The Rest (Il riposo)

The Rest (Il riposo)

Due uomini e una macchina

 

“Dove siamo?”

Era la terza volta che D. Rama lo chiedeva, nel giro di un paio di minuti. Una domanda che non avrebbe avuto risposta, comunque... M guidava come il pazzo che era diventato e non guardava in faccia nessuno. Se fosse stato sotto l'effetto di droghe sarebbe stato meglio: folle sì, ma con la possibilità di ritornare normale una volta che l'estasi lisergica fosse andata via.

Ma M era sobrio: non aveva nemmeno bevuto, dannato criminale da strapazzo che non era altro. Pestava l'acceleratore e anche il tempo sembrava volare via insieme alla strada. Alberi e cartelli stradali, case sempre più brutte, scheletri di macchine bruciate ai lati della strada... D. Rama aveva persino paura di guardare la lancetta dei chilometri: teneva gli occhi chiusi, le dita aggrappate al sedile e pregava che un dio sconosciuto venisse a tirarlo presto fuori da quell'incubo.

Ma nessuno veniva, diamine, nessuno.

Quella mattina, quando era uscito di casa per cercare il lavoro che non avrebbe trovato, D. Rama era certo di passare una giornata come tutte le altre. Sosta al bar, spiccioli sul banco, un tenga pure il resto detto così, in un impeto di altruismo. Anche quando si era diretto verso l'edicola era convinto di trascinarsi nella solita, fastidiosa quotidianità. Un saluto a un conoscente, una sosta davanti al distributore di sigarette, il dito che va a cercare la marca preferita...

E poi niente, tutto diventava assurdo.

D. Rama ricordava M che gli si avvicinava di corsa, M che lo afferrava per un braccio e diceva muoviti. E poi la fuga per il marciapiede, D. Rama che chiedeva dove stiamo andando, M che non rispondeva e la gente che urlava con la bocca aperta.

E adesso erano tutti e due lì, dannazione. Seduti sui sedili lerci di una macchina rubata, diretti verso il nulla della campagna aperta. Perché? Perché ho dato retta a questo pazzo? pensava D. Rama di continuo. E non riusciva a darsi una risposta.

 

L'Ultimo Chansonnier

 

La luce dei lampioni rendeva azzurra la strada. E non solo: anche il gatto in cima al muro aveva il pelo blu. Anche le piante di rose sul balcone sembravano celesti. Le ombre ai lati della strada erano quelle dei sacchi dell'immondizia: tante, gonfie, nere e piazzate come totem in mezzo al passaggio. Sul muro usato da tutti come bagno si apriva una finestra. Se ne stava là, incastrata nei mattoni come un oggetto fuori posto, i vetri sporchi, la polvere posata un po' dappertutto sulle tende gialle.

Proprio là sotto stava in piedi l'Ultimo Chansonnier. Biondiccio e triste, le guance cadenti come stracci... Se ne stava da solo, poveraccio, figlio di un'epoca che gli si era spenta addosso come una sigaretta sulla carne viva. Guardava verso i tetti. E cantava, cantava, incredulo che la sua voce fosse ancora in grado di rimbalzare con forza nel silenzio nero dei vicoli. Cantava.

Finché qualcuno spalancava la finestra e buttava giù qualcosa, dannazione, perché l'Ultimo Chansonnier dava fastidio anche ai sordi.

 

Nel nulla

 

La voce alla radio andava e veniva. M allungò una mano, provò a cambiare canale: niente, partito tutto. E se non andava l'autoradio, dannato mondo, allora non sarebbero andati nemmeno i telefoni. D. Rama cominciò seriamente a preoccuparsi: M si stava andando a infilare in mulattiere che nemmeno i satelliti erano in grado di rilevare. Polvere, sassi, sassi, polvere... Le case erano baracche: i vetri delle finestre non c'erano più, sostituiti da teli che sventolavano di continuo. Le porte di legno erano tutte aperte, come se in quei postacci non ci fosse davvero nulla da rubare.

In lontananza si vedeva un casolare. M pareva diretto proprio là, sparato a più di cento all'ora sulla strada sterrata. Accelerava sempre più, dannazione, e il telaio scricchiolava così tanto che i pezzi sembravano voler saltare via da soli. Lo dobbiamo trovare. Lo dobbiamo trovare, ripeteva M di continuo. Pazzo furioso, col cervello scoppiato come una mina.

E dire che quando D. Rama l'aveva conosciuto, durante la partita più breve e brutta nella storia del poker, M il Matto gli era pure piaciuto.

 

L'Ultimo resterà Ultimo

 

La vita dell'Ultimo Chansonnier era andata bene. Fin troppo bene.

La bomba del successo gli era esplosa in mano a vent'anni e lui si era ritrovato in cima al mondo senza nemmeno aver fatto la scalata. Cantava l’ironia, lui. Aveva uno sguardo tagliente su tutto, così cattivo da piacere sia alle anime belle che a quelle dannate. Intelligente, lo definivano. Ma se l'Ultimo Chansonnier fosse intelligente o meno, non lo sapeva nessuno. Nemmeno lui.

Amava essere stravagante, quello sì. Svolazzava in canottiera con la stessa grazia di quando indossava il frac. La sua cravatta somigliava più a un cappio che a un indumento: gli strozzava il collo e in molti si domandavano come riuscisse a respirare. L’Ultimo Chansonnier indossava camicie a pois, scarpe belle, scarpe brutte, pinne, stivali con gli speroni… Tutto mescolato insieme con il solo scopo di stupire. Intelligente, intelligente, dicevano tutti. E più lo definivano così, più l'Ultimo Chansonnier diventava una palla di boria. Faceva una vita talmente luminosa che anche suoi soldi si vergognavano di essere così tanti. Le feste a cui partecipava non erano semplici party: se non c'era come minimo una piscina da ottanta metri cubi d'acqua l'Ultimo Chansonnier in quella casa non ci entrava nemmeno. Beveva fino a gettarsi tra i cespugli in mutande. Si faceva di qualunque sostanza nei cessi. Leccava le scarpe delle belle donne fingendo che fossero piedi. Intelligente, intelligente... Intelligente sì. Ma morto, però. E morti pure i drink arancioni che teneva in mano, le ragazze in costume che gli giravano intorno, morta la statua d'oro che aveva fatto piazzare nell'attico di casa sua. E gli anelli d'oro e il mantello e gli stivali col tacco per sembrare più alto e... e... L'Ultimo Chansonnier era l'Ultimo Chansonnier.

Dopo di lui, di Chansonnier così non ne nacquero più.

 

Poker Face

 

D. Rama aveva incontrato M durante la notte del poker. Si erano conosciuti là, nel bar dei ciechi che ci vedevano benissimo. Una stanza piena di fumo, tre uomini intorno al tavolo, le carte strette in mano... E D. Rama che parlava, parlava e non si rendeva conto che in un bluff si deve stare zitti.

“Avevo una donna e adesso non ce l’ho più. Andata via perché – parole sue – aveva bisogno di fare altre esperienze. Ma quali altre esperienze, cazzo? Amore a tempo determinato, ecco cosa mi ha dato quella stronza: ti amo, ti amo, ti amo... e poi non ti amo più. Così, di punto in bianco. E quella volta non giocavo a carte, eh? Quella volta ero normale, avevo voglia di costruire qualcosa...”

D. Rama in mano non aveva nulla, nemmeno una misera coppia di due. Però aveva la lingua lunga, talmente lunga da sputare fuori anche quello che non avrebbe dovuto.

“E il lavoro? Perso anche quello. Avevo dei sogni e mi sono stati portati via. Dei sogni! Mica come gli altri, che hanno in testa solo merda... Avevo la speranza. E non dico nemmeno la fine che ha fatto quella. Poi dicono che mi gioco anche la camicia... Ma che dovrei fare? Buttare via la sfortuna e andare avanti come se niente fosse? E allora gioco, cazzo. Cos’altro dovrei fare?”

M parlava poco ma quel poco sembrava interessante, almeno in mezzo ai fumi dell'alcol. Voleva prendere una macchina per andare... andare... Dove? D. Rama non se lo ricordava.

Però ricordava con chiarezza di aver annuito e di aver detto: Tu sei un grande! Ti chiamano il Matto perché sono matti loro! Non capiscono... Beh, adesso non capiva neanche lui. Cosa diavolo ci aveva visto, in quel tale dagli occhi fuori dalle orbite? Una fratellanza? Se ci vado sul serio, verresti con me? aveva detto M. E D. Rama niente, gli pareva di aver risposto: Sì. Non ne era certo.

Ricordava con chiarezza solo se stesso, ubriaco da fare schifo, gridare ALL IN e spingere in avanti tutti i gettoni che aveva sul tavolo.

 

Come ama un Chansonnier?

 

L'Ultimo Chansonnier, nel declino della sua gloria, non si sentiva affatto ultimo. E a dirla tutta, non si sentiva più nemmeno un Chansonnier. Dopo aver fatto innamorare il mondo aveva tirato le note in barca e si era accomodato sulla bella vita come un gradasso. Non suonava più. Non cantava più. I testi che scriveva erano spazzatura. Si divertiva, sì: una donna, poi l'altra, poi un'altra ancora...

Subodorava la propria fine, in fondo. E più il terrore di ritornare nel niente veniva avanti, più lui tornava indietro. Io sono Dio! gridava spesso. La paura. La pelle che si accartoccia in un brivido perenne. Ecco cosa provava lo Chansonnier. La parola intelligente non veniva più associata a lui: altri Chansonnier gli stavano portando via anche l'aria che respirava. E le feste in piscina? Andate. E il telefono che squilla di continuo? Muto. L'Ultimo Chansonnier si guardava intorno con sgomento, senza sapere bene dove scappare. Si aggrappò alla prima donna che gli passò accanto. Una con un nome troppo bello per poterlo pronunciare con leggerezza. Infatti lo Chansonnier non lo disse mai: la chiamava con un fischio, come i cani. O con un ehi o con un vieni qui, o con un...

Lei era bella: lo Chansonnier mica si sarebbe preso un cesso. Ed era in gamba: lo Chansonnier voleva una compagna che fosse degna di camminargli accanto senza farlo sfigurare.

Ma dov'era, l'amore dell'Ultimo Chansonnier? Relegato in fondo allo spavento, tra il terrore dei sogni infranti e l'incubo del tempo che se ne va. Lei gli regalò il cuore e lui ci pisciò sopra.

In fondo, lo Chansonnier non aveva bisogno di nessuno: dava fuoco alle banconote come fossero sigari; si tingeva i capelli di un biondo così acceso da far male agli occhi; spendeva tutto in anelli che parevano patacche infilate alle dita. Lui poteva, era Dio.

Quando lei lo mollò, lui rimase da solo.

E rimase da solo proprio là, in mezzo alla strada, a non capire cosa fosse successo, né perché.

 

...E c’è pure una casa, là nel niente

 

M stava andando verso la baracca a tutta forza, come se avesse il piede incollato all'acceleratore. D. Rama avrebbe tanto voluto aprire la portiera e buttarsi giù: Io non ci volevo venire... Io scherzavo... ripeteva di continuo. E intanto la macchina sfrecciava e sulla soglia della casa c'era qualcuno: un uomo di mezza età, messo male da morire, pancia in fuori, canottiera con chiazze di unto sul petto...

M arrivò fin davanti all'uscio, sterzò per non prendere in pieno i gradini sulla soglia. D. Rama fece un salto in avanti: solo per miracolo non andò a sbattere il muso contro il parabrezza.

La casa era un postaccio a pezzi, circondato da cani con le costole a vista e gatti senza un occhio. M scese dalla vettura e si avvicinò all'uomo: i suoi stivali pestavano con forza la ghiaia mentre lui avanzava a grandi passi. Sei tu? domandò. E l’uomo niente, teneva la bocca aperta come se non avesse nemmeno capito la domanda. Sei il nostro signore? disse ancora M.

D. Rama era incollato al sedile, pallido come un morto. Non si muoveva più, non respirava più. Malediceva a bassa voce il giorno in cui aveva incontrato M e sudava come una fontana. E non faceva altro, perché tanto ormai era lì e non poteva andarsene nemmeno pregando.

 

La Leggenda dell’Ultimo Chansonnier

 

Così termina la storia dell'Ultimo Chansonnier. Con lui perduto in postacci oscuri, il volto cadente come un sacco e i vestiti di due taglie più grandi che gli impedivano di muoversi bene.

Ogni notte alzava gli occhi sulla stessa finestra. La finestra di lei. Le piante sul balcone erano sempre le stesse, la luce dietro il vetro illuminava male la stanza. Aveva vissuto nel sogno, povero Chansonnier. E la nostalgia per quel tempo psichedelico gli torceva ora le budella fino a fargli sputare il rimorso. Si appoggiava con le spalle al muro. E cantava, cantava, brutta spazzatura del tempo che non era altro. Cantava. Alla luna come un cane, alle finestre rotte, cantava sotto il balcone di lei. E lei spegneva la luce. E andava pure a dormire. Non da sola, tra l'altro.

E lo Chansonnier là sotto, a non capire, a pregare il mondo che non lo voleva più. Era quella, la fine. Calata da chissà dove, piombata nel mondo con un sorriso. Non è colpa mia, è stato lui, lei è cattiva. Questo avrebbe voluto dire lo Chansonnier. Non poteva farlo, però. Poteva solo cantare e restarsene lì, a prendere in faccia gli insulti di quelli che aprivano la finestra e gli gridavano Taci!

 

Il riposo (The Rest)

 

“Lo sai come mi chiamano? Il Matto. Perché gioco tanto, dicono. Imbecilli che non sono altro... Mi accusano di fregare la gente, ma io ho bisogno di soldi. Capisci? Io voglio vivere bene la mia vita. Mi piace stare bene. Sono matto, per questo? No di certo: voglio solo vivere alla grande.” M piegò le labbra “Anche tu volevi stare bene, o sbaglio? Nostro signore dei fallimenti... Ti ha fatto male cadere giù? Mi sono sempre chiesto cosa si provi a rompersi le ossa dopo essere stati in Paradiso...”

D. Rama aprì la portiera per sentire meglio. Si portò una mano sulle labbra, perché il discorso di M riguardava anche lui: una vita che comincia in gloria e finisce a rotoli.

“Anch'io sto per cascare. E anche lui.” M indicò D. Rama “Stiamo male e non sappiamo nemmeno il perché. Io ho avuto una bella vita, in fondo. Tutto a posto, niente scossoni, niente di niente. E poi non so cosa sia successo: una mattina mi sveglio, mi guardo allo specchio e mi accorgo di essere nella merda fino al collo. Non so chi sono, cosa sto facendo... Non so nemmeno perché cazzo mi sono sposato. Quella che mi dorme accanto è un'estranea, diamine.”

L'uomo sull'uscio aveva la bocca aperta e non sembrava in grado di capire.

“Allora mi sono detto: devo trovare il perché di tutto questo. E ho pensato a te. Tu dai buoni consigli, dicono. Vai dal signore dei fallimenti e chiedi a lui. E io sono venuto, infatti. E allora parla, uomo delle cause perse. Dì qualcosa di utile. Perché le nostre vite partono bene e finiscono male? Tu devi saperlo, sei passato prima di noi attraverso tutto questo schifo.”

D. Rama stringeva un pugno: il discorso gli interessava più di quanto avrebbe voluto. M invece incalzava: Parla, re delle cose brutte! E l'uomo mosse le labbra. Dimmi cosa devo fare! Salvami! E l'uomo mormorò qualcosa. Parla, sputa, apri quella fogna che hai al posto della bocca! E il tempo passava e il sole scendeva sempre più in basso. Parla, parla, parla! Facile, però... Prima tu, vai avanti tu, dimmi cosa devo fare... Tutto senza centro.

La vita non era più gioia. Né illusione. Non era più nemmeno la puttana che era sempre stata.

Era una bambina, adesso. Che non sapeva dove andare e chiedeva di continuo aiuto per stare in piedi da sola. Parla! Parla! Parla! M mostrava i denti, D. Rama anche.

E il riposo era sceso sulle spalle dei guerrieri, aveva sepolto l'anima forte delle donne. Aveva bruciato discese, salite, spento per sempre lo sguardo lontano dei vecchi. E cuori in fiamme e ghiaccio nelle vene. E lacrime, sale, amore, fare l'amore, perdersi... Tutto perduto, andato, occhi chiusi e bocca coi denti a vista, in attesa della pace.

Era quella la paura di crescere, di accettare dignitosamente la sofferenza. The Rest.

L’uomo sulla soglia aprì le labbra. Disse un'unica parola: Chansonnier.

M non comprese. D. Rama nemmeno. Rimasero tutti e tre a guardarsi in silenzio, mentre il sole terminava la sua lenta discesa dietro la linea dell'orizzonte.