Lisbon Beauty

Lisbon Beauty

In realtà non sapeva bene che fare, se ne stava laggiù, al numero nove di rua Cadeira, seduto in fondo al corridoio, tra il salone principale e la camera ardente, nell’attesa di procedere, o di essere parte del processo, con le mani su qualcosa di solido che mutava in liquido con enorme facilità. Non avrebbe saputo dire se fosse già ora di entrare nell’ampio vestibolo antistante la scalinata: la perfetta prefazio alle preghiere inquiete, come si trovasse tra gli incubi architettonici di Piranesi. Sull’orlo della giacca riposava una macchia, una certa dose di inconsistenza. Continuava a tastare la carta nervosamente. Sudava a ritmo forsennato, come da chi si sente fuori luogo: era teso come se stesse aspettando un segno. I lampadari del soffitto annaffiavano appena di luce fusa l’ingresso dell’edificio, ove qualcuno, dall’altra parte della hall, ad alto tono della voce, blaterava altrettante inconsistenze sull’ultima esibizione di Carmelita Finnacke, definita scialba, attempata e petulante, con appunti di natura malinconica. Una critica volta ad infastidire le tende, che si muovevano in disaccordo, sfiorando delicatamente i vetri delle finestre. Eppure non tirava un filo d’aria. Largo do Chado stanco, con la Finnacke come ultima attrazione solamente per ordine di frammento, e rigore interpretativo sul fado immerso tra i mangiafuoco amatoriali ma pensosi, coi camerieri della Brasileira indaffarati a redarguire le esibizioni multiple della povertà tremendamente impersonata da sinuose litanie che si stagliavano sino al Convento do Carmo. Con lento decorso dell’immaginazione, Feliciano mosse il pensiero dal marmo del colonnato alle rughe dell’organo che s’arrampicava lungo la verticale dell’Igreja, Sao Roque evaporata nell'estro armonico di fatti ineleggibili ed ineludibili, e il metroquadro represso dall’ansietà di ogni ascensione. Come a condurre un bisbiglio sino ai cancelli del Miradouro de Santa Luzia, immaginò i giardini dove passeggiava De Andrade, meditante ed esposto ai capricci di uomini sparsi ai bordi della fontana manuelina. Osservazioni insignificanti, polvere di maschere nude, sempre inadeguate le mani. Intanto, molti discorsi spacciati per verità, provenienti dal salone principale. Sciocchezze per una passata d’olio sulle lancette. Poiché, dal principio della Chiesa in Cadeira, sciolta dal notturno, si cominciava a sospettare l’ingresso di qualcuno di importante. Feliciano si fece ancor più inquieto, avvicinandosi al fulcro dell’attesa e della veglia. Un gruppo di donne esasperate piangeva. I rigoli sulle guance le facevano sembrare una specie di scherzo vestito a lutto. Litigavano tra loro e si mostravano confuse. Qualcuno si prostrava accanto al feretro di Rafael, serrato, e i volti impallidivano all’unisono, per le accuse molto roche che venivano lanciate silenziosamente nello spazio meditabondo; altri soggetti, nel frattempo, andavano posizionandosi attentamente sulle panchine dolenti della prima fila: tra fazzoletti dimenticati, o persi, per metonimia, nei vivi moccoli di mere solennità, c’era anche chi preferiva restare in piedi, aggrappato alle arcate della navata posteriore come se non si potesse respirare; ed in pratica, erano gli stessi che si lasciavano andare a commenti come - non si è mai sdraiato con la bellezza in vita sua - o - sai che questa notte ho fatto un sogno bellissimo, mi trovavo nei sobborghi e c’eri anche tu, però i tuoi occhi erano belli, anche se un poco spaventosi e – c’era ancora Rafael, scommetteva Feliciano, come a dire che lor sono nati, su questo non c’è dubbio, poi un domani le certezze se ne vanno lungo il Tago per meglio rifocillare le viscere contorte, o la fame occulta, come temendo l’incolumità dell’eterno divenire, esattamente quando il corso del passaggio al Cais do Sodrè si persegue con sforzo e piacere fino al ponte della sopraelevata. Ed il richiamo dell’Alcantara conducesse, per onirismo stringato, sino alla torre di Belem, sul fondo di una mano levata, la fronte scintillante di perline intermittenti che incensino il sole, per stendersi al sole, al punto di accettare il coraggioso Claudio Rosa Astarì, che propone un repertorio popolare ed integro nella sua interpretazione. Chitarra, armonica e tutta la baracca sermoneggiante. Ed anni tardivi che si trattengono dal levarsi dal letto in cui si giace con la bellezza di Pilar, che ai tempi amava la compagnia di Rafael.

Si potrebbe anche obiettare che tutto ciò non ha alcun senso di comunanza con i momenti difficili della vita di Rafael, ma non sarebbe del tutto esatto. Le sue colpe hanno forma e contenuto simile, e questo Feliciano lo sa; pure il foglietto fradicio, stretto tra le mani, reca accenni di questo tipo, leggeri guizzi come vorrei essere un bandido, e subito accanto elogio d’una piccola cosa e di un innocente brama di giacere con ogni bellezza; e subito una sigaretta da accendere inconsciamente al largo delle finestre, fuori da occhi indiscreti e rituali, perché era teso Feliciano, e in trasparenza sentiva crescere un senso di inquietudine, un insano bisogno d’opacità. E continuava a sudare senza sosta, tanto da non poter offrire la mano ai presenti, in segno di saluto. Eppure tutti regalavano un sorriso di cortesia all’uomo in disparte: ma quale dei due? Alcuni volgevano lo sguardo altrove, verso l’altare sovra cui il sagrestano stava cantando la messa, con lo sguardo assente; quasi invisibile, aveva delegato i compiti organizzativi alla fedele Mariana, perpetua inossidabile impostasi alla vigilia del processo rituale come donna santificata e conservativa, nei confronti di un uomo, Rafael Burgoss Pinto, che non s’era comportato molto bene in vita sua, e spesso s’era concesso più d’una stranezza, e di una stanza d’albergo, con la voglia di magnetizzare i corredi neutri con vista sulla Rua Augusta, in cui ovviamente era sdraiato con la bellezza (Luane diceva la sua in quanto a sensualità), e grandi silenzi della comunità e il perdono, un lungo ingresso in un mondo consolatorio e fantasmatico, bene o male, al di là della prassi probatoria, al di là e basta, il perdono suona come una filastrocca per ammansire le bestie che non dovrebbero essere ammansite affatto, per melodie soffiate dal liuto di un demone bigotto. E allora Feliciano pensante, rimuginante, ma risoluto nell’obbligo com’era di tornare a Lisbona e organizzare la dance macabre (incubo spaziale di Rua Cadeira), poiché proibita era la sagrestia principale, sempre per quel vizio rafaelico di accalorare ogni sillaba e mandare in rovina Ernesto Duarte, uomo di sani principi e rispettato albergatore, cristianissimo, alfiere della comunità, la cenere sulla moquette, la stanza trasformata in un mostro che divampa nella notte sorda e indifferente, e Violante spaventata a morte e stretta nel kimono. Così il conteggio del tempo che divide Oporto da Lisbona, e ritornare come sfere inermi alla processione obbligatoria; ma Feliciano questo lo aveva bilanciato, logica morale, con una mano insidiosa attraverso la tasca, dalla quale fuoriusciva il portafogli posto alla perpetua con un ghigno ritroso e accondiscendente, poco più in là il testamento di Rafael; e la giacca, lì si era macchiato Feliciano, irrimediabilmente, nel tempo di un favore ad un amico disteso finalmente con la bellezza - ancora un po’ fratello e la fiamma ti abbraccerà sfiorandoti, si poserà su di te - sembrava dire la bellezza, o Feliciano, poiché sempre a lui spettava l’ingrato compito di pensare a qualcosa di compiuto, o dirlo senza dirsi nervoso, attraverso un microfono abbarbicato ad un tavolo buono per una conferenza sull’opera di Almeida Garrett (non certo per il funerale pastorizzato dal prete lamentoso), cosa che peraltro gli sarebbe valsa minor sforzo, la noia di improvvisare una cantilena stringata sulla vita di un uomo irriducibile, che non si era mai sdraiato con la bellezza, secondo loro, e nella chiacchiera lo scherno di ricondursi ad anguste stanze d’albergo, piene di violenza e di viaggi iracondi, piene di rimorsi per quel che si poteva volere diversamente, ma che in fondo è stato solo un gran odore di rossetti e di Cozido sulle lenzuola pulite.

Forse solo ora, o meglio, in quell’adesso travestito dall’ora di cena, quando la gente è stanca e i corpi appesantiti non sono più un fatto personale, ma l’affare solidale e condiviso dalla comunità, così proprio allora pensò di farsi avanti, per accendere il commiato ed incendiare lo spento verbo ecclesiastico, a prova di microfono che avrebbe fischiato tanto forte da raggiungere il rosone; l’organo non avrebbe seguito il pentagramma, ma suggerito un certo silenzioso rispetto, interrotto da un colpo di tosse per dirsi Feliciano, per dire – sono stato uno dei migliori amici di Rafael Burgoss Pinto, ci teneva che parlassi qui ed ora per lui, era una brava persona, sono state dette tante cose ingiuste sul suo conto, ma non importa.

Io l’ho amato, in un certo senso, semplicemente, senza pudore, e così ho conservato alcuni suoi appunti che ho reperito tra le carte del tribunale, i ricordi ovviamente, moltissimi, che conservo qui con me, qui dentro me, una vita, se sono ancora tangibile io stesso, assieme a questa specie di testamento microscopico che vorrei leggere ad alta voce, se non fosse che si tratta ormai di pura cartapesta tra le mie dita sciolte dalla calura. Le mie mani schifose bagnano le vostre più pulite e imbarazzate. Dovreste davvero sapere che io vi odio per quel che avete fatto a Rafael. Per tutte le comode calunnie. Forse voi ipotizzate, dalla trasparenza delle vostre superfici, che non si distese con la bellezza, ma io posso giurare che questo non è vero. Non aveva fede, certo, ma era fedele alla sua linea di pensiero. Ho qui con me un foglio che potrebbe gettare luce sulla sua vera filosofia, una nuova parvenza, e che potrebbe spiegare molti dei suoi problemi, o almeno i motivi che lo hanno portato alla catastrofe, che ancora non abbiamo il coraggio di spiegarci, accettare, o forse semplicemente di sapere. Che dite di perdonare, ma non potete. Non lo farò. Non parlerò. Perché “dirvi Rafael?” Non sarebbe rispettoso nei confronti di un uomo che, come tutti, ha diritto ai suoi segreti … – avrebbe voluto gridare alla navata, in un pensiero tanto vertiginoso quanto illeggibile e lontano, perché in fondo ingiusto anch’esso, e confessionale e volubile e brulicante quanto l’insopportabile mezzanotte, perché nel tempo dell’attesa insormontabile non proferì alcun sussurro, e continuò a rovistare le tasche con le mani, a passeggiare avanti e indietro seguendo puzzles inesistenti sul pavimento, proseguendo con la mente ad elencarsi i compiti da svolgere, attentamente, la procedura, il rituale, la diplomazia, afferrando con fare tremolante gli occhiali dall’interno della giubba, indossandoli come fossero sempre scivolosi e instabili, sempre con una riga sul vetro che riprendesse le migliaia di ferite alluse dagli occhi delle finestra di quella falsa cattedrale che, a sua volta, probabilmente, non si era mai sdraiata con la bellezza, benché la vantasse appiccicata alle pareti ad honorem et in firma di André Gonçalves. Contrariamente a quel che invece potessero affermare, con la sola presenza frantumata, le finestre di quella oscura, sfumata e scomparsa stanza d’albergo, ed Amanda impotente che corre sino alla portineria, qualcuno chiami un’ambulanza, la prego, qualcuno chiami. L’ambulanza… Si muova - E la Baixa indifferente, impersonale e col dito puntato.

Con questo umore lacerato, Feliciano si diresse al corridoio centrale, indeciso se lasciare tutto così com’era, sospeso dalla colpa e divorato dalle altrui trasparenze. Ma non appena ebbe superato le prime panche, cadde il silenzio sulla stanza, nel mentre di un uomo sulla quarantina che, distratto rispetto al progressivo sgretolarsi dell'Igreja, stava scherzando con una mora olivastra, corpulenta e malandata che gli sedeva accanto (tutt’altra immagine rispetto alla bellezza) - sconosciuti e distanti da Rafael, che avrebbe amato l’incredibile tramonto sul Chado di quelle sere, vedendo il cielo dipingersi di immagini nitide, tra morfologie materiali e assilli meravigliosi. In latitanza, riempiendosi di concetti senza lo scarto di miglia più mentali che atmosferiche, intento a rigirare la figlia di Joao Evér per contarle i nei sulla schiena e tracciarne una mappa immaginaria, farla sorridere perché quando sorride è la più bella dell’Alentejo. Pura luminescenza. Ma giunto ormai all’ultima boccata della sigaretta, Feliciano pose la resa tutta nell’orecchio, aggredito dalla perpetua che gli domandava: “Possiamo procedere?”, con tutta la calma di cui dispone un burocrate carontesco che conosce il momento giusto per fissare l'ultimo saluto. Mentre confuso si guardava intorno, Feliciano assaporò un senso sbieco di nausea che salì fino in gola e fu tentato di nominare uno per uno i presenti, sillabandone i tratti, per mandarli al diavolo una volta per tutte, in nome di Rafael e della sua desolazione, ma abbandonò l’ennesima intenzione, sostituendola con l’immagine di se stesso incapace di distinguere le sagome attorno a sé.

Lanciò un ultimo sguardo, con ritmo nevrotico delle pupille, alla cassa lucente di Rafael, caricata da un paio di adepti nerboruti su di un elegante carro inglese, che la portasse alla Madalena per gettarla in pasto all’incavo bollente, col magma a dominare le vite serpeggianti della cassa e del corpo.

Preso da un impeto che non seppe spiegarsi, Feliciano lasciò perdere ogni forma di ritrosia vellutata e cordiale, ed ignorando ormai completamente la realtà, pensò che fosse meglio andare a stendersi da qualche parte in quella Lisbona divorata dalla notte, magari al Sao Jorge o in una stanza d’albergo dove potesse lavarsi le mani, con calma ordinare la cena, e cercare di sdraiarsi con la bellezza dopo aver spento la lampada sul comodino, nel cui cassetto avrebbe lasciato una specie di foglia accartocciata, anfibola e madida di sudore in cui ormai si leggevano solamente tre parole: Eu não mudo.

*Lisbon Beauty è tratto dal volume di Leonardo Gatta, “Z”, Pungitopo ed., 2022, in via di pubblicazione