Vertigine del Segno

Vertigine del Segno

Non amo l’idea astratta della scrittura.

Quella veste ‘sognante’, adorna di barbagli, amabile e ristoratrice, della quale sovente la si ammanta.

La parola scritta è lacerazione. Doloroso disvelamento.

E chiede coraggio, abnegazione, per essere vissuta.

La scrittura è, primamente, gesto.

Io sono travolta, vinta, da tutto ciò che essa reca in sé di materico.

Le morbidezze e le asprezze, il peso, l’odore, le fragilità e le ferite della carta,

vergine promessa e amante lasciva delle mie notti più ardenti e febbrili.

Le storie che racconta, quelle dei luoghi pei quali ha peragrato, vieppiù se reca impresso,

nel suo trascolorare, il sigillo del tempo.

Il modo in cui la penna preme, e gode, e geme, su di essa. E le parole si generano e si dispongono, secondando il gesto, mutevoli e cangianti nelle loro fattezze.

Amo, sopra ogni altra cosa, sentire quella pressione,

pudico ed infaticabile corteggiamento d’un amante sovente battuto e tradito nelle attese,

con cui la mano aderisce alla pagina.

Amo dividere le vertigini della penna. Le sue fughe, come il suo indugiare.

Sentirla, arrendevole o dominatrice, piegarsi all’empito della mano, o prostrane le forze.

Amo sapere, e sapermi, la scaturigine di ogni segno.

Amo vedermi, riconoscermi in quel gesto, in guisa di artefice e dio pantocratore.

Sapendo che, su ogni traccia d’inchiostro, grava la mia anima più ascosa,

più vera.

Finalmente,

dolorosamente, libera.

Ché in quel gesto, e solo in quel gesto, essa sa di non potersi mentire.