Lettera a Lulù

Lettera a Lulù

Notturno. Interno.

Le bave dell’ombra.

Lettera a Lulù

Cigolio.

“Di cosa ti lagni lattea finestra?

Il tuo pallore è scandaloso e grezzo. È sorpassato, unto, marcito. Già non mi curo più di te, ma del prato che ospita i grilli. Guardali… Cantanti egoisti, viziati. Cianciate, cianciate, animali feroci! Armonizzate gli squilli! Consumate le squallide voci di sempre, gli spettacoli noti e annoiati. Quando domani arerò il sottosuolo, un tesoro troverò… un tesoro…. Gli scheletri dei vostri antenati farò cinguettare di nuovo.

Non siete che spiriti sibillini in frac da campagna. Ignorate l’età dorata… fingete le ossa, fingete… Vi diedero grandi consigli, coloro, caduti nel vuoto. Cantate, cantate, finché avete le stelle… Precipitate! L’avvenire vi macchierà la pelle… sarà il mio ristoro. Rimpiangerete l’orecchio ’sì tordo, vi crogiolerete nel rammarico più sordo, mentre io con la mia ragnatela allestirò un buffet d’alta classe. Vi amo come il giocatore ama l’asso, come il condannato il trapasso, e le sanguisughe il salasso.

Telo la fetida maglia, è il mio spasso, dolente e ramingo.

Che c’è?

Già è cessato il chiasso?”

Cigolio.

Alito di venticello notturno. Plurisgambettio peloso. Incespica il ragno zittito, temendoil suono del violino nel vuoto. In crudo tremore è precipitato.

Non sapendo bene che fare, bofonchiando, scrive una lettera molto romantica per lei, che chiama “Fiore impossibile”.

Cara Lulù

Una volta mi hai detto che saresti stata sempre “vento e risposta”. E che lo saresti stata per me. Non credo tu possa più rispondere a questa promessa. D’altronde, già da tempo… Sia perché di promesse non me ne hai più fatte, dopo l’anello di margherite che ci siamo scambiati sulla tela del camino… Sia “eccetera”.

Gli “eccetera” accumulati dal tempo che non ci vede più vicini.

Io forse sono stato tramonto prima che ragno. Ma non nel banale senso di qualcosa che si conclude, la morte del giorno. Io sono la pittura desiderosa del tramonto. E c’è, in questa presa-visione, qualcosa come “Invito al viaggio di Baudelaire”. Non trovi?

“Laggiù solo ordine e bellezza, lusso calma e voluttà”,

Dove E nel tramonto

È come Chopin nelle sue prime fughe, nella composizione X di cui ora non ricordo il titolo, ma che ascoltavamo sempre al calar della sera e dei primi guaiti che sempre ci spaventavano, portando grandi tremori alle nostre zampette. Ma ricordo quel minuto e quindici secondi di crescendo; adagio adagio fino al boom, che è bomba eiaculante,sicché nel fossato successivo si afflosciano e deprimono i tasti, cadenti come tele morteo come le nostre architetture fragili e trasparenti, col suono delle corde che vibrano nei reconditi sistemi di un pianoforte a coda, o delle nostre mappe per muoverci sino al soffitto.

Capito, compreso, intuito. Applicabile certamente alla paesaggistica, come allo stato delle cose mentali e ragnesche. Riesci a capire? Come vorrei che anche tu contribuissi a questi pensieri raffinati come ai gomitoli caduchi della veranda.

“È per questo che me ne sono andata”. Lo diresti Lulù, se fossi qui. Piccola bellissima ragnetta infedele, non ho mai dimenticato questa tua pugnalata al cuore. Perché non devi raffinare né produrre forme di verità personale. Basta sentirle. Il punto sta nell’accettarle, e stop. E camminarci sopra con tutte le zampe. Tu che mi stavi di fronte tutto il giorno, e non giudicasti mai fino a che non hai deciso di dover cominciare a giudicare. A quello ci pensavo già io. Era un mio compito. Non è mai stata una mia pretesa, lo sai – lo diresti abbassando lo sguardo sul precipizio che non sono mai riuscito a vedere, intento com’ero ad esplorare l’acero nelle porte. Ma lo avresti sempre voluto – ti risponderei - Ma non ci sono mai riuscita - Non perché non fossi in grado! Bisogna che la smetti di pensarla in questo modo.

Non ci sei mai riuscita perché in fondo era un abuso di te stessa, spingerti fino a certe velleità metafisiche - Ma io amo velleitare – sento che stai prendendo una piega anticondizionale, Lulù, un viatico di presenze che non possiamo permetterci. Siamo ragni, solo ragni. Non ti sei mai chiesta perché? Io sì, spesso. E il fatto che tu forse non l’hai mai fatto significa che sei ancora alla prima fase. Stazioni al primo starnuto del raffreddore che incombe. Qualcuno ci schiaccerà, o avrà paura di noi. È l’esserci. Lo “starci” senza precauzioni imbottite all’addome, salvaguardando il torace e soprattutto messa in salvo la testa. Che sostanzialmente è quello che si dice vivere - Io rifletto continuamente, sbruffone. I miei pensieri si affollano come formiche su granelli di pane sciolto - Appunto, insetti. Questo può appartenerti, come da millenni, ma non il pensiero morboso. Quello lo hai sempre preteso come marchio di fabbrica, ma non vedi che ti sta male addosso? Ti cade sui fianchi appesantendoli. Ti gonfia i sei artigli. T’ingrassa. Ti cambia il viso, l’espressione. Gli occhietti. Riduce persino la tua celebre velocità. A te più di altri, credimi. A me, poi, non ne parliamo. Sono diventato una botte, mentre il tramonto cambiava - …Lo sai che sei stato il martello delle mie notti? - Me l’hai detto Lulù, non lo diresti mai adesso, ma l’hai detto. E che cosa combinavo?

- C’erano notti in cui davvero sembravi disprezzarmi, altre in cui prendevi le sembianze del cattivo, una vita di cartoni animati. Una volta mi hai spaventato. Mi guardavi con una faccia a dir poco tumorale. Sembravi l’Urlo - Preferisco Evening on Karl Johan. Meno universale, ma più plastico. Mi sarebbe piaciuto passeggiarci sopra e strofinarmi le zampette in segno di soddisfazione. …Comunque… nel sogno mi ordinavi di entrarti in bocca. Dicevi che mi avresti masticato e divorato in tanti pezzettini piccoli, come fai con i moscerini o le falene… Ricordi che, dopo quel sogno, non riuscii più a guardarti in faccia per un mese? - Sì, Je me souviens. Te lo consigliò Rufus, il ragno della toilette, se non sbaglio. Dovetti inventarmi un paio di nuove smorfie perché tornassi al presente… Solo che non credevo tu avessi bisogno di annullarmi definitivamente per questo.

  • …Che credevi, mio caro… che bastassero le smorfie? Continuavo a sognarti, e nel sogno tornavi bello… ma nella realtà… diventavi sempre più egoista.

- Nella realtà non cambia niente, piccola ragnetta, bellissima donna infedele. Nella realtà come nei sogni conservo sempre una qualche disarmonia. E poi volevo approfittare di questa lettera per raccontarti una cosa che mi tengo dentro da un po’.

Ricordi l’ultima volta che ci siamo visti? Al funerale di tua madre. Quanto eri cambiata Lulù. Ricordo che ti dissi: “Condoglianze. Sincere condoglianze”. E tu che mi rispondesti?

- Ha vissuto con onore i suoi giorni da ragna. Tu come stai?… (Come sto? Sì, se non ricordi, fu “Come stai” la tua risposta. Ti pare possibile in un momento come quello?)

- Sì, lo ricordo… Come stai?

- …Non c’è male… si tira avanti…

Ok. Andava bene, ma ri-falla.

- Cosa?

- La domanda.

  • - D’accordo. Come stai?

- Allora… Partirei dicendoti quanto questa tua domanda equivalga ad uno scomodo rompicapo. Inutile, in generale. Ma soprattutto per il modo di pormela, con quegli occhi scuri come l’androne del palazzo a Vorgadenstrasse su cui mio nonno Gustav ha tessuto chilometri di tela sopra le tele nazionali. Un pozzo o due lune camaleontichenella notte. Non dovresti essere solita, Lulù. Non con me, almeno stando a quanto io sappia. Sì, d’accordo, gli altri…Sì sì, certo. Ma anche loro, sai, cosa credi? È soltanto una forma di consuetudine mala(ta)mente appresa. Già disinteressata in partenza. E per di più, poco interessante. Poi si rimedia, con la conoscenza, e le pretese di impararsi a vicenda. Si troverà la giusta via per arrivare anche all’appartamento a fianco, e la presa della fune non si lascia mai fino in fondo, ma è l’inizio che va rivisto, completamente. È un gioco sporco quello del “Come stai”, dato che nessuno risponde mai veramente, se ci pensi… Non sei d’accordo, automa delizioso?

- D’accordissimo. Ma non posso essere felice del fatto che già cominci ad offendermi.

- Non era mia intenzione… Perdonami. Forse sono io che sono disabituato, tanto quanto sono disabituato alla tua presenza, di questi tempi.

- Stavo solo cercando un modo normale per cominciare.

- Forse. Ma so benissimo che anche tu stai scomoda nei dialoghi troppo stretti, quelli che sembrano cuciti e rammendati - tovaglioli graziosi da mettersi al collo, per non sporcarsi col fango, o piuttosto con gli spruzzi del sugo, gli spaghetti. Ma quegli stessi tovaglioli finiscono per strangolarti, se non stai attenta. E poi, diciamoci la verità: tu ed io ancora… in fondo proprio no. Abbiamo chiuso dopo l’impresa della mille-tele.

- Ecco che cominci… Non ci avevo pensato nemmeno per un secondo, mio caro egocentrico folletto. Vuoi davvero la franchezza? Sin dal principio?

- La franchezza… ma che vuoi farci, Lulù. Sono un ragno distrutto, frantumato.

- Non sei un ragno, sei un folletto.

- Guardati un secondo: tu arrivi quando ti pare, ti prendi il merito disinvolto di farmi battere il cuore come uno scemo, ogni volta che so che stai arrivando. È quasi una vergogna per me, siccome sono cambiato, e moltissimo… Non senti anche tu questo brusio fastidioso? “Devono essere le api, c’è un alveare spaventoso sulla veranda. Vogliono entrare. Dicono che non hanno più paura di nulla”.

- Un fischio… o una cicala…Ma se si tratta di un fischio, “queste sono frequenze che se ne vanno per sempre, Lulù”.

- Benissimo. Benissimo, davvero…

- In realtà se dipendesse completamente da me, credo non riuscirei nemmeno a parlarti. Non vorrei farlo! Poi questo brusio, questa musica maldestra senza capo né coda, mi impedisce perfino di pensare in modo ragionevole, ho quattro delle mie zampe incrociate irrimediabilmente… Sono ferito.

- Non fissarti sul brusio, guarda che è sempre stato così. Ci siamo sempre parlati come distanti, distratti, come palline

Che

Cadono

Da gradini di cera

Scivolosi

Che portano

Ad un piano inferiore

Sotto le nostre pelli macchiate.

- Vero… Ma devi ammettere che col tempo ci siamo induriti. Con il vino, con le bramosie, una volta potevamo vantare di possederci, ma adesso? Gli schianti che abbiamo dovuto attutire, per forza di cose. Se non fossi perennemente arrabbiato con te, direi che perfino ci tocchiamo appena, talvolta nei silenzi dove non c’è passione, nemmeno più tanto da dire. Solo da correre per non esser schiacciati.

- Hai messo su un linguaggio claustrofobico e bugiardo, mio caro. Come nascondi bene il succo delle intenzioni… Il tuo problema è che non hai mai saputo prendermi per come-sono-veramente. Hai sempre voluto Lulù agghindata come Lei desidera…

Ma è una maschera, un fantoccio, la coccarda alla festa e una fotografia come ricordo.

Non negarlo.

- Cosa credi che non lo sapessi? Sai quante volte ho pensato ai perché, ai percome (mai ai se), soprattutto in sogno. Ma devo negarlo, questo fatto a dir poco fondamentale: io non ti ho mai chiesto di “indossare” alcuna maschera. Tanto che, come vedi, qualcosa ancora ci diciamo, e tutto sommato siamo ancora sullo stesso filo argenteo. Sarà per i doveri sottocutanei che onestamente non so ancora individuare; e non sappiamo, e non dovremmo. Io non ho mai voluto avere uno scheletro.

- Voluto, volubile. No, Alà, la tua è pura voluttà. Tu non chiedi permesso, ma pretendi ti si faccia strada con un dito sulle pareti.

- Non credo, onestamente. L’intesa si fermerebbe, non saremmo qui.

- Comportati bene… almeno in omaggio a quello che c’è stato.

- Non saremmo qui, se fosse un omaggio stucchevole. Vedi tutti quegli uomini e donne in piedi, coi fazzoletti al naso?

- Sì… la maggior parte non la conosco…e non sono sicura ci conoscano più di quanto li conosciamo noi.

- Perché non fai come loro? Perché non sei come loro?

- Questione di liturgie… Di zampe… Di scheletri desiderati… Abbiamo avuto la nostra chance di affermazione.

- Guarda che il tuo viso non mi piace neanche più, e forse mento, ma nemmeno il tuo fare nuovo mi garba. E forse mento, ma con questo accento da commediante di Bergamo sembri strana, maldestra, malvagia, bipolare, accattivante, quale in fondo sei sempre stata, nei momenti in cui, molto accorta, nascondevi le tue nude forme tra le pieghe del tetto, e la fuliggine in sospensione. Anche quando ti nascondevi tra le tende, e le persiane della finestra, sei sempre stata malvagia. Ora che ci penso, rischiavi di cadere. Quei teneri gesti su cui contavi, consumando, consumando, consumando, fino a prosciugare i gesti stessi e i demoni attorno, con cui scambiavi qualche verso ogni tanto, senza che io sapessi, ma capivo. Erano voci, scandite ad una ad una nella tua mente furibonda, con cui ponevi in letargo il vero senso della tua indole solitaria: gli insetti.

- Ma…

- “No, non parlare, ti prego non parlare” o ti pianto una pallottola nel fianco, solitaria. E chiedevi stimoli. Stimoli, stimoli, stimoli su stimoli, quando ti compiaceva più di qualsiasi cosa la consapevolezza di risultare sconosciuta a tutti. Ti ricordi comesventolavi quel referto che attestava che c’era in effetti un problema? E compiaceva anche me, e forse non mento.

- P…

- “No, non parlare ti prego non parlare” o ti pianto una pallottola nel fianco, solitaria. Triste y final. Eppure c’è qualcosa che ancora si regala in questa diacronia sempre più rada, che si imbruna mentre le scimmie in lutto e ammaestrate fanno il gioco delle sedie. Gli animali non hanno più paura, faranno presto la rivoluzione, credimi. Guarda quel signore anziano, laggiù, come piange inumidendo appena il baffo, e si piega su di sé come una specie di elefante graffiato, che salta nella piscina di lacrime, costretto a piegarsi alla forza di questo scostamento dei quattro assi cartesiani, dai punti in cui ci spostiamo solitamente, e dal momento in cui una convinzione diventa legge. Tu non immagini lo sciupio chiassoso che scricchiola tra le vertebre di quel poveretto, abbandonato su di una panchina in legno verde scuro. Quel vago e dimesso lamento che produce, sublime nella donna che dorme e si agita, come si trattasse d'un paio di fiammiferi sfregati e poi spenti, subito spenti dal figlio di un dio minore, inorganico. Tu non sai il suono di un grido bambino, e nemmeno il mattino lo riconosce più, sebbene l’albina marea suggerisca che fuori dalla finestra le onde, e la sabbia… ci pensi esser paguri o granchi? Ma tu non sei sabbia. Non sei granello rovente, sei arsa nel giogo di strega lucente e terracquea quale sei, isterica e bandita, lontana, sino all'angolo più remoto d’una qualche fessura in cui ti nascondi: il buco d'una serratura. Tu non sei una vittima in fuga, con sanguina ombra del tuo inseguitore. Tu tremi nel sonno della natura, ne hai sete e paura. Sei buia, falena piangente tra le pause della polvere.

Cara Lulù.

È cambiato tutto, ogni volta che ci diciamo arrivederci, non trovi? Con la rugiada, che ti ricordi il dondolo d’estate? Ma tanto anche se ricordassi, è cambiato tutto, le tarme si son presi i nostri baci. Dovresti aggiornarti se vuoi, magari un weekend in cui non hai niente di che da fare, così vedrai, e dovrai vedere per forza… ma so che non lo vedrai, proprio a causa di questo bugiardo continuo arrivederci.

Every time we say goodbye

Con tutta la giovane gente che si intende di alcol, e sull’alcol si intendono a meraviglia, ci sarebbe da aprire un consorzio, un gruppo: saremmo più esperti di ogni esperto in mestiere di autodistruzione. Potremmo farci buon uso, ricavarci persino uno stipendio. Me lo figuro già: “Aperti tutto l’anno, anche le gambe a suon di crampi, Yes smoking!”. Tenendo sempre e comunque le zampe libere, suvvia. Gli occhi aperti e la fame di zanzare: è quel che rimane dall’ansia di rivalsa, mentre il cielo brucia, o sarebbe meglio dire “il cielo bruciando”, come nel mutismo delle prigioni. E folla e brusio, e irrompono vichinghi imbucati, non essendo stati invitati, su e su per i colli e per i tetti, seguendo la fune, sembrano tigri e pantere, con meta la casa dell’impiccato, di cui è rimasta pinta coi gessetti colorati la sacra sindone in serie, sui muri, e il patibolo adibito al riarmo. Vento, razza di idiota. Non vedi che ora Lulù sta piangendo? Perquegli uomini tristi, certo, ma sento di ipotizzare un ferreo digiuno, almeno fino a quando non faremo l’amore di nuovo, almeno fino a quando non faremo le uova di nuovo. Solo allora i topi potranno sgraffignare in pace i bordi del legno. Ce ne andremo. E loro con grande lavorio, senza che nessuno se ne accorga, renderanno involontariamente rotonda la tavola, per noi. Solo allora potremo scendere dal soffitto attraverso la nostra tela, e sedere in pace, con tutta la famiglia radunata, con tutti i nostri figli cresciuti, usciti dai nascondigli, veramente mano nella mano, nei silenzi e nei rimpianti, anche senza avere nulla da dirci, basteranno i silenzi e i rimorsi di tutto quello che è cambiato. E nulla mi dirai più, proprio come adesso

Everytime we say goodbye.