FUORI CORDA - rubrica
IL PIANISTA
Un viaggio Fuori Corda sulle note di Sebastiano Scordato e Marco Triolo
(Monica Pezzella)
Esistono diversità che innescano “modi di narrare diversi”; narrative e mondi alternativi, progettati e edificati non solo con parole ma con parole e suoni. Testi mixati: non da leggere, solo; da ascoltare, anche. Il Pianista scorre letteralmente diviso in due colonne, una fatta di parole su righe, l’altra di note su spartito, queste ultime da immaginare per chi non ne sa molto di musica, ma che è persino possibile ascoltare giacché gli autori hanno ben pensato di inserire “un codice QR per ogni parte del testo musicale, che può essere scansionato e ascoltato insieme alla lettura classica”.
Bell’idea, quella del codice, per un racconto di cui è disponibile anche l’audiolibro, e che lascia tuttavia spazio - perché no? - a una “lettura” dello spartito per chi della musica sa farne un’immaginazione propria.
Piccole ed eleganti, talvolta disegnate a mano, le note che nuotano accanto al testo e vi si scagliano come a riva sono, insomma, un invito a una danza, un viaggio in più sensi percettivi-
Un invito rilassante che invita però un solo invitato; o un invitato, solo: il lettore, solo; a tavola col testo, o meglio, seduto alla tastiera di un pianoforte; davanti, uno spartito per suonare un racconto.
Per le #NoteDiScouting rileggiamo Luca Tosi, autore di “Ragazza senza prefazione”, TerraRossa Edizioni, selezionato dalla Giuria dei Letterati del Premio Campiello.
Luca era passato #sullaquartacordarivista con il racconto "Hotel Excelsior".
Congratulazioni, Luca!
L’infinito ologramma di Maria Gabriella Mariani
un romanzo da rilanciare
(Monica Pezzella)
«L’ho intitolato “IO”, non sapendo come spiegarlo alla cartella. E a me stessa, ovviamente»
Inizia così Ologramma – sette vite per non morire di Maria Gabriella Mariani.
Difficile, in effetti, spiegare a un documento digitale – o a un foglio di carta, non fa differenza – un’urgenza di scrivere che non trova più motivazioni esterne, come accadeva in passato, ma è adesso un dolore che ha “superato le mura di cinta” ed è entrato dentro chi scrive, terminato l’assedio ha conquistato il corpo fino a identificarsi con esso, e risulta ormai indecifrabile e, forse ancor più, inesprimibile; la persona, che è ormai lei stessa quel male che la spinge a scrivere, ha perso i complementi oggetto; la parola si vanifica, nel dover spiegare sé stessa.
Questo “Io” […] franto, diviso, spezzato, dissociato” che non si appartiene più non ha altra scelta, per esprimersi, se non quella di espropriarsi. Scrivere una storia; la storia di un altro o di un’altra, la storia di chiunque altro – “mettiamola così” dice l’autrice – perché una storia è un mezzo non un fine; e allora, va bene, espropriamoci: raccontiamo (o forse… raccontiamoci) la storia di un chiunque qualsiasi, purché quest’Io possa guardarsi, ritrovare i complementi e dirsi.
A noi lettori a questo punto, se fosse così semplice, non resterebbe che dire: leggiamola, questa storia di chissà chi; anzi, le storie di uomini e donne il cui nome talvolta non è che una lettera puntata, la cui vita è in bilico tra il quotidiano e l’ideale, il cui amore è tanto materiale quanto etereo, la cui mente è assediata, ciascuna a suo (?) modo, dall’abulia che annichilisce il corpo (si chiama, è tristemente noto almeno a chi c’è passato, somatizzazione) e la mente al cospetto dell’idea di morte e della non-idea del nulla.
“A proposito: non mi parli mai dei tuoi”.
“Infatti. E può bastare questo. Di ritorno c’è stato un
inconveniente, sai”.
“Quale?”.
“Veramente già all’andata, ma in forma minore”.
“Mi dici di che inconveniente si tratta?”.
“All’andata e poi al ritorno, durante l’atterraggio…”.
“Cosa?”.
“Una specie di chiodo che mi si conficcava nell’orecchio. Soprattutto quello destro”.
“Beh, si otturano le orecchie”.
“Lo so. Ma non è stata la stessa cosa. Un dolore lancinante, soprattutto al ritorno. Mi è durato per ore. Oltre al fatto che non sentivo niente”.
“Può capitare. Comunque fatti vedere”.
“Cercavo di ingoiare saliva per sturarmi quel maledetto orecchio, ma non ci riuscivo. E continuava a farmi male”.
“Poi si è risolto?”.
“Più o meno…”.
“Vuol dire che sei ancora sordo?”.
“No. Vuol dire che di notte mi sono svegliato senza respiro. E non riuscivo ad ingoiare. Sputavo la saliva nel lavandino. Ho provato a farmi una camomilla, ma non riuscivo ad ingoiare. E neanche a respirare. E anche se mi è passato ho da allora la sensazione che per riuscire a mandare giù qualcosa c’è bisogno che prenda la rincorsa. Come se la gola stesse alla rovescia, atrofizzata, e in questa tensione mi sembra che anche il palato e la lingua siano atrofizzati. Oppure altre volte mi sembra che la lingua sia alla rovescia e sia inghiottita in giù. Mi chiedo dove si deve mettere la lingua perché non si muova. Mi chiedo dove la tenessi prima, quando non provavo queste sensazioni e non pensavo a dove mettere la lingua di notte e a quante volte ingoiavo, e se la gola si chiudeva come una tenaglia oppure si apriva a precipizio come una voragine”.
Ma… Ferma. C’è un problema.
Il romanzo in questione, alla fin fine e non certo a caso, ha assunto il titolo di Ologramma, quasi l’avesse fagocitato e se lo fosse affibbiato da solo. La battaglia per la riconquista, l’azione oserei dire bellica della scrittura condotta attraverso un punto di vista che si autodefinisce altrui (un’impresa impossibile, concorderete; oggettivamente, drasticamente impossibile) si trasforma in una sequenza ininterrotta di voci – i “personaggi” (che orrenda parola, in questo caso specialmente) – che, proprio come l’autrice, cercano di salvarsi e recuperarsi raccontandosi ciascuno attraverso lo sguardo di un “chiunque altro”: un ologramma, appunto; un oggetto, sia esso grafico, acustico, ecc. (l’autrice è musicista e compositrice, anche questo non è un caso, onde e fasci e frequenze li conosce bene) si frange – ricordate quell’ “Io franto”? – a seconda del punto di vista, in un gioco di specchi in cui non solo la differenza tra prospettive, realtà, immaginazione, finzione è ormai indecifrabile per tutti – lettore compreso – ma è diventata un granitico dato di fatto: questo “chiunque altro” attraverso i cui occhi l’Io franto pretendeva di guardarsi e la cui immagine appariva come realmente presente, ahimè, ahinoi, non è e mai è stato altro che un “sé stesso”.
Alla fine infinita, indeterminabile, incollocabile di questo ologramma a catena si è poi raccontato, quest’Io?
Per forza. Non poteva essere altrimenti. Eppure, ciononostante, mi viene da pensare che non per questo smetterà mai di cercarsi.
“Cerco qualcuno”. Se ne stava tutto il giorno seduta
sul suo divano, all’occorrenza letto, poltrona su cui dormire, scrivere,
rispondere al telefono, soprattutto vegliare.
“Chi?”. René, la buona amica, una delle poche che la conoscesse fino in fondo
e che fosse disponibile all’occorrenza.
“Non so. Qualcuno, qualcuno con cui e per cui fare ordine”.
“Dovresti cominciare dalla dispensa. Poi i pensili della cucina. Poi…”.
“Non intendo quel genere di ordine”.
“Dovresti chiamare qualcuno”. I limiti di René erano
proporzionati alla sua abnegazione nei confronti di Carmen.
“Liliana ha una nipote malata: mi piacerebbe comprarle un vestito nuovo.
Vorrei organizzare una festa ed invitare tanta gente. Chissà quanta gente ha ancora bisogno di me”. Carmen guardava avanti a sé mentre René si
destreggiava sapientemente tra gli stipi della cucina attigua.
“Hai provato a chiamare Paolo?”.
“E poi c’è Lucia, vedova, con una famiglia a carico: il figlio non lavora!”.
“È possibile che quella perla di ragazzo non senta il
bisogno di vederti?”.
“Lascia perdere quella perla. Ci sono perle di tutti i colori. Anche quelle nere sono preziose”.
Il romanzo di Maria Gabriella Mariani, edito da Guida editori nel 2019, merita di essere recuperato. Deve essere recuperato, rilanciato. Mi azzardo a dire che merita una nuova e più appropriata collocazione editoriale, e la ragione per cui mi azzardo a dirlo è che questo inconsueto, terribilmente sincero, disarmante Ologramma in “sette vite” merita di essere letto. Procuratevelo, lo si trova ancora facilmente. Intanto leggiamolo e poi, quando sarà, vediamo un po’ – e qui mi rivolgo agli editori – di collocarlo dov’è giusto che stia.
Gli occhi di Paolo, due begli occhi neri, oh, chi può dimenticare
quegli occhi grandi, così imploranti; sembravano sempre
sul punto di affondare in un mare di lacrime”.
“Se volessi potresti rintracciarlo”.
“Certo che potrei, ma non voglio. L’ultima volta che
ci siamo sentiti gli dissi che soffro di insonnia, che spesso
ho delle crisi di apnea, che ho paura di dormire perché
ho paura di morire”.
“E lui?”.
“Riguardati. Questo mi ha detto. Ha aggiunto anche
che mi consigliava di non muovermi. Invece mi sono mossa: sono partita, sono tornata e poi ripartita. Lo chiamai per comunicargli che ero partita”.
“E lui?”.
“Ah! Questo mi ha risposto. Gli dissi che volevo organizzare una riunione a casa con i vecchi amici, in occasione del suo compleanno, come ai vecchi tempi”.
“E lui?”.
“Non credo che potrò esserci. Questo mi ha risposto. Allora gli ho mandato dei soldi, visto che non ci sarebbe stato”.
“E lui?”.
“Me ne ha chiesto spiegazione. Mi sono sentita rimproverata”.
René con il cencio in mano e gli occhi di fuoco: “Li avessi dati a me ti avrei organizzato una festa con tutti i crismi!!!”.
“Gli ho detto che se non li voleva poteva restituirmeli”.
“E lui?”.
“Lascia perdere cosa ha detto lui. Cerco qualcuno,
René, qualcuno che abbia bisogno di me”.
Leonardo G. Luccone
IL FIGLIO DELLE SORELLE
Il tempo, il dubbio di non esserci, la paura di non sapersi dire
Non credo vi sia, nella storia della letteratura e tenendo conto delle proporzioni, un romanzo in cui ricorre così tante volte la parola “papà”. Eppure dire che “Il figlio delle sorelle” di Leonardo G. Luccone (Ponte alle Grazie 2022) parla di paternità, famiglia e ansie sociali è ingiustamente riduttivo, facilmente facile. Chi sia il padre e chi il figlio menzionato nel titolo, qui, non va detto. Chi siano le sorelle, anche questo, come tutto ciò che è parte della trama, va lasciato al lettore.
Se per descrivere un romanzo, dunque, si deve proprio tirare in ballo “il tema” di quest’ultimo, io direi che qui il tema è il tempo. “…questo tempo intermittente incollato dalle parole e dal Moscow Mule”. L’inafferrabilità del tempo, anzi. La pretesa, spacciata in partenza, di incamerarlo; contornarlo e controllarlo; recuperarlo e prevederlo; definirlo. “Definirlo”, ecco. In ogni accezione del termine. Tornano allora proprio loro, a battersi con il tempo (non contro; e forse sarebbe più corretto dire: a confrontarsi con il tempo): le parole. Sono loro quella pretesa già spacciata in partenza, il solo tramite che ha l’uomo, il tentativo, l’àncora, la possibilità di mettere ordine nel caos; speranza e, perciò, condanna.
E allora, se un “tema” dev’esserci per forza, ne “Il figlio delle sorelle” io direi che il tema è questo confronto tra il tempo-oltreumano e le parole-troppo-umane.
Confronto? Paradossalmente, adesso che è entrato in scena l’uomo, non vi è più alcun confronto: adesso, tutta ingabbiata nella mente dell’uomo, sobbollente in un cervello, vi è una mostruosa, vana guerra.
È pazzo, il presunto protagonista di questa storia? È pazzo, quest’uomo che sente “le voci” e che, nell’assecondare il desidero di maternità della compagna (nell’abbandonarsi, nel “tirare avanti […] peggio di due dipendenti svogliati”), nel prendere in considerazione le alternative da lei contemplate (e attuate?) per raggiungere il chimerico obiettivo (biologico? sociale?), nel non saper restare sotto la lama di ghigliottina che pende sulla testa (tempo biologico, tempo sociale, tempo perso, rovinato, macerato, tempo da assicurarsi, tempi imposti)… è pazzo quest’uomo che nel tentativo di definirsi, rannicchiato nella sua testa e nella stanza chiusa delle parole, comincia a dubitare di esistere?
Certo che è pazzo.
“Ninna nanna, ninna oh (Anafranil) questo bimbo a chi lo do (Anafranil) se lo do al lupo bianco me lo tiene tanto tanto (Carbolithium) ninna nanna, nanna fate, il mio bimbo addormentate (Anafranil, Anafranil, Anafranil).”
Certo che è pazzo. Così sinceramente, normalmente pazzo – un pazzo così nudo, esposto, espresso, detto – che chi legge le sue parole, nel ritrovarsi in un’umanità tanto vera, è subito tentato di ricorrere a una famosa citazione e riconoscere che, vedete?, quel famoso autore aveva ragione: Siamo tutti uguali, ma alcuni sono più uguali di altri.
Mi sa di no, invece. Siamo davvero davvero davvero tutti uguali, ma alcuni non lo sanno; forse perché non se lo sono mai detti.
Monica Pezzella
SINTESI DALLE RADICI - Antonia Santopietro (Ensemble 2022)
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Imbattersi, per uno strano caso che non definiresti caso, in parole che lo dicono meglio.
Che cosa? Ho appena detto che la mia voce, ancora, non lo sa dire. Lo ha scritto Antonia Santopietro, in "Sintesi dalle radici", Ensemble 2022. Sulla quarta corda è onorata di ospitarne due brani a simbolo di pagine lacerate dalla ricerca, placida eppure inarrestabile incalzante combattuta - come il mare che è ovunque e uno solo ed è al contempo languore e tempesta - la ricerca di una radice che nella mente umana non trova una fine ma che è forse, della realtà, il solo concepibile fine.
“Può bastare uno spigolo, una lingua di terra. O il meno, forse il minuscolo, e se fosse facile stabilire cosa sia il vero, direi che sta nella direzione della sottrazione”.