’ di tempo e faccio in tempo a imparare a dirla!»

«Eh, chissà… Vabbe’, tesoro, adesso vado, tra poco arriva la mamma».

E uscendo dall’ospedale, senza sapere che non avrebbe più riveduto la sua piccola, pensò che a volte avrebbe voluto essere come quella donna, sua moglie, indurita, via via sempre più disillusa nel vivere, acida e perentoria nel comunicare. Gli pareva che lei stesse usando le scarse energie rimaste, quantomeno per tenere cementata la muraglia fra sé e l’arrivo della tristezza definitiva.

Lui invece si vedeva imbelle di fronte a tutto e tutti, svuotato e senza difese contro quel bianco e nero in cui era piombato, quel grigio con cui ogni cosa gli si era scolorita, perché niente funzionava più: il cuore della piccola, e anche il suo cuore, ormai spento, e le loro parole, né prendere per mano sua moglie, niente di niente.

Anche le parole, vecchie amiche e complici di lui e della sua bambina, tacevano tutte, quelle italiane e quelle ostrogote, come se si fossero chiuse per sempre nel lutto, loro come lui.

Se, oltre a quello di Linguistica, fosse esistito il Dipartimento di Silenzio, Amedeo vi avrebbe chiesto il trasferimento.

Per sempre.