Monica Pezzella

Il Salon di Baudelaire

Monica Pezzella
Il Salon di Baudelaire

In relazione all’inchiesta di Vanni Santoni: Lo stato della critica e lo stato del romanzo: quattro domande per sessantasei critici

https://www.indiscreto.org/wp-content/uploads/2019/01/Lo-stato-della-critica-e-lo-stato-del-romanzo-Vanni-Santoni.pdf

La parola a Charles Baudelaire (sulla pittura e sul ruolo del fruitore di arti visive dopo l’avvento della fotografia)

È il 1859. La fotografia avanza straripante, gli obbiettivi vomitano i loro prodotti lisci e statici sui quadri increspati di colori. Corrompe i pittori. La realtà di cui è sterile imitatrice intorpidisce l’interpretazione. Per le strade parigine disseminate di tele e croste di vernice si aggira, nero e raggrinciato come un ragnetto sopra le macerie, Charles Baudelaire. Gli piacerebbe criticare un Salon "senza averlo visto, e solo con l’ausilio di un catalogo". Lo fa, una critica la scrive (Salon del 1859, in Saggi sull’artei Meridiani, Mondadori 2009). Confesserà poi che in realtà il Salon lo aveva visto, alla ricerca di novità, ma soprattutto dell’Immaginazione. Ne era uscito scontento, avvilito e deluso dall’artista contemporaneo. L’esteta dilettante che intasa le gallerie non è che un adolescente viziato, svuotato delle parole suggestive, della conoscenza della storia, della vasta erudizione e dell’amore per il grande di cui si erano nutriti David, Lebrun, Delacroix. Il ragazzino di un oggi guastato riesce a malapena a praticare “il mestiere”.

Dipinge, dipinge e si tappa l’anima, e seguita a dipingere fino a somigliare una buona volta all’artista alla moda, e a meritare per la sua imbecillità e la sua abilità il consenso e il danaro del pubblico”.

La sindrome del disprezzo per il proprio tempo attanaglia e intorpidisce l’uomo dacché l’uomo è uomo: a fatica ci sforziamo di trovare nella contemporaneità anche solo una concezione che definiremmo onestamente bella e nuova. Diventiamo scettici se ci si fa notare che ogni epoca è apparsa ai suoi abitatori futile e vuota rispetto al passato.

Eppure sta di fatto che Baudelaire, in quel Salon che non avrebbe voluto visitare, si è avvicinato un altro po’ al quadro appeso alla parete e si è domandato “se gli occhi di Giulio Romano, di Michelangelo, di Bandinelli, siano stati afflitti da simili mostruosità”. E si è risposto: “Per parte mia, non lo credo”. Il pittore francese non è “nativamente artista”. È incapace di ”sentire con immediatezza” e tuttavia è apprezzato in quanto ”inebetisce il pubblico”, che “a sua volta produce su di lui lo stesso effetto”. Artista e pubblico “sono due termini correlativi che agiscono l’uno sull’altro con pari efficacia”. E questo pubblico, “stranamente incapace di sentire la felicità del fantasticare e dell’ammirare, vuole essere stupito con mezzi estranei all’arte”. Il pubblico è sterile, privo di immaginazione e pertanto convinto che l’arte non possa essere altro fuorché l’imitazione della natura. Adora la fotografia fino a considerarla una forma d’arte più completa della pittura.

Da allora, la società immonda si riversò, come un solo Narciso, a contemplare la propria immagine volgare sulla lastra”.

Ma ciò che Baudelaire contesta non è la fotografia in sé, quanto le sue pretese artistiche. “Occorre che essa torni al suo vecchio compito, che è quello di essere l’ancella della scienze e delle arti […]. Che arricchisca rapidamente l’album del viaggiatore e restituisca ai suoi occhi la precisione che può far difetto alla sua memoria […]. Che salvi dall’oblio le rovine cadenti, i libri, le stampe, e i manoscritti che il tempo divora […]. Ma se le è concesso di sconfinare nella sfera dell’impalpabile e dell’immaginario, in tutto quello che vale soltanto perché l’uomo vi infonde qualcosa della propria anima, allora siamo perduti!”.

Vi è, nelle riflessioni agitate di Baudelaire, un concetto di fondo che è difficile contestare: sempre, e forse sempre più spesso nel tempo, gli uomini hanno voluto vedere l’arte ove non vi sono che pretese artistiche. Nel ridicolo e nel grottesco spesso hanno creduto di vedere il bello. La scena artistica contemporanea, divenendo nei secoli più accessibile, somiglia sempre di più a un enorme pentolone in cui tutto fa brodo.

Ma “più la materia, in apparenza, è solida e positiva, più il compito dell’immaginazione è sottile e laborioso. […]. Un buon ritratto mi appare sempre come una biografia drammatizzata, o meglio come il dramma naturale immanente ad ogni uomo […]. Il paesaggista che non sappia tradurre un sentimento con una composizione di materia vegetale o minerale non è un artista […]. Gli artisti che intendono esprimere la natura, sciolta dai sentimenti che essa ispira, si assoggettano a un’operazione bizzarra che consiste nell’uccidere in sé l’uomo pensante e senziente”. Baudelaire rimpiange le rovine, le roccaforti, le abbazie merlate, i ponti giganti: le tracce dell’uomo. La rappresentazione della natura non è che uno studio, può fungere da appunti, ma può diventare un quadro soltanto quando il pittore vi trasponga la propria anima attraverso l’immaginazione: qualora vi sia l’uomo.

Siamo poi così sicuri che l’arte debba essere messa in relazione – una relazione meramente temporale – con ciò che l’ha preceduta e non nasca invece dal rapporto esclusivo, intimo e irrimediabilmente contemporaneo e contestualizzato con chi la produce? Domandiamoci almeno se, in questa convinzione che non si possa essere altro che mediocri ripetitori di ciò che è stato già detto prima di noi, non ci si costringa, proprio nella disperata e artificiosa ricerca del nuovo anziché del nostro, a esserlo. E a produrre mostri irredenti. Irredimibili.